In occasione della I Giornata Mondiale dei Poveri (19 nov. 2017),nel giorno della Festa di S. Elisabetta, vogliamo riportare al cuore la testimonianza evangelica di questa degna figlia di S. Francesco, a partire dalle parole di Papa Francesco che ci chiama ad incontrare realmente Cristo nei poveri ed a sollevarli dalla loro condizione di emarginazione.

“Se vogliamo incontrare realmente Cristo, è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri, come riscontro della comunione sacramentale ricevuta nell’Eucaristia. Il Corpo di Cristo, spezzato nella sacra liturgia, si lascia ritrovare dalla carità condivisa nei volti e nelle persone dei fratelli e delle sorelle più deboli. Siamo chiamati, pertanto, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, abbracciarli, per far sentire loro il calore dell’amore che spezza il cerchio della solitudine. La loro mano tesa verso di noi è anche un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce. Non dimentichiamo che per i discepoli di Cristo la povertà è anzitutto una vocazione a seguire Gesù povero. È un cammino dietro a Lui e con Lui, un cammino che conduce alla beatitudine del Regno dei cieli … Facciamo nostro, pertanto, l’esempio di san Francesco, testimone della genuina povertà. Egli, proprio perché teneva fissi gli occhi su Cristo, seppe riconoscerlo e servirlo nei poveri. Se, pertanto, desideriamo offrire il nostro contributo efficace per il cambiamento della storia, generando vero sviluppo, è necessario che ascoltiamo il grido dei poveri e ci impegniamo a sollevarli dalla loro condizione di emarginazione…” (Dal Messaggio per la I Giornata Mondiale dei Poveri)

Elisabetta d’Ungheria (1207-1231), nel suo cammino incessante per conformarsi a Cristo e farsi tutto a tutti, ha rafforzato l’azione missionaria della Chiesa, incarnando e diffondendo la spiritualità francescana come fermento di vita evangelica nelle comuni occupazioni del mondo, ponendo il principio della fraternità a fondamento del rapporto tra gli uomini. Pur nella sua breve vita, e come donna, ha vissuto da protagonista quella rivoluzione pacifica che il francescanesimo inaugura nella sua epoca in ordine allo stile di vita, alle relazioni familiari e interpersonali, alla riconciliazione tra le classi sociali, all’amministrazione dei beni, alla cura della “città”. Attraverso la sapienza dell’altissima povertà e la profezia della sua carità giunge fino a noi oggi per farci dono dei “pani” che porta in grembo, per tutti i poveri di pane, i poveri di affetti, i poveri di senso e di speranza.

A tutti buona Festa!

FRATERNITA’ FRANCESCANA FRATE JACOPA

ELISABETTA D’UNGHERIA: LA SAPIENZA DELLA POVERTÀ

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Elisabetta d’Ungheria (1207-1231), nel suo cammino incessante per conformarsi a Cristo e farsi tutto a tutti, ha rafforzato l’azione missionaria della Chiesa, incarnando e diffondendo la spiritualità francescana come fermento di vita evangelica nelle comuni occupazioni del mondo, ponendo il principio della fraternità a fondamento del rapporto tra gli uomini. Pur nella sua breve vita, e come donna, ha vissuto da protagonista quella rivoluzione pacifica che il francescanesimo inaugura nella sua epoca in ordine allo stile di vita, alle relazioni familiari e interpersonali, alla riconciliazione tra le classi sociali, all’amministrazione dei beni, alla cura della “città”. Attraverso la sapienza dell’altissima povertà e la profezia della sua carità giunge fino a noi oggi per farci dono dei “pani” che porta in grembo, per tutti i poveri di pane, i poveri di affetti, i poveri di senso e di speranza.

