Giovedì 9 Febbraio presso i locali della Parrocchia S. Maria Goretti a Bologna, si è tenuto l’incontro “Educare i giovani alla vita” organizzato dalla Fraternità Francescana Frate Jacopa in collaborazione con il Servizio di accoglienza alla vita (SAV) di Bologna e la Parrocchia stessa, nell’ambito delle iniziative organizzate dalla Diocesi per la 34ª giornata della vita. La Dottoressa Chiara Mantovani, esperta di bioetica, ci ha invitato a riflettere su diversi aspetti partendo proprio dal Messaggio dei Vescovi.

Educare i giovani alla vita | ilcantico.fratejacopa.net

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Tra le sfide dei nostri giorni vi è quella di educare i giovani a cercare la vera giovinezza, a compierne i sogni e i desideri in modo profondo. Se non si educano i giovani al senso e dunque al rispetto e alla valorizzazione della vita, si finisce per impoverire l’esistenza di tutti, ci si espone alla deriva della convivenza sociale e si facilita l’emarginazione di chi fa più fatica. Per educare i giovani alla vita servono adulti contenti del dono dell’esistenza, nei quali non prevalga il cinismo, il calcolo e la ricerca del potere, della carriera e del divertimento fine a se stesso.

Sappiamo che ci sono periodi che incutono in tutti, ma soprattutto nei più giovani, un senso di inquietudine e di smarrimento. Chi ama la vita non nega le difficoltà, si impegna però a scoprire che cosa rende più aperti al manifestarsi del “senso”, in quell’ ottica di trascendenza a cui tutti anelano. Dobbiamo avere la consapevolezza del nostro esistere solo in rapporto agli altri, la “barbarie” inizia quando alle persone manca il senso, l’orientamento, il significato della loro vita. Ciascuno deve riscoprire in sé e nel suo prossimo, che non ci è dato di scegliere, la profonda natura di essere umano. Ed è dal profondo del cuore dell’uomo che bisogna ripartire per costruire il futuro, perché senza vita interiore, senza spessore etico, nessun mondo potrà sopravvivere. Un altro aspetto di particolare importanza è il ruolo della tecnocrazia nella nostra società attuale.

La tecnocrazia è una ideologia che pone la tecnè, la capacità umana di usare strumenti e metodi ingegnosamente trovati dall’intelligenza umana, in modo sganciato dal giudizio di valore, il quale invece è sempre possibile, anzi doveroso, per la ragionevolezza (ragione + sapienza). Idolatrare la tecnica fino a farne strumento di potere (tecno-crazia, appunto) equivale a giustificare ogni atto per il solo fatto che è compibile, che si riesce a fare. La questione conosce modernamente molti esempi concreti: voglio un figlio che non riesco ad avere? Poiché è possibile ricorrere a tecniche che lo “costruiscono”, magari quasi a misura di auspici fortemente desiderati, la tecnocrazia non esita a rispondere: “si può fare”.

Dove il verbo “può” non è solo la descrizione di ciò che è realizzabile (salvo poi pagare prezzi altissimi in termini di delusione e inaffidabilità di soluzioni spacciate per “scientifiche” e in realtà ampiamente fallimentari), ma assume anche il significato di eticamente non indagabile. Sembra quasi che il “fare” non giustifichi solo il “come” agire, ma anche il “perché”. Analogamente, anche morire diviene argomento di fattibilità, in cui le domande si limitano a chi deve provvedere, a chi deve regolamentare (il soggetto? Il medico? Lo Stato?) gli atti volti a procurare la morte. Mi sembra evidente in un simile contesto la soppressione della domanda fondamentale: perché vivere? Ecco che la tecnocrazia attua quel “deserto di insensatezza” che caratterizza il vivere moderno: la vita umana non è priva di senso perché sofferente, ma è sofferente perché privata della ricerca del senso. Il fare, la tecnica, trova il suo senso al di fuori di se stessa, non è la fonte della propria sensatezza. E questa ci sembra una constatazione profondamente umana e sperimentabile da ciascuno nella quotidianità.

A cura di Rita Montante