Capitolo delle Fonti – Assisi, 12 novembre 2011

Giotto: Storie di San Francesco - La rinuncia agli averi - Assisi, Basilica Superiore.

Giotto: Storie di San Francesco – La rinuncia agli averi – Assisi, Basilica Superiore.

Francesco ha chiesto a chi ha voluto seguirlo, a chi ha voluto seguire la sua proposta di vita, un forte impegno, volto a comprendere, in modo pienamente consapevole la forza e la profondità delle poche ed incisive parole che egli ha lasciato con i suoi scritti. L’inizio della settima Ammonizione dice che “sono uccisi dalla lettera coloro che desiderano sapere soltanto parole in modo da essere ritenuti più sapienti degli altri e possano acquistare grandi ricchezze e darle ai parenti ed agli amici”. Per non restare uccisi, annichiliti dalle parole occorre dunque saperle in un altro modo, per conseguire altre utilità, più ampie e più alte. Duecento anni dopo uno dei più formidabili interpreti del rinnovamento francescano, Bernardino da Siena, in una predica davanti ai cittadini senesi dirà che le parole non hanno un senso se si guarda alla loro “scorza di fuore”. Noi oggi vogliamo considerare la parola chiave dell’identità francescana, il segno semantico decisivo che ha distinto – anche in modo fortemente problematico – l’esperienza religiosa ed umana, sociale e civile di Francesco, della fraternitas e dell’Ordo sin dai primi passi di quella vicenda storica. Proprio per queste ragioni genetiche, quindi non come scelta limitativa ma come opzione metodologica e storica, prenderò in considerazione quasi esclusivamente gli scritti di Francesco e dei primi decenni di vita dell’esperienza minoritica intesa nella sua più ampia latitudine, dunque non solo quella riguardante il primo Ordine.

PAUPERTAS
L’altissima e santissima paupertas degli scritti del Fondatore non è, innanzitutto, la povertà dei poveri è un’altra povertà, è la umile e forte povertà volontaria. Da questo concetto composto ne discende – per Francesco stesso e per l’identità francescana – un primo duplice fondamentale riconoscimento:

a) Riconoscimento della volontà, della scelta, quindi della centralità della dimensione volitiva e della consapevolezza del soggetto, in un’epoca in cui, così continua a dirci una parte prevalente della storiografia, l’idea dell’uomo come singolo attore del mondo, come individuo, non era né scontata né diffusa: il potere si pensava per ceti, in pittura non era ancora concepito l’autoritratto, la società era un corpo unico distinto per funzioni strumentali.

b) Riconoscimento della proprietà, come dimensione che appartiene all’uomo, dalla quale chi vuole sceglie di allontanarsi, ma con la quale occorre fare i conti, in ogni dimensione nella quale essa si manifesta e prende forma, occorre fare i conti soprattutto direi da parte di chi sceglie di rinunciarvi.

La paupertas voluntaria è quindi un vero e proprio sintagma, cioè, come dicono i linguisti, un’unità minima di significato che si può comprendere solo se restano insieme entrambe queste due parole. Essa vive, ha un significato che si sprigiona in tutta la sua potenzialità solo nel rapporto che Francesco stesso ha stabilito tra volontà e povertà: un rapporto che si sostanzia nella scelta di non possedere, di non usare le cose del mondo in modo proprietario. Ciò comporta – per poter vivere sulle tracce di questo insegnamento – concepire necessariamente un uso non proprietario dei beni. Questo non significa, a sua volta, capovolgere le gerarchie dei rapporti sociali ed economici, ma determina la necessità di ripensare radicalmente i valori e le logiche che sono alla base del potere, cioè della concezione proprietaria del mondo

  • in primis dell’economia fondata sul denaro monetato;
  • in secondo luogo del governo come esercizio proprietario del potere, sugli uomini e sui beni. Logiche, forme e valori che Francesco stesso conosceva benissimo per la sua appartenenza ad una civitas e ad un mondo mercantile che stava contribuendo in modo determinante a spostare l’asse della ricchezza dalla proprietà di cose immobili e dalla proprietà sulle persone – tipica dell’Alto medioevo – alla ricchezza come possesso di beni mobili, alla proprietà di denaro monetato, una ricchezza quindi sempre meno fatta di tesori aurei o beni preziosi.

paupertasIl divieto dell’uso del denaro inteso come forma monetata, come pecunia, che è una delle norme più caratteristiche ed incisive contenute nei testi di Francesco e della testualità normativa dell’Ordine, si inscrive in questo contesto forte, di ripensamento delle logiche dell’economia e del potere. Si pensi che in un codice di regole pratiche per i frati – scritto sicuramente prima del 1260 – appartenente ad un convento di Terni ma ora in un archivio francescano di Toledo, veniva proibito ai frati di toccare il denaro foss’anche per via mediata, con un pezzo di legno o con la cera, e, nello stesso tempo, veniva vietato l’uso dell’aggettivo tuo e mio. Non si tratta evidentemente di ingenuità medievali, si tratta della testimonianza di un intenso sforzo di comprensione, della volontà di andare oltre la scorza delle parole, oltre il mero dato prescrittivo del divieto di possedere il denaro-oggetto ed essere poveri sulla carta o, potremo dire, poveri sulle labbra. Tutto questo non produce rifiuto e condanna dell’economia e della ricchezza in sé, né, tantomeno, condanna del vivere civile. Infatti Francescanesimo e povertà volontaria non significano scelta monastica o eremitica, anzi, la scelta è di vivere dentro la civitas e fuori dal chiostro, in piena relazione con tutte le forme organizzate della vita sociale dalle quali l’Ordo stesso sceglie di “dipendere” ponendosi in stato di minorità: non più dalle decime della Chiesa, ovvero dalle tasse che venivano riscosse nella misura del 10% su tutti i prodotti della terra, del lavoro dell’uomo e delle sue transazioni, ma “dipendendo” dalle ricompense, vale a dire da ogni forma di riconoscimento civile ed economico che le comunità cittadine esprimevano in contraccambio di ciò che gli uomini, e le donne – almeno nella versione di Chiara –, offrivano alla comunità stessa:

  • lavoro manuale
  • predicazione
  • impegno verso coloro che stavano dentro la civitas ma erano invisibili o quasi invisibili:
    • mi riferisco ai non cives, a quelle persone a cittadinanza attenuata (lavoratori che venivano da fuori della giurisdizione cittadina, ragazze orfane prive di risorse economiche e quindi dotali, poveri vergognosi, ovvero possidentes che avevano perduto tutte le loro ricchezze ecc.).

È solo in carenza di questa forma di riconoscimento per il lavoro prestato alla civitas ed agli uomini che la abitavano che Francesco e la Regola autorizzano il ricorso all’elemosina ostiatim, di porta in porta e mai accettando del denaro. Quindi occorre stare attenti a non schiacciare – antistoricamente e soprattutto facendo un torto alle parole normative del Fondatore – la paupertas volontaria sull’elemosina come se questa fosse la forma di vita tipica dei Minores (Testamento, in FF 120, p. 101).

PAUPERTAS VOLONTARIA
COME USO NON PROPRIETARIO DEI BENI

Ciò significa – per ogni francescano – interrogarsi sul senso dei rapporti di scambio economico, sul valore del denaro, ma anche su quali siano i beni che sono scambiabili, quali siano i beni che devono essere considerati in comune, come e da chi debbano essere gestiti, tutelati, accresciuti. Un nocciolo evangelico che viene portato al centro della riflessione dei veri poveri ad esempio in un passo del Sacrum Commercium cum Domina Paupertate (SCCDP), ma che potremo agevolmente rintracciare anche nei testi normativi originari dell’Ordo minorum, è chiarissimo in questa direzione: “Nulla abbiamo portato in questo mondo, nulla di certo possiamo portarne via; quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci contentiamoci di questo” (SCCDP, in FF 1982, p. 1293).

Questa non è l’ascesi, l’isolamento anacoretico, qui non si passa sopra il mondo, non si codifica il suo rifiuto ma si pone all’attenzione di ogni seguace di Francesco l’uso consapevole di ciò che il mondo e l’uomo offrono e producono, c’è un invito obbligato quindi a riflettere sulle pratiche economiche e le logiche dello scambio tra gli uomini. Essere poveri volontari significa quindi comprendere e distinguere le logiche proprietarie dalle logiche non proprietarie nell’uso delle cose e dei diritti, distinguere tra ciò che può essere mio o tuo e ciò che può essere condivisibile, senza per questo apporre il segno dello stigma su chi non comprende questa forma di vita che non è monastica ma integralmente sociale.

La povertà come condizione scelta implica da subito quindi capire che tutto il mondo, natura compresa (si pensi allo stesso Cantico delle Creature), è bene comune, è gamma infinita di risorse da gestire in modo non proprietario, cose che non devono essere ammirate esteticamente, ma considerate risorse del mondo delle quali occorre capirne le potenzialità nel rispetto ragionato. Si legga Il Cantico delle Creature: “Laudato si mi Signore per frate Vento e per Aere e Nubilo e Sereno e onne tempo per lo quale a le tue creature dai sostentamento … per sora Aqua la quale è molto utile … e preziosa … per sora nostra matre Terra, la quale ne sostenta e governa e produce diversi fructi”.

