Laici, ovvero un popolo di Dio in cammino

Il nuovo popolo di Dio
Non si può intendere il valore della laicità prescindendo dal termine “popolo” (laos=popolo) valorizzato dal Concilio Vaticano II, in particolare dalla Lumen Gentium, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, che chiama tutti i credenti in Cristo “nuovo popolo di Dio” (LG 308), un “popolo messianico” che ha “la dignità e la libertà dei figli di Dio” (LG 309) e che “costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza” (LG).
img78Ai fedeli laici è assegnato il compito, per quel che compete loro, di compiere “nella Chiesa e nel mondo la missione propria di tutto il popolo cristiano” (LG 363).
Riecheggiando le affermazioni del Vaticano II, il Codice di diritto canonico del 1983 dice che i fedeli “incorporati a Cristo mediante il battesimo… sono costituiti popolo di Dio e, perciò, resi partecipi nel modo loro proprio dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo…” (CDC 204).
Grande è la differenza rispetto al precedente Codice dove i fedeli laici erano descritti sotto l’aspetto negativo, in quanto non appartenenti alla gerarchia ecclesiastica, senza avere il riconoscimento di un proprio ruolo specifico all’interno della Chiesa.
L’enciclica di San Giovanni Paolo II “Christifideles laici”, ispirandosi al Concilio Vaticano II, afferma che i laici devono avere la consapevolezza “non soltanto di appartenere alla Chiesa, ma di essere la Chiesa” (CL 9). È molto diverso dire che i laici ‘appartengono alla Chiesa’ dal dire che essi ‘sono’ la Chiesa. Nel primo caso essi possono anche non sentirsi chiamati a un dialogo propositivo e costruttivo, limitandosi ad ascoltare quello che il Magistero insegna e mantenendo un ruolo passivo. Invece dopo il Concilio Vaticano II al laico è riconosciuta una dignità fondamentale che richiede, per essere esercitata, la conquista di un pensiero nuovo, cioè di un linguaggio da assumere con cura per farlo proprio nella vita quotidiana nella quale le vocazioni chiedono di realizzarsi (cf Msg per la Pace, 5).

Laicità o laicismo?
Al di là di un facile trionfalismo che cede all’improvvisazione e all’entusiasmo momentaneo, ai laici è richiesta una partecipazione responsabile e ben formata che non faccia perdere di vista la realtà per rifugiarsi in un ideale estetico che non permette di scendere nella profondità di se stessi e non fa fare uno scatto in avanti nella propria vita. Non è mai la faciloneria o la superficialità appagante che deve caratterizzare l’esistere dell’uomo, ma è piuttosto la fatica di camminare in salita con tutti i propri limiti, lasciandosi guidare da un valore di realtà che è contrario a un valore di illusione, di castelli in aria.
In questo può essere d’aiuto il Magistero della Chiesa così fecondo e ricco, insieme all’esempio dei santi.
Francesco d’Assisi, secondo M. Von Galli, è “il futuro vissuto” (dal titolo di un suo libro), perché lo si può considerare un anticipatore del Concilio Vaticano II, per aver inteso la Chiesa come “popolo di Dio”.
Questa definizione di Chiesa data dal Concilio, fa riferimento a un popolo che è “di Dio”, mentre se diamo valore solo a ciò che dipende dall’uomo, a ciò che il mondo fa, misura, ordina, organizza, abbiamo il laicismo, non la laicità. Il laico di Dio non crea spaccatura tra il sacro e il profano, ma cerca sempre un’armonia che induce a non staccarsi dal mondo (questo sarebbe spiritualismo), ma a immergersi in esso per consacrarlo al Signore e fermentarlo in modo da unire il cielo e la terra sull’esempio di Cristo che è entrato in dialogo con tutti, accettando di essere ospitato da tutti, anche da pubblicani e peccatori. Nascendo nella grotta di Betlemme Gesù ha assunto su di sé l’aspetto più dolente della storia umana (fragilità, povertà, debolezza) per elevare l’umano. Per questo S. Francesco fa propria una spiritualità laicale in cui le azioni quotidiane valgano davanti a Dio come preghiera: “Francesco d’Assisi non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente” (FF 682). Così anche noi, se non compiamo le nostre azioni quotidiane con un senso di elevazione, di servizio, di creatività mettendo Cristo al centro della nostra vita, non introduciamo il mistero di Dio nel mondo e, perciò, non apparteniamo alla schiera dei fedeli laici costituiti “popolo di Dio”.

