1. I “non-luoghi” del vivere contemporaneo
Nel corso del XX secolo in Italia si è assistito all’estendersi dell’urbanizzazione, che ha trasformato il paesaggio in un “continuum urbanizzato” (M.A. Crippa). In questo modo si sono distrutti “equilibri ambientali millenari” e si è provocato un dissesto idrogeologico che ha uniformato, rendendolo piatto e ripetitivo nella sua monotonia, un paesaggio prima variegato e impreziosito dalla presenza di castelli, borghi, villaggi, campagne. Questo fenomeno nel nostro Paese si è manifestato particolarmente al nord, raggiungendo un massimo di estensione nella zona a nord di Milano.
Oggi nel mondo il fenomeno dell’urbanizzazione è in costante aumento. Il numero di coloro che abitano nelle aree urbane della terra ha superato il numero di coloro che vivono nei piccoli e medi centri o nelle aree rurali e di montagna. Nei cinque continenti nel 2014 si contavano cinquecento città con più di un milione di abitanti, mentre sessantacinque megalopoli avevano settecento milioni di abitanti.
img166Nell’Enciclica “Laudato si’” il Papa parla di una “smisurata e disordinata crescita di molte città che sono diventate invivibili” (LS 44). Sempre più grave è il degrado in cui versa un miliardo di persone nelle baraccopoli delle periferie delle grandi città, segno della trascuratezza dei governanti che sembrano preoccuparsi poco dell’urgenza di assicurare una casa dignitosa a tutti. Oltre a ciò, la grande città ospita individui costretti a vivere in un anonimato che favorisce la costruzione di identità effimere, basate sul consumo e sul virtuale che riducono l’individuo a forme vuote di esistenza sempre più interconnesse, ma altresì sempre più incapaci di vivere nella prossimità fisica relazioni di buon vicinato.
La città oggi comprende una serie di “non-luoghi” (M. Augé), intendendo con questo termine spazi connotati dall’estraneità, dalla provvisorietà di chi li occupa. Sono spazi privati del senso di appartenenza, staccati da ogni legame con la storia, con le tradizioni locali. Il paesaggio delle periferie è uniforme e senza centri di riferimento per la vita comunitaria, per l’incontro, per l’accoglienza dell’altro, a differenza di quanto accade nelle città storiche che offrono possibilità di ritrovarsi nelle piazze, di fare percorsi a piedi nelle strade dove brulica la vita dei passanti che si attardano a colloquiare tra loro, dove ferve la vita dei negozianti che si affacciano all’uscio in attesa del prossimo cliente e intanto osservano, salutano, intrattengono relazioni. Invece nelle strade delle megalopoli sfrecciano automobili che poco si curano dell’incauto pedone che voglia avventurarsi in un paesaggio fortemente e pericolosamente meccanizzato.
Contro le città storiche, in gran numero italiane, che costituiscono “un esempio unico al mondo di sintesi tra bellezza, storia, socialità, dove gli spazi comuni sono altrettanto importanti di quelli privati” (D. Pompili), si ergono le periferie spersonalizzanti delle città dove le case, secondo un’espressione cara al celebre architetto Le Corbusier, sono viste come “macchine per abitare” destinate a soddisfare i bisogni corporei dell’uomo materiale, piuttosto che come luoghi in cui “iscrivere le trame della propria biografia” (I. Illich).
Il presupposto da cui parte Le Corbusier è che tutti gli uomini sono uguali e hanno gli stessi bisogni. Nel progettare la città egli non tiene conto delle diverse culture ed esigenze. La Ville Radieuse, ideata tra il 1929 e il 1930 per una città di un milione e mezzo di abitanti, è il modello delle periferie dove è facile perdersi, perché tutto è uguale. La realizzazione di ampi spazi dà un senso di libertà, di superamento dei limiti, ma è spersonalizzante, perché fa perdere le relazioni e crea disagio sociale.
Gli spazi verdi indifferenziati danno un senso di spaesamento e privano di luoghi di convergenza e di ritrovo. Le esigenze dello spirito non vengono considerate; infatti Le Corbusier, come gli architetti più celebri della prima parte del Novecento, dedica pochissima parte della sua attività alla progettazione di chiese.
L’attenzione è assorbita dalla costruzione di case e di fabbriche dove tutto quello che c’è, serve.
Comunque nella prima metà del Novecento le chiese continuarono ad essere costruite, anche se da architetti poco originali che si limitarono a copiare gli stili del passato (gotico, classico…), provocando un completo scollamento tra l’architettura di ricerca e quella ecclesiale.
Solo a partire dagli anni Cinquanta, dopo la seconda guerra mondiale che aveva scardinato le sicurezze scientiste, alcuni architetti d’avanguardia hanno cominciato a riflettere su come valorizzare lo spazio del sacro tenendo conto dei ritmi liturgici. Ricordiamo la fondazione di un Centro per l’Architettura del sacro nelle periferie, voluta dal card. G. Lercaro nel 1952 a Bologna, allo scopo di costruire delle chiese che fossero un centro di riferimento per le comunità periferiche, prive di identità e di legami forti.
Dopo quella stagione c’è stata molta ricerca anche a livello europeo, fino al Concilio Vaticano II. In seguito i gruppi di ricerca si sono sciolti e ci si è appiattiti su linguaggi stereotipati, finché negli anni Novanta è iniziata una nuova sperimentazione e nel 2008 a Bologna si è costituito il Centro Studi “Dies Domini” per l’Architettura sacra e la città.