L’acqua non è solo una bellezza della natura da contemplare, ma è dotata di utilità e di valore, integra, con il variare delle condizioni climatiche, il sostentamento che la terra offre nella larghissima diversità dei prodotti che ne scaturiscono, e spetta all’uomo non ammirare ma comprendere e valorizzare in termini di utilità e di sostentamento questa ricchezza. Senza l’uomo e la sua capacità di capire l’utilità dei prodotti della natura, la correlazione con le necessità degli uomini, non avrebbe senso esaltare – come fa invece Francesco – la diversità dei frutti e dei prodotti, il che significa mettere l’accento sul discernimento, sul senso del consumo e dello scambio, sulla differenza che esiste tra un oggetto indeterminato, neutro perché privo di relazioni con l’uomo, ed un oggetto-risorsa che si qualifica come un bene del mondo.

Di qui – da questo modo di rapportarsi ai beni ed alla natura – deriva anche la concezione, la comprensione ontologica del potere e dell’esercizio del potere che non può essere più

  • dominium feudale, cioè dominio assoluto dell’uomo sull’uomo, del servo legato al dominus ed alla terra che non gli potrà mai appartenere,
  • né una modalità personale e proprietaria dell’uso del potere e delle risorse che appartengono invece alla comunità che le mette in comune, per il bene del comune. E, incidentalmente, ricordo qui che i francescani già all’inizio del XIV secolo sostengono che uno di questi beni è costituito dalla moneta, che non è patrimonio del sovrano ma della comunità. Questo lo dice tra l’altro un futuro generale dell’Ordine, Alessandro di Alessandria, condannando il legislatore che svaluta la moneta.

Se il potere è compreso, sin dalla sua genesi, come forma antropologicamente non proprietaria, non autocratica perché non destinata all’acquisizione personale e patrimoniale delle risorse e del denaro, ne deriva che il potere – che non è mai negato – è ministerium.

ALLA LUCE DELLA POVERTÀ VOLONTARIA RIPENSARE IL FONDAMENTO DEL POTERE
Il Capitolo delle FontiAttraverso la chiave della povertà volontaria il francescano è in grado di ripensare al fondamento del potere, dunque di aprire un ragionamento sulla legittimità del potere, cosa che farà in modo compiuto già Duns Scoto nel primo ‘300, ma anche, e ancor prima, è capace di distinguere – in una prospettiva nuova ed originale – il potere dal principe, la corona dal re.
Attraverso la povertà volontaria si apre – come dire – uno squarcio di incredibile chiarezza attraverso il quale il francescano guarda il potere, comprende che il potere non è la persona che lo esercita. Il potere si dà, è eticamente e francescanamente agibile, attraverso la via del servitium, del farsi strumento e dell’offrire instrumenta, tools and skills direbbero oggi per farsi belli, magari da Fabio Fazio, i sociologi ed i politologi, offrire ed utilizzare strumenti ad ogni livello di responsabilità e di status sociale per produrre il bene ed il profitto della res publica.
Questo è un pensiero francescano compiuto, leggibile già nel secolo di Francesco, pienamente maturo agli inizi del XIV.

Ed un tratto genetico di questa riflessione, un filo rosso di questo pensiero francescano, si trova proprio nel commento di Francesco al Padre nostro esattamente nella frase cruciale relativa alla remissione dei debiti tra gli uomini (Commento, in FF 273, p. 190). “Come noi li rimettiamo ai nostri debitori” – dice Francesco – significa avere la capacità – il potere – non di rendere l’equivalente, il bene per il bene o il male per il male: “a nessuno si renda male per male”, ma “si cerchi di giovare a tutti”, “in te” che costituisci l’orizzonte comunitario, il vettore e la direzione della realizzazione dell’etica pauperista e caritativa.

Giovare a tutti significa conseguire utilità relative, di modo che tutta la comunità possa godere, in ogni suo singolo componente, di una quota di ricchezza che possa di nuovo circolare.
Darsi la possibilità, assumere il potere di rimettere il debito, un debito in terra, significa garantire a ciascuno – e reciprocamente – nuove quote di libertà e di agibilità produttive, in un circolo virtuoso che non può che essere permanente perché la comunità vive se questo si realizza continuamente, secondo la logica del Padre Nostro che descrive questo meccanismo come un meccanismo permanente appunto, quotidiano, come il pane che mangiamo.
Si ricordi che la forza di queste parole di Francesco deriva dal fatto che egli riflette su queste frasi del Padre Nostro non come se fosse l’analisi di una orazione “ascetica”, chiusa in un rapporto mistico tra orante e Dio, ma proprio come la traccia normativa ed etica per le relazioni comunitarie.