Elisabetta è regina, ma di una regalità nuova che sa unire ciò che sembrerebbe opporsi radicalmente: è regina e sorella, regina e penitente, regina che non si appropria ma condivide, regina che si fa serva di tutti e in particolare degli ultimi, regina che depone la sua corona davanti all’unico vero re, il Signore Gesù, dicendo: “Come posso io portarla davanti a Colui che ha portato una corona di spine e l’ha portata per me!”.
Vive in pienezza il Vangelo della carità nel mondo, che diviene così terreno di rendimento di grazie, possibilità di restituzione a Dio nella edificazione del suo disegno di amore per ogni uomo. Elisabetta accoglie prontamente la pedagogia di Dio che si rivela in Cristo. Il suo impegnativo cammino di conversione è tutto orientato dall’ordine dell’amore di Cristo per risanare il proprio ordine di amore.
In questo cammino Elisabetta sente come via privilegiata la povertà. Si sente come Francesco chiamata alla povertà dalla povertà di Cristo che “da ricco che era si è fatto povero per noi”. Elisabetta come S. Francesco non disserta sulla povertà, la assume, perché in Cristo la povertà è rivelata come via di salvezza per tutta l’umanità. Per lei vivere il Vangelo è imitare gioiosamente Cristo povero e crocifisso, imitare la sua condiscendenza in quel “farsi poveri” per farsi prossimo, per farsi fratello.
Francesco chiama a vivere “senza nulla di proprio”, riconoscendo che ogni bene è proprietà di Dio e noi stessi siamo di Dio. Francesco porta in presenza con la sua vita povera e umile dove risiede la vera dignità dell’uomo, che non sta nella ricchezza, nel potere, nel successo, ma nell’essere fatti “a immagine e similitudine di Cristo”. Il peccato dell’uomo consiste in definitiva nel credersi Dio, artefici di se stessi. Vivere “senza nulla di proprio” significa vivere non ponendo se stessi al centro della propria vita, ma ponendo Dio al centro e il suo mistero di amore, che ci rende figli e fratelli. E lo sforzo costante di Francesco sarà quello di restituire tutto a Dio, di non trattenere per sé, condividendo con i fratelli, per riconoscere così in tutti la regalità di Dio, l’orma buona dell’Onnipotente Bon Signore.
Elisabetta declina tutto questo nella laicità, nella fedeltà più piena alla propria condizione, perché questa condizione è possibilità di rimando a Lui, è possibilità di far fruttificare il talento dell’amore di Dio nel mondo, terreno in cui seminare il bene e volgere il cuore dell’uomo alla misericordia di Dio.
Non si tratta tanto di dare qualcosa del proprio patrimonio, si tratta piuttosto di sentirsi in cammino sulle orme di Cristo, sorretti dalla forza del suo amore, per compromettersi in una restituzione perseverante che renda ragione della speranza che è in noi, poggiando non sulle false sicurezze della nostra sola volontà ma sull’azione di Dio.
La sapienza della povertà in Elisabetta si fa parola di carità. Elisabetta si fa povera nella vita matrimoniale, ricercando insieme al suo sposo, Luigi Langravio di Turingia, la volontà di Dio. Elisabetta e Ludovico si amano di un affetto meraviglioso nel Signore, esortandosi a vicenda nel bene, crescendo in amore e fedeltà, in atteggiamento di rendimento di grazie per il dono della vita, per il dono dei figli ai quali, pur nei fasti della reggia, sanno indicare come primo bene l’amore per il Signore. Essi vivono il matrimonio come un progetto di Dio, a cui entrambi si sentono convocati a collaborare, tanto che Elisabetta arriva a dire, vedova a 20 anni, davanti alle ossa del marito, straziata dal dolore: “Ora Signore, rimetti lui e me alla tua misericordia: possa la tua volontà essere portata a termine in noi”.
Elisabetta si fa povera assumendo un movimento continuo di cura e di vigilanza evangelica, verso il proprio ambiente. Animata dal di dentro dall’amore di Cristo, su cui poggia per lei ogni altro amore, Elisabetta anche in tutta la prima parte della sua vita (la sua vita di langravia accanto a Ludovico) non esita ad andare tra i poveri, a vedere con i propri occhi la loro condizione per comprenderla e farsene carico. Non esita a compromettersi, a mettersi in campo per potersi prendere cura dei più deboli, di quelli che nessuno cura. Non esita a cercare di farsi voce e a lenire in ogni modo possibile quella miseria, se non altro con la sua presenza, con la sua vicinanza. Non esita a sentirsi familiare ai poveri, allargando i confini della propria famiglia, maturando giorno dopo giorno una convivialità che non avrà più freno nel farsi tutto a tutti, madre di tutti. Siamo dunque ben lontani da qualche elargizione di denaro (anche se su questo piano Elisabetta arriva a donare tutto quello che ha; alla fine della sua vita dirà “Tutto ciò che c’è, appartiene ai poveri”). Siamo in presenza di un “farsi povero” che diventa autentica prossimità, custodia della dignità dell’uomo, nell’esercizio di una misericordia che riesce a “restituire” al povero con i beni materiali anche l’amore divino, che è comunque eredità di ogni emarginato, di ogni affamato, di ogni impoverito della terra.
Elisabetta si fa madre di tutti per condividere con tutti la buona notizia di un Padre che ci ama e che ci vuole tutti suoi figli. E per curare e custodire ogni dignità negata, violata, calpestata. E quando ormai non più regina, cacciata dal castello, potrà disporre pienamente di se stessa, arriverà ad accogliere come figli i malati più ripugnanti, sentendoli come il dono più prezioso del Signore, sentendo tutta la gioia di potere in loro “lavare il Signore”, accudire alle membra del Signore. Elisabetta si fa povera, anche nel tempo della corte, attraverso il lavoro, lavorando con le proprie mani, sentendo tutta la grazia del lavoro come via di penitenza. Filava, tesseva per i poveri, per i frati, e così fino agli ultimi tempi della sua vita, sentendo il dono di poter fare la propria parte nella umanizzazione del mondo. E ancora più e soprattutto, Elisabetta si fa povera vivendo la realtà terrena “sitibonda di giustizia” come dice la Bolla di Canonizzazione:
* trafficando ogni talento, ogni attenzione, ogni cura per porre in essere opere di giustizia. E costruisce il primo ospedale come laica per soccorrere i malati, i pellegrini, i diseredati, dove lei stessa ogni giorno serve con le sue mani i poveri;
* denunciando, addirittura con l’astensione dal cibo, tutto ciò che è opera di ladrocinio sui poveri, ciò che è stato sottratto alla mensa dei poveri; * e arriva come donna in un contesto come quello medioevale, a dare esempio di autorità come servizio al bene comune, quando, esercitando il governo a 19 anni per l’assenza del marito, apre i granai e tutte le riserve del regno durante la terribile carestia che colpisce la sua nazione. La sua carità si fa audace per rispondere di quella giustizia, sapendo andare contro corrente. E non si limita all’azione immediata. Si fa provvidente, dando a ciascuno non solo il necessario per sopravvivere, ma anche gli strumenti per poter lavorare e mettere insieme il raccolto futuro. Restituisce così dignità al povero, additando a tutti la necessità di partire dai più deboli, di tenere conto dei più fragili come fatto di civiltà. E non ci sono limiti alla sