Anticipiamo alcuni passi del volume di Simone Morandini “Custodire futuro: etica del cambiamento”. Il libro è pubblicato dalle Ed. Albeggi (pagine 148, euro 15,00). In “Custodire futuro” Morandini, teologo e fisico docente nelle Facoltà Teologiche di Venezia e Padova, riflette sul fatto che siamo le persone che siamo anche grazie a quanto riceviamo dalle generazioni precedenti e che il nostro agire è determinante per coloro che verranno dopo di noi. È, questa, la sua visione di “sostenibilità”, l’intreccio tra due dimensioni di giustizia: un’attenzione per le generazioni future e un’istanza di tutela dei beni comuni, fondamentale per il nostro essere “assieme di umani su un pianeta delicato”.

Custodire è un verbo da articolare al futuro (nel segno del progetto e del sogno) e al plurale (nel segno della relazionalità e dell’attenzione per la complessità) […]: tante sono le realtà da custodire, tutelandole contro un vento fatto di mercificazione disgregante, contro una cultura che non sa accogliere l’alterità.
È allora tempo di chiederci cosa significhi disegnare politiche della custodia in questa nostra Italia, in questi giorni feriti dall’incertezza. Di domandarci quali fronti impegnino le parole che abbiamo evocato, parole pesanti, parole generatrici di pratiche. Rispondere a tali interrogativi significa individuare alcune urgenze primarie del bene comune in questo tempo […]; esso viene incontro quasi naturalmente a chi sa ascoltare il grido di un Paese diviso che ha visto anzi crescere in questo tempo di crisi la distanza tra gruppi diversi, con l’impoverimento di vaste fasce della popolazione. È una distanza fatta certo di reddito – si pensi alla crescita continua del rapporto tra i compensi dei manager delle grandi aziende e i salari dei dipendenti – ma anche di garanzie, di accessibilità a beni e servizi, di opportunità lavorative. C’è, insomma, una diseguaglianza crescente che si estende fino al livello di quelle che Amartya Sen e Martha Nussbaum chiamano capabilities: sono ormai profondamente diversi gli insiemi delle scelte di vita accessibili ad esempio a una giovane precaria del Sud o a un pensionato al minimo rispetto a quelli di un lavoratore stabile di una regione del Nord o, a maggior ragione, di uno dei succitati manager. Non si tratta qui di fare l’apologia di forme di egualitarismo distratte nei confronti del talento individuale, ma di richiamare – con una prospettiva analoga a quella indicata da un altro premio Nobel, Joseph Stiglitz – i drammatici costi che un simile eccesso di diseguaglianza impone alle vite delle persone. Non è certo casuale che a esso corrisponda anche un trend demografico discendente, che pone pesanti interrogativi al sistema-Paese […].
Quando sembra che le fondamenta stesse della civitas siano erose, appare difficile persino custodire se stessi: difficile mantenere quell’affidabilità su cui altri possono contare; difficile mantenersi responsabili in quelle scelte nelle quali ogni giorno diamo forma alla nostra identità, ma anche alle comunità in cui viviamo, alla città che abitiamo, alla complessa rete delle relazionalità. In tempi così critici, in effetti, persino le scelte quotidiane possono diventare logoranti, specie quelle più delicate ci mettono in gioco profondamente, ci fanno pressione, ci costringono a bruciare energie che talvolta è faticoso ricostituire, mettendo a rischio il nostro stesso coraggio di essere. Eppure proprio esse sono il luogo in cui possiamo superare – sia pur localmente, in tempi e spazi limitati – quell’ambivalenza che abbiamo segnalato. È  in esse che possiamo realizzare quella ripresa a un livello più alto che abbiamo visto così rilevante per le relazioni interpersonali, così come per la vita della comunità e quella della civitas. È in esse – e negli stili di vita che esse generano – che diamo corpo a un’identità capace di sostenere buone pratiche, operando efficacemente per la custodia e per il rinnovamento, mantenendosi salda anche nel mutamento e attraverso di esso.