Non a caso il Padre è nostro, non è mio; non a caso il debito di cui parla questa parte del commento non è quello che Dio rimette agli uomini, ma è il debito terreno, che si realizza e può determinare un vincolo solo tra coloro che sono parte di una comunità, tra coloro che hanno stabilito o preacquisito un rapporto civile e politico, un codice relazionale fatto di patti e convenzioni da rispettare, hanno convenuto un luogo, un foro, un agorà, per la realizzazione di uno scambio, cioè di un commercium.

È in questo quadro di pedagogia – che può essere legittimamente definita politica – che va compreso il senso dell’analisi del Padre Nostro proposta da Francesco. Nella prospettiva pauperista indicata dall’Assisiate e sviluppata lungo una durevole tradizione minoritica sin dal XIII secolo, tutti i beni sono quindi utili, sono potenziali risorse, ma il loro valore non è un valore in sé, intrinseco, idolatrico, reificabile, esso è relativo e relazionale, come il debito che gli uomini contraggono e assolvono tra di loro.
Lo stesso denaro non ha valore in quanto posseduto e tesaurizzato, ma vale in quanto utilizzato, fatto circolare, moltiplicato, reso produttivo non solo per la sufficentia vitae della comunità – per la sopravvivenza fisica di ciascuno – ma anche per il benessere dei suoi cives. Questa è una delle costanti delle analisi francescane tra Due e Cinquecento. Pietro di Giovanni Olivi, nel secolo di Francesco, e poi Duns Scoto nel 1305, diranno che il prezzo di una cosa, di un bene, non dipende dal suo valore intrinseco ma dal valore di chi la vuole, ne ha bisogno o la desidera, altrimenti non si capirebbe perché il pane che serve alla vita valga così poco rispetto ad una pietra che non garantisce la sopravvivenza di nessuno.

Il prezzo e la moneta – come misura dei valori dei beni scambiati – si possono quantificare entro un equilibrio dinamico e relativo, non aritmetico ma geometrico, perché, come diceva già Aristotele, il valore di scambio dei beni si realizza nel punto di intersezione di due diagonali che partono una dal produttore di un bene che guarda al prodotto di un altro produttore e l’altra da quel secondo produttore che guarda al prodotto del primo produttore, che lui non ha. Questa è una linea di pensiero francescana che attraversa tutti i secoli medievali e dell’Età moderna: da Pietro di Giovanni Olivi sino a Pacifico da Novara che in pieno ‘500 ragiona sull’utilità del mercato e del denaro.
Sul piano storico e sul piano religioso tutto questo significa che l’insegnamento di Francesco determina, obbliga i francescani a riflettere sulla funzione produttiva e repubblicana del denaro, una riflessione che cresce in lucidità e spessore assumendo velocemente un respiro europeo che fornirà vocabolari, strumenti interpretativi e linfa filosofica alle dottrine politiche repubblicane e di etica civile sia nei territori della Riforma protestante che in quelli che diverranno di osservanza cattolica e tridentina. Faccio solo quattro nomi: Altusio e Calvino da un lato, Juan Luis de Molina e Azpilcueta, gesuiti ed esponenti di punta della seconda scolastica spagnola dall’altra.

Ciò che conta, in definitiva, nel rapporto del povero volontario con il denaro sono tre cose, tre aspetti che toccano nell’essenza il rapporto tra potere e denaro:

  • la consapevolezza che non serve possederlo, ma farlo circolare
  • che esso è solo una delle possibili misure del valore degli scambi e dei rapporti economici e sociali, e non è il denaro come pecunia, come forma metallica la vera essenza e quantificazione della ricchezza.
    La ricchezza può assumere altre vesti e valere molto di più:

    • può essere non moneta ma credito,
    • può essere risorsa naturale,
    • può essere la fiducia tra i mercanti a sprigionarla,
    • può essere la credibilità tra gli attori sociali a dare forza e garanzia ad un progetto,
    • può essere contenuta nella gratuità di prestazioni che concorrono a costruire una compagnia, una società o un Monte di Pietà, vale a dire un istituto che attiva linee di credito e microcredito ad interessi vicini allo zero per rimettere in moto la circolazione di beni, o per consentire a chi non ha denaro di conquistarsi un primo piccolo capitale che potrà restituire con tassi bassissimi,
    • può essere la credibilità di chi amministra la moneta, o di chi la sa commerciare, e non il suo valore nominale a misurarne il valore, a rendere davvero forte una divisa.