2. Dal nascondimento alla visibilità
Nelle città contemporanee segnate dalla mobilità frenetica, dalla multiculturalità e dalla compresenza di molteplici confessioni religiose, che visibilità hanno gli edifici sacri?
Dagli anni Cinquanta del Novecento, per un trentennio si è ritenuto che non fosse importante dare risalto alla visibilità delle chiese. Le chiese erano pensate come case tra le case, per lo più schiacciate dalla vicinanza di alti fabbricati e rese appena riconoscibili dalla presenza di discrete croci stilizzate, manifestando così una tendenza al nascondimento e alla mimesi rispetto alle costruzioni circostanti. Soprattutto in Francia, tra gli stessi credenti (comprese alcune autorità ecclesiastiche), condizionati dalla cultura moderna che pone l’utile come criterio prioritario di valutazione, era prevalente l’idea che la visibilità dell’edificio adibito al culto fosse inutile nel contesto urbano, preferendo far leva su un concetto di Chiesa fondata a partire dall’interiorità.img168
Si propendeva a fruire di locali polivalenti adibiti solo occasionalmente alle funzioni liturgiche di cui si riteneva destinataria unicamente la comunità dei credenti, escludendo ogni approccio e ogni possibile interesse da parte degli abitanti della civitas (agnostici o che professavano altre religioni), in controtendenza rispetto all’“oscuro” Medio Evo, quando gli Ordini Mendicanti per primi si insediarono visibilmente con le loro chiese nel cuore delle città, entrando in rapporto costante con tutto il popolo.
Negli anni Ottanta del Novecento si è assistito ad un cambiamento di prospettiva: avendo constatato che l’idea della Chiesa del nascondimento aveva prodotto un vuoto, un’assenza, si passò all’idea di proporre per la città la costruzione di chiese che rendessero visibile (soprattutto a confronto con la chiara scelta di visibilità fatta dai musulmani) la propria identità culturale e religiosa, facendo ricorso ai simboli di riconoscimento del sacro.
Questa nuova prospettiva è nata anche perché si è considerato che l’assenza dei simboli del sacro è negativa oltre che per i cristiani e il formarsi del loro senso di appartenenza alla Chiesa, anche per tutti gli uomini che attraversano o abitano la civitas. Infatti anch’essi hanno bisogno di vivere uno “spazio per lo spirito”.
Nel 1981 l’architetto Mario Botta ricevette l’incarico di costruire una chiesa ecumenica nella modernissima città di Évry, sorta in Francia nel 1970. La chiesa fu posta, per volontà congiunta del vescovo e del sindaco, vicino al municipio, secondo la tradizione delle cittadine storiche della Francia. “Una cattedrale oggi – ha detto l’architetto Mario Botta – è un’occasione straordinaria per la costruzione e l’arricchimento dello spazio di vita, è un nuovo segno atteso dagli uomini… Credo che la cattedrale sia un’esigenza per il credente e per il laico”.
Essa esprime, secondo l’architetto,“la volontà di realizzare un luogo per lo spirito strettamente integrato nel tessuto urbano, che possa aiutarci ad affrontare la vita e la lotta quotidiana”1. Gli stessi abitanti di Évry, intervistati, hanno espresso il loro apprezzamento per la costruzione di questa cattedrale quale fondamentale fattore identitario della città insieme alla pagoda e alla moschea. Abbiamo riportato l’esempio di Évry perché proprio la Francia, più di ogni altra nazione, per il suo radicale laicismo istituzionale e di mentalità, ha sperimentato maggiormente le conseguenze negative derivanti dall’esclusione dalla città dei segni del sacro.
In un mondo dove dominano il relativismo culturale e la virtualizzazione delle relazioni, è indispensabile avere “un indice puntato verso la trascendenza e una speranza che trasfiguri il quotidiano nelle grandi città” (Mons. Michel Santier, vescovo di Créteil). È indispensabile la manifestazione ben visibile, anche se non ostentata, dei luoghi di culto, per garantire un’apertura al mistero del sacro, al desiderio di Dio che è nel cuore di tutti gli uomini.
Dopo il Vaticano II la Chiesa si è aperta alla città. Nella “Gaudium et Spes” emerge una Chiesa che non è né estranea né indifferente alle sorti dei contemporanei: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (GS 1).
La Nota pastorale della CEI, La progettazione di nuove chiese (18 febbraio 1993), dice: “Il rapporto tra Chiesa e quartiere ha valore qualificante rispetto a un ambiente urbano non di rado anonimo… Ciò significa che il complesso parrocchiale deve essere messo in relazione ed entrare in dialogo con il resto del territorio, deve anzi arricchirlo” (ivi, p.41) con sobrietà e discrezione, senza ambizioni trionfalistiche, ma anche senza avere paura di manifestarsi. Ai nostri giorni Papa Francesco ammonisce a non abbandonare le periferie e i più poveri al degrado e allo sfruttamento, segno che la Chiesa è in dialogo con la società ed è accogliente, in un atteggiamento di servizio.