Certo, in un tempo di crisi che ci tocca così profondamente, è difficile pensare ad essa con ingenuità, come se potessimo facilmente ritrovare quell’«uomo che se ne va sicuro», certo delle proprie azioni e tranquillamente padrone di sé, da cui già si congedava Montale. Oggi può star saldo solo chi conosce la propria fragilità, chi sa quanto l’ambivalenza tocchi persino il nostro stesso essere personale; chi comprende che un’identità affidabile può sorgere e mantenersi solo se sappiamo attingere a riserve di senso davvero robuste. L’identità, in effetti, non è mai solo l’espressione di scelte individuali: essa si fa e si rinsalda anche nel contatto con tante realtà che ci vengono offerte, se solo possiamo e vogliamo volgerci a esse. Grazie a esse, anche nei momenti più delicati possiamo alimentare la nostra resilienza, quella capacità di ritrovare equilibrio – magari anche in forme nuove, diverse, più solide e creative – di fronte alle perturbazioni. Diverse possono essere le fonti cui indirizzarsi: per alcuni è la bellezza di un luogo naturale o quella di una città amata, così come la solidarietà degli amici o di coloro con cui si condividono sogni o ideali. Per altri può essere il riferimento alla propria storia personale o familiare o a un progetto condiviso, con gruppi o comunità. Per altri ancora può essere semplicemente quella realtà indefinibile che si manifesta leggera in una poesia o in una canzone, o in un’immagine particolarmente cara, o magari nelle profondità di un silenzio ritagliato al cuore di una giornata frenetica. Spesso è un libro (o magari più d’uno), cui si ritorna perché nell’intensità delle sue parole o nella forza di una narrazione esso ci comunica un’energia vivificante. Per molti, poi, tali realtà sono legate a una qualche forma di fede religiosa – per chi scrive, quella nel Dio di Gesù Cristo – sperimentata come fonte di forza nella difficoltà, sorgente di speranza attraverso i giorni.
Tante, insomma, le forme in cui possiamo mantenere vivo il contatto con quei riferimenti che ci aiutano a prenderci cura della nostra esistenza, quasi rigenerandola. Abbiamo bisogno di ritrovare – proprio anche per mantenere salda e creativa la nostra identità al cuore della civitas – una spiritualità (anche se non per tutti tale termine rimanderà necessariamente a un vissuto religioso); abbiamo bisogno di tempi nei quali riprendere respiro, nei quali attingere a un senso facendolo diventare per noi vita quotidiana, carne e sangue; nei quali sempre e di nuovo la nostra storia personale si scopra inserita in narrazioni più ampie.
Così possiamo mantenere un’identità dinamica e relazionale, capace di vivere creativamente la realtà del presente, così come la trasformazione che la investe, pur senza deporre la capacità di discernimento critico nei confronti dell’una e dell’altra. Così può vivere quella speranza in un mondo diverso che nasce sì dal l’indignazione per le contraddizioni del presente, ma trova soprattutto sostanza nella memoria, tenacemente coltivata, di una vita che sa essere – nonostante tutto – portatrice di bellezza e meritevole di cura.
Così possiamo mantenere quello sguardo che sa andare al di là delle singole scelte di cui è pure intessuto il nostro quotidiano, per ritrovare ampiezza di respiro, senso storico, lucidità nell’analisi e capacità pro spettica nella proposta. Così, insomma, può delinearsi una visione, certo sobria, certo conscia del proprio limite, eppure anche ardita nel disegnare futuro per un tempo che talvolta sembra senza vie d’uscita.

Simone Morandini
(Fonte “Avvenire”)

custjpegIl Prof. Morandini sviluppa in questo testo il concetto di “società resiliente”, ovvero capace di trovare equilibrio di fronte ai grandi cambiamenti senza per questo rinunciare ai valori della persona e presenta la ricetta di una società “resiliente”, toccando economia, lavoro, ambiente, cultura, famiglia, accoglienza, Europa. Una riflessione utile in questa fase di profondo cambiamento politico e sociale, una riflessione necessaria sulla scia della “rivoluzione” di Papa Francesco e in previsione dell’attesa Enciclica sulla sostenibilità