Sono tutte riflessioni formulate non da economisti post-smithiani, ma dai pauperes Christi nei primi due secoli di vita dell’esperienza francescana. Quindi la vera ricchezza, nella sua dimensione economica ed in quella sociale e politica, sta più nella dimensione immateriale che in quella materiale. La terza cosa, che discende direttamente dalle prime due, il terzo aspetto dirimente e conclusivo del rapporto tra povero volontario e denaro è sapere che esso non è in sé, né per quantità né per possesso, potere. Di qui nasce necessariamente una nuova misura – formulata attraverso il paradigma della povertà volontaria – del potere.
Un potere che intanto non coincide più né con colui che possiede più denaro, ma nemmeno con colui che possiede il potere: il potere è tutto nei soggetti capaci di operare per la messa in circolazione dei beni che sono utili alla comunità, alla res publica.
Il più idoneo governante, esemplato sul modello largitivo del Cristo passionato e – necessariamente – sul modello di Francesco stigmatizzato/alter Christus,

  • è chi usa in modo non proprietario non solo delle ricchezze ma del potere stesso
  • è chi sa governare fuori da un rapporto personalistico con la carica che riveste proprio perché essa non è sua ma è ministeriale, di servitium,
  • il più idoneo governante è chi si applica nella comprensione delle utilitates della res publica.

DOMINA PAUPERTAS PARADIGMA DI CIVILITAS

La raffigurazione della Concordia, virtù del buon governo. Particolare dell’affresco di Lorenzetti - Simone Martini, Palazzo del Comune, Siena.

La raffigurazione della Concordia, virtù del buon governo. Particolare dell’affresco di Lorenzetti – Simone Martini, Palazzo del Comune, Siena.

Non è un caso che anche in un testo considerato come il manifesto, l’apologia della scelta rigoristica della povertà, il Sacrum commercium cum domina paupertate scritto tra il 1260 ed il 1270, ma che si richiama evidentemente alle parole di Francesco del cosiddetto piccolo testamento scritto nel maggio 1226 (i frati “sempre amino ed osservino nostra signora la santa povertà”) Paupertas ci sia presentata come una Domina, dunque una signora – nel senso latino di chi ha facultas e potestas – la quale, proprio in quanto signora, esprime la sua pienezza volitiva e in quanto Domina Paupertas è dotata di competenza conoscitiva e di consapevolezza.
“Non sono grezza ed inesperta, come molti ritengono, ma ricca a sufficienza di giorni e di anni per conoscere l’andamento delle cose, la diversità delle creature … Per lunga esperienza, per sottigliezza d’ingegno e dignità di grazia conosco le oscillazioni del cuore umano”.
Quindi questa signora, e chi la segue, possiede doti, competenze e una forte autoconsapevolezza. Sa guardare alle cose, alle vicende degli uomini, assume questa consapevolezza come la realizzazione di un proprio compito.
Inoltre, questa Domina non è avulsa dal mondo, ma si costituisce come un paradigma di civilitas. In un passo del Sacrum Commercium (SCCDP, in FF 1996, p. 1300) essa rivendica questa sua volontà e consapevolezza di non essere incivilis, vale a dire di non stare fuori dalla civitas, dalla civilitas e dalla res publica ma di essere soggetto civilis. Sono i falsi poveri quelli che ritengono che l’adesione piena alla povertà sia l’adesione all’oziosità ed alla rozzezza, sono essi ad accusare ingiustamente Domina Paupertas di essere incivile.

