Il pessimismo non aiuta, serve un ulteriore sforzo comune europeo e una nuova cultura politica ed economica

cosa-ci-aspettaLa crisi finanziaria continua ad accanirsi con gli stati europei e lascia disorientati. Gli strumenti avviati per governarla ogni volta sembrano essere l’estrema risorsa, ma dopo breve tempo si rivelano insufficienti. Che cosa ci aspetta ancora? In realtà la crisi c’è, ma è probabilmente meno ampia di quanto venga raccontata: i fondamentali dei paesi europei non sono negativi, il reddito medio continua ad essere tra i 30 e i 40.000 dollari a testa, non ci sono problemi di fame e insicurezza alimentare come quelli che caratterizzano ampie aree del Sud del mondo, la vita media continua ad essere la più lunga del mondo, abbiamo la possibilità di difendere la vita mettendo a disposizione di tutti le cure mediche.

Forse dovremmo ricordarcene di più quando si parla della crisi. Questo non significa che non manchino elementi di preoccupazione. Da anni aumenta la distanza tra i redditi concentrando la ricchezza in una fascia sempre minore di popolazione, il contrario di ciò che aveva caratterizzato l’Europa ieri rendendola terra dei diritti e delle libertà. I governi accumulano un debito rilevante. In passato erano i cittadini a finanziarli, oggi sono le banche. Quegli stessi attori che ieri avevano provocato lo scoppio della crisi oggi acquistano titoli di stato, lucrando tassi di interesse sempre più alti grazie alle descrizioni apocalittiche che paventano i default, aggravando i bilanci pubblici. Il timore della crisi riduce anche la domanda. La gente rinvia gli acquisti ‘per prudenza’ col risultato di amplificare la crisi economica.

Le imprese contraggono l’attività e c’è meno lavoro per le persone, in modo particolare i giovani senza esperienza o gli over 40-50 non qualificati che vengono superati da chi, più giovane, ha maggiore formazione e non ha famiglia da mantenere. Tra i paesi considerati a rischio, l’Italia, a fronte di un debito pubblico rilevante, gode di un risparmio privato fra i più alti d’Europa. Le famiglie, cioè, hanno riserve per guardare al futuro e, attraverso le banche, finanziare le imprese. Ma questa ‘ricchezza’ si sta evolvendo perversamente, concentrandosi sempre di più nelle mani di chi ha redditi maggiori (chi ha redditi normali o penalizzati dal precariato non risparmia), di chi lavora (chi perde la stabilità lavorativa spende i risparmi) e della popolazione più anziana (che finanzia le generazioni più giovani all’interno delle famiglie).

A questo si aggiunga una ulteriore considerazione, ancora più forte. Migliaia di imprese dei paesi emergenti sono in grado di concorrere ad armi pari con quelle europee, spesso godendo di costi locali minori di quelli del Nord del mondo. Più in generale la povertà diffusa nel Sud del mondo convive con prezzi locali più bassi dei nostri e consente salari inferiori. Non è concorrenza sleale. Nel lungo periodo questa condizione attirerà sempre maggiore lavoro in quelle zone, sottraendolo ai paesi di prima industrializzazione. Esistono insomma due ordini di elementi critici dal punto di vista economico. Uno più immediato che riguarda la gestione e l’organizzazione interna del sistema Europa; uno di più ampio respiro che riguarda il graduale riequilibrio di potere a livello mondiale.

Nessuno dei due è di tale gravità immediata da provocare carestie o rivoluzioni disperate, ma vanno valutati con responsabilità. Viceversa notevoli irresponsabilità sembrano caratterizzare alcuni fra gli attori più rilevanti. Per primi gli speculatori. La totale assenza di ‘responsabilità sociale’ avviò la crisi nel 2008. Oggi la lezione è dimenticata e gli speculatori provocano grida di allarme per acquistare a basso prezzo i titoli pubblici screditati e ottenere alte remunerazioni (l’interesse è fisso e se il prezzo d’acquisto diminuisce risulta più alto il rendimento, aumentando lo spread, cioè la differenza con i titoli a rendimento più basso). In secondo luogo la stampa. Fra le testate sembra in atto una gara a chi usa i toni più allarmistici, amplificando la gravità di informazioni che richiederebbero pacatezza e suscitando le paure che fanno crollare le borse per la gioia degli speculatori. Quindi la politica.

Per anni abbiamo ascoltato leader europei compiacersi in modo ottuso della propria severità, senza rendersi conto delle interdipendenze che ci legano: la stessa Germania subirà l’anno prossimo una caduta rilevante degli ordinativi dai paesi europei, strozzando la esile crescita di cui ha goduto in questi tre anni grazie alle esportazioni sostenute dall’euro debole. Non è solo un problema tedesco. Anche in Italia abbiamo avuto un premier che negava la crisi e un ministro delle finanze che non lo ha mai smentito. Esiste una prospettiva positiva di fronte a noi? Sì, a patto di perseguirla con sobrietà e solidarietà, cioè con la disponibilità a partecipare ad uno sforzo comune. In pratica significa prima di tutto accettare regolamentazioni più severe nel mercato finanziario e nel sistema fiscale, per coinvolgere chi ha di più e chi elude.

Sul lavoro abbiamo bisogno di accettare un po’ di flessibilità, ma contemporaneamente dobbiamo usare risorse e fantasia per orientare la nostra attività produttiva verso ciò che non abbia concorrenza domani e sia sostenibile per tutti (turismo, cultura, eccellenza…). Abbiamo infine bisogno di una nuova stagione di impegno politico che permetta di aprire le porte dei partiti. Significa guardare alla politica come ad una strada doverosa e non sporca; significa anche riforma elettorale. Ma accanto a quello politico occorre anche un impegno educativo vero: una sobrietà solidale ed efficace non si improvvisa. È un tema essenziale per il nostro paese, riguarda tutti e più che annunci, moralismi e condanne, richiede azioni e testimonianza.

Riccardo Moro
Da Sir Nota Internazionale 25 luglio 2012
Docente di economia politica Università di Milano