Il linguaggio dell’amore evangelico
Spesso la parola ‘popolo’ è ridotta unicamente a categoria culturale e viene subordinata ai modelli che condizionano tutti nelle scelte e nel linguaggio, anche a livello inconscio, senza che nessuno se ne accorga. Invece l’essere ‘popolo di Dio’ richiede l’impegno a rovesciare i modelli sociali correnti, per rifarsi ai modelli del linguaggio evangelico sull’esempio di S. Francesco. Richiede, inoltre, una giusta crescita attraverso la parola che ha nutrito il Santo nella sua vita.
Che cosa fa S. Francesco con la sua conversione se non inverare nella sua vita il linguaggio del Vangelo che diviene per lui nutrimento vitale fino a fargli sovvertire i modelli culturali del suo tempo? Basti pensare al mito di S. Francesco giullare di Dio che guarda il mondo da sotto in su e a quello del cavaliere che nel santo di Assisi viene rovesciato, perché egli passa dal servizio o vassallaggio nei confronti del signore del luogo, all’obbedienza al vero Signore della sua vita, Cristo, divenendo così novello “soldato di Cristo” (FF 1416), come dice S. Bonaventura.
Una notte mentre egli è in viaggio verso la Puglia per combattere al fianco di Gualtieri di Brienne, nel sonno sente una voce che gli chiede se sia meglio seguire il padrone o il servo: “Il padrone”, risponde Francesco. “E allora – riprende la voce – perché cerchi il servo in luogo del padrone?” (FF 587).
Il Santo di Assisi ci sia di esempio a seguire non il servo, ma il padrone, ovvero a essere del Signore rovesciando i modelli culturali oggi dominanti, per inverare nella nostra vita il linguaggio evangelico.

Il popolo francescano
Nel Medio Evo il popolo era animato da un’ansia religiosa che diede vita per lo più a movimenti contestatori della Chiesa romana (Valdesi, Albigesi…).
Solo il movimento suscitato da S. Francesco sorse all’interno della Chiesa e non in polemica con essa. Fu così che, secondo il Thode, “la grande massa del popolo tornò di nuovo in seno alla Chiesa e quest’ultima divenne nuovamente popolare nel senso più ampio del termine” (H. Thode, Francesco d’Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia, Donzelli 1993, p.32).img80 (1)
Tuttavia vedere in S. Francesco il maestro, la guida non basta, se si resta ancorati a un ambiente culturale improntato a forme di neoutilitarismo che riduce tutto a cose che soddisfano i propri desideri. Sappiamo dalla storia come il popolo, per se stesso, sia capace di tutto “quando trova l’uomo secondo il suo cuore”, direbbe il Manzoni nei Promessi Sposi, là dove descrive una “moltitudine” mutevole e irrazionale, che cerca solo di trovare qualcuno, il demagogo di turno (Antonio Ferrer) che gli consenta di riempirsi la pancia in onta ad ogni appello alla ragionevolezza e alla visione di un bene comune inteso come superiore a ogni bene particolare o presunto tale.
Il popolo in tumulto dei Promessi Sposi è una massa, un flusso, un torrente in piena in cui tutte le gocce d’acqua sono fuse e non si distinguono l’una dall’altra. In questo caso abbiamo una spersonalizzazione tipica delle bande, dei gruppi di minorenni, delle sommosse dove domina l’atmosfera generale e le singole persone sono trascinate dall’insieme, per cui vivono un’esperienza massificante e non personalizzata. Allora “noi non viviamo le esperienze che facciamo come nostre, bensì viviamo in una corrente di Erlebnisse [esperienze] di per sé indifferenziata rispetto all’io e al tu, nella quale è di fatto contenuto, indistinto e frammisto, sia il vivere proprio che quello altrui” (G. Ferretti, Fenomenologia e antropologia personalistica, Vita e Pensiero 1972, p.181).
Invece nelle società formate da persone mature in cui si realizza una democrazia autentica, vi è la coscienza di collaborare con altri, ma ogni persona avverte quell’esperienza fatta insieme come la sua propria esperienza, diversa da quella dell’altro con cui l’ha condivisa.
La persona o è aperta all’altro o non è. L’apertura fa sì che le diverse persone possano comunicare, congiungersi, condividere, essere in relazione.
L’insieme sarà popolo in senso teologico e non solo culturale, se costituirà un ‘noi’, un’“unità spirituale e morale”, che postuli il “primato delle persone, considerate nella loro intrinseca dignità e trascendenza” (M. Toso, Cattolici e politica, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, p. 61). Sarà popolo in senso teologico e non un flusso anonimo, se al suo interno la persona parteciperà con simpatia, con amore al prossimo.
In un rapporto d’amore non c’è soggezione o strumentalizzazione dell’altro, ma la realizzazione piena della dignità della persona umana, come è avvenuto nell’incontro tra S. Francesco e Cristo. Da questo incontro è nato il popolo francescano che ha riconosciuto in Cristo il primogenito tra molti fratelli (cf Rm. 8,29), prendendo come modello il Santo di Assisi che sul monte della Verna ricevette il dono delle stigmate, divenendo egli stesso impronta del corpo di Cristo a suggello di una vita vissuta tutta nella sequela di Colui che era stato il suo unico maestro e guida.

Lucia Baldo