Invece i buoni poveri, coloro che hanno capito oltre la scorza delle parole il significato di paupertas, sono “uomini amabili, umili nella prosperità, sobri alla mensa, assai moderati nel vestito”, “tesi a serbare la concordia degli animi e l’unione”, e, per tutto questo “sono scarsi nel sonno”.
Questi sono i veri pauperes.
Ma per chi ha dimestichezza col pensiero umanistico civile due-quattrocentesco, in questo testo pauperista si legge la proposta forte e consapevole dell’ideale del civis operoso, consapevole del valore politico e del senso della civilitas, quasi una descrizione iconografica ante litteram dei cives che lavorano al buongoverno e all’implementazione del bene del Comune dipinto da Lorenzetti e Simone Martini nel Palazzo del comune di Siena un secolo dopo queste parole francescane, e modello centrale dei sermoni di Bernardino pronunciati sul Campo di quella città nel 1427.
Si pensi alla con-cordia ed alla sua rappresentazione in quell’affresco (V. ill. p. 19).
Concordia cum + cor, cordis, i cuori che battono all’unisono. Ma nell’affresco civile di Siena e nei passi francescani del Sacrum Commercium, o in quelli di Bernardino da Siena che predica davanti a quell’affresco, concordia è rappresentata da una donna che tiene le corde, utilizzando una falsa, ma concettualmente appropriata, derivazione da cum + chorda. Questa donna unisce le corde della giustizia distributiva e della giustizia commutativa. Il percorso delle corde – che si intrecciano e ne formano una sola – è, di mano in mano, tenuta da ventiquattro cittadini che stanno procedendo verso il personaggio più importante di tutto l’affresco. La corda infatti prosegue il suo cammino finendo legata allo scettro tenuto in mano dal personaggio seduto su uno scranno. Che cosa rappresenta questo vecchio dalla barba bianca e dallo sguardo grave? Un cartiglio nello stesso affresco recita: “Questa santa virtù (cioè la Concordia), là dove regge, induce ad unità li animi molti e questi, a cciò ricolti, un ben comun per lor signor si fanno“. Dunque si tratta del Bene Comune simbolicamente inteso, ma anche del Comune nella sua concretezza politico-amministrativa. Più precisamente del Comune di Siena. Il nostro personaggio è infatti vestito di bianco e di nero: i colori di quella città.

Che i frati debbano stare nei comuni, nelle civitates, negli spazi della politica e dove si commercia, si scambiano beni e valori è il Testamento stesso di Francesco a dircelo: essi devono stare nelle civitates, provare ad esserci e a lavorare in tutte, anche in quelle dalle quali potrebbero essere cacciati, provvedimento che essi accetteranno, andandosene, in ossequio al principio del rispetto del potere e dell’auctoritas stabilito da Francesco stesso (Testamento, in FF 123, p. 102). Ma questa prescrizione sarà sempre meno la regola da osservare perché il valore e la forza del francescanesimo saprà penetrare nelle civitates e nei regna d’Europa proponendosi anche come soggetto capace di costruire un’etica ed una pedagogia per il governo e per i governanti.
Bastino – sul piano storico – due soli dati esemplificativi:

  • la diffusione dei conventi in Europa nel solo primo secolo di vita dell’Ordine
  • la presenza dei francescani come consiglieri ed ambasciatori nelle istituzioni di una delle realtà politiche più dinamiche e più ricche del Bassomedioevo, la corona catalano-aragonese che si estendeva da Valencia a Palermo, passando per Barcellona e Napoli, assi commerciali dell’intero bacino mediterraneo occidentale.

Nel solo periodo compreso tra il regno di Pietro III (1276-1285) e quello di Alfonso il Magnanimo (1416-1458), anche se si escludono da questo calcolo le decine di vescovi minoriti nominati su impulso diretto dei regnanti aragonesi, il numero complessivo di esponenti francescani operanti presso le istituzioni politiche della ‘confederazione’ ammonta ad almeno 130 unità. Un numero che, per ragioni di semplificazione, non tiene conto del fatto che alcuni di questi ricoprirono il medesimo incarico presso diversi regnanti succedutisi sul trono aragonese o su quello siciliano, né della presenza minorita alle corti dei re di Napoli nella seconda metà del ‘400. Si tratta di confessori, consiglieri e ambasciatori di re e regine. Proviamo dunque a concludere, proseguendo in quella riflessione sui testi che per il francescano medievale veniva giustamente descritta, per la sua utilità conoscitiva, come ruminatio.

QUAL È L’ORIZZONTE DI AZIONE DI PAUPERTAS?

La mano di Cristo e quella di Francesco inchiodate sulla medesima croce, frontespizio del “De conformitate” di Bartolomeo da Pisa, 1513

La mano di Cristo e quella di Francesco inchiodate sulla medesima croce, frontespizio del “De conformitate” di Bartolomeo da Pisa, 1513

Leggiamo ancora il testo apologetico ed identitario della tradizione francescana scritto meno di quarant’anni dopo la morte di Francesco. “Ed ella, dopo un sonno placidissimo … si alzò alacremente (si noti l’ennesima sottolineatura dell’attivismo, dell’operosità e della sollicitudo che fa il pari con quella descrizione dei veri poveri come “scarsi di sonno”), chiedendo [ai frati, buoni poveri che la ospitavano] che le fosse mostrato il chiostro. La condussero su di un colle e le mostrarono tutt’intorno la terra fin dove giungeva lo sguardo, dicendo ‘Questo, signora, è il nostro chiostro’”. (SCCDP, in FF 2022, p. 1311).
È questo l’orizzonte in cui si realizzano le buone pratiche non proprietarie. Non è un orizzonte di dominio possessorio, ma è un orizzonte vasto, un progetto consapevole. È un itinerario ed una dimensione di azione e di azioni da realizzare per una comunità, per una res publica, perché il senso di ogni azione è relativo ai soggetti ed ai beni che quei soggetti devono poter utilmente gestire, è relativo ai beni condivisi e condivisibili.