3. Dal funzionalismo alla simbolicità
La cultura moderna ha smarrito la capacità, propria del linguaggio dello spirito, di interpretare i simboli, mentre “consuma” un linguaggio materialistico volto alla ricerca della pura funzionalità o, in alternativa ad essa, della pura emozionalità sensazionalista, avara di quella “nobile bellezza” (Sacrosanctum Concilium 124) che mette l’arte in “relazione con l’infinita bellezza divina” (SC 122).
img172Compito degli architetti e degli artisti è quello di lasciar parlare il Mistero suggerendo, simbolicamente, con il visibile l’invisibile, nella consapevolezza che l’infinito trascende sempre il finito e, per questo, non potrà mai essere svelato per intero.
Tra i luoghi simbolici di cui abbiamo smarrito il significato, ricordiamo il sagrato, luogo di ritrovo e di incontro, di congiunzione tra sacro e profano, di apertura verso il cuore della città, ma anche luogo che dispone a entrare e ad attraversare la porta di accesso alla chiesa per lasciarsi trasformare dall’Eucaristia in fratelli rinnovati in Cristo.
La porta ha una valenza simbolica molto forte, poiché richiama Cristo, la “porta delle pecore” (Gv10,7), attraversata la quale siamo inseriti in un percorso che ci conduce all’altare, luogo a cui tutto l’edificio converge. L’altare si configura come il centro simbolico dell’edificio, in quanto mensa e figura del corpo di Cristo tolto dalla croce e messo nel sepolcro, ma anche figura di Cristo quale “pietra angolare” (Pt 2,6- 7).
Il convergere dell’assemblea intorno all’altare apre lo sguardo verso l’abside, la cui concavità è simbolica di un abbraccio accogliente che proietta verso uno spazio ulteriore, fino a voler quasi “sfondare” i limiti spaziali, verso l’invisibile.
Anche le campane, marcatrici di “paesaggi sonori” (A. Corbin), hanno una valenza simbolica, perché oltre a segnalare una festa o un pericolo, hanno la funzione protettrice di chiamare a raccolta, di creare un senso di appartenenza e di identità comunitaria.

Lo spazio è sacro se è in grado di interpellarci, di parlarci, di rimandare alla luce di Cristo di cui la forma dell’edificio può essere solo un pallido riflesso. Di qui il senso di “inadeguatezza” (G. Bonaccorso) che l’artista deve trasmettere a coloro che fruiscono degli spazi del sacro, perché avvertano l’immensa misericordia del Padre che, con l’incarnazione del Figlio, si è abbassato fino a fare di noi la Sua dimora pur rimanendo Egli l’Altissimo, l’infinitamente Altro.

1 [A cura di] C. MANENTI, La Chiesa nella città a 50 anni dal Concilio Vaticano II, Bononia University Press, pp. 35-36.

Lucia Baldo
Commissione Formazione Nazionale
Fraternità Francescana Frate Jacopa