Vediamo come viene tradotto tutto questo in un testo scritto da un francescano che partecipa al movimento di rinnovamento dell’Ordine alla ricerca del messaggio originario del Fondatore, essendo parte del movimento dell’Osservanza, in un’opera, quella che leggeremo, stilata come testo di riferimento per il buon governo del Regno di Valencia, destinata ai responsabili della gestione del potere di quel territorio tra i più dinamici del Mediterraneo trecentesco, un testo che, per il suo valore, resterà per oltre un secolo materialmente incatenato al tavolo delle sedute dell’organo di governo, del consiglio dei magistrati di quella città.
“Le grandi opere che i gentili compirono a vantaggio della cosa pubblica confondono molto quei cristiani che Paolo definisce come incapaci di comprendere il messaggio non proprietario e caritativo di Cristo di coloro che desiderano tutte le cose per sé stessi e non per Cristo [il riferimento è a Filippesi 2, 21]. Questi cristiani, incapaci di capire il senso di quelle parole, meglio attuate da chi non potè conoscere l’insegnamento evangelico, i “gentili” appunto, non comprendono che quelle cose non sono loro ma di Cristo; questi sono coloro che Paolo descrive come quelli che cercano il proprio personale profitto e non quello di Gesù Cristo”. Ma questo francescano – Francesc Eiximenis – così come farà un cinquantennio dopo Bernardino sul Campo di Siena – non si arresta qui, non si ferma ad un monito morale, egli intende entrare nella profondità di quel versetto, andando oltre la scorza delle parole – e dice ai suoi interlocutori che sono in primis i governanti ed i mercanti della città e del Regno di Valencia: qual è il bene di Gesù Cristo?

È quello della res publica, il profitto per la res publica è opera di Gesù Cristo perché è opera santa mantenere la res publica: una comunità che è fondata su una concezione partecipativa dei beni, che devono circolare tra coloro che la compongono ed operano per il suo accrescimento”. È infatti per amore della res publica – sono parole di Eiximenis – che Cristo scese tra noi e nei suoi trentatré anni di vita terrena ci educò a questa dottrina di amministrazione dei beni e della comunità e per amore della res publica egli accettò la morte, per la sua salvezza, per il suo mantenimento ed accrescimento”. La vera ricchezza – dice il pauper Christi – è posseduta da chi ha la caritas cioè questo metodo di amministrazione della cosa pubblica, questo modo di intendere e rafforzare il bene comune, è questi che è veramente ricco”.

Questa vera povertà costituisce la vera ricchezza questa consapevole povertà scelta e praticata, è ricchezza individuale e comune e, oggettivamente, forza della res publica.
Se guardiamo quindi a Paupertas attraverso la lettura del Padre Nostro offertaci da Francesco e attraverso la chiave interpretativa che ci è offerta dal frate catalano, esponente esemplificativo di una larga scuola francescana che scrive e riflette in quegli anni da Oxford a Colonia, da Parigi a Barcellona, da Firenze a Napoli, Paupertas non è solo un’etica di governo ma anche un’etica forte e consapevole proposta per l’uso del potere.
La vera essenza, pregevole, durevole, adamantina, della paupertas volontaria, è la sua potenzialità di farsi discorso sul potere, un discorso che si sostanzia in un duplice risultato: scardina una concezione proprietaria, personalistica e verticale del potere, non per negarlo, ma per trasformarlo in una concezione ministeriale, orizzontale e distributiva che trova nell’esegesi del Padre nostro che abbiamo appena considerato e nella Passione caritativa di Cristo i suoi modelli di riferimento.

Qui gli esempi sarebbero molti ma ne scelgo solo due:

  • il primo perché costituisce un vero modello proposto per la realizzazione della spiritualità francescana. In sintesi: questo è un testo offerto al frate come modello per la realizzazione nel mondo del valore pauperistico e caritativo della Passione di Cristo ed ecco i due passi dello Stimulus amoris scritto da Giacomo da Milano intorno al 1270, ma per tutto il medioevo attribuito a Bonaventura. Se vedrai «aliquos in praelatione temporali sive spirituali dignitate constitutos» ciò non deve allontanarti da loro, né muoverti a stigmatizzazioni o ad esecrazioni, ma farti riflettere poiché «hoc esse factum ad commendandam divinam magnificentiam et potentiam». Parimenti ciò vale se vedrai altri uomini impegnati intensamente e con passione in affari temporali, in attività sociali e di carità, in attività giurisdizionali, nella ricerca non solo teologica ma anche nelle scienze naturali.
  • il secondo testo l’ho scelto perché salda esplicitamente il valore del sacrificio redentivo e caritativo della morte di Cristo con la funzione ministeriale del potere, il cui autentico esercizio costituisce una vera e propria cristomimesi. “Amare la comunità ed aiutarla sempre è cosa che piace e Dio ed è opera in sé stessa nobile e virtuosa che porta l’uomo [ad avere] maggior parte nel regno del nostro Padre che, per amore della res publica, scese tra noi e con noi si fermò trentatre anni; in questi anni ci educò con quella dottrina sorgiva, venuta della res publica accettò la morte; con le sue parole sempre ci incita ed esorta ad amarla” (F. Eiximenis, Regiment de la cosa publica, Barcelona 1927, p. 51).
    Ricordo solo che questo passo è inserito in un testo francescano che diviene un autentico testo costituzionale per il Regno di Valencia.

Sono due esempi a forte contenuto identitario francescano che potremo moltiplicare ma che credo trovino un efficace elemento sintetico in un simbolo ed in un’icona che dice molto di più di altri testi scritti in merito all’identità consapevole e rivendicata del francescanesimo, penso allo stemma francescano dell’inizio del XVI secolo che apre una delle opere che più di altre ha costituito lo strumento di costruzione dell’identità francescana (V. ill. p. 21).

In dipendenza di questo modello che è letteralmente cristomimetico, conforme a Cristo e a Francesco stigmatizzato, paupertas si fa dunque discorso sul potere; struttura una concezione del governo e dell’amministrazione intese come servizio ministeriale, come funzione del bene comune (questo concetto anche francescanamente richiede molte precisazioni, pena il rischio di cadere in una melassa linguistica priva di qualunque rigore semantico e scientifico); un discorso sul potere che abbiamo visto già tradotto nella sua operatività politica nei testi di Eiximenis e che potremo estendere con citazioni da innumerevoli altri testi.

Ma quello che va sottolineato in chiusura di questo incontro è che per questa concezione ministeriale esiste un modello francescano di grande spessore, di grande valore perché pensato da Francesco non solo per i membri degli Ordines ma rivolto a tutti coloro che si ritengano appartenenti alla cristianità e siano capaci di cogliere la sua proposta di vita. Francesco infatti in una delle sue lettere, quella destinata a tutti i fideles, anche ai laici ed ai governanti, “a tutti coloro che abitano nel mondo intero” si propone come il modello dell’essere servo di tutti, (Lettere, in FF 180, p. 134) ma questo servo non è né un eremita né un soggetto passivo, non sto nell’inanitas, dice Francesco ma “poiché sono servo di tutti”, “sono tenuto ad amministrare a tutti le fragranti parole di Cristo” (“Cum sim servus omnium, omnibus servire teneor et administrare odorifera verba Domini mei”) quindi innanzitutto sono tenuto a portarvi a riflettere sulle parole operative della cristiformità e della sequela Christi. Una sequela che passa attraverso la scelta attiva della povertà, una condizione di servitù che è una concezione di servizio, di umiltà ma non di modestia.

Ed in questo stesso capitolo della lettera, stilando una scala di valori che gradualmente si innalzano verso la perfetta minorità, egli pone l’essere madri di Cristo, sul gradino più alto. Ma che cosa significa essere non solo sposi e fratelli (i gradini inferiori del rapporto con Cristo che è il Cristo povero volontario) ma essere addirittura madri di Cristo?
Noi lo siamo, “siamo madri sue” – dice l’uomo Francesco – “quando … lo generiamo attraverso sante opere che devono risplendere agli altri in esempio”.
È l’essenza della povertà volontaria, assunta e praticata che consiste in opere appunto, opere consapevoli e parole pensate, non parole fissate sulla carta o che scivolano sulle labbra, parole inutili, perché ferme alla scorza di fuori.

Dott. Paolo Evangelisti
Archivio Storico Camera dei Deputati, cultore della materia in storia medioevale presso l’Università di Trieste

I testi citati come FF sono tratti da Fonti Francescane, Padova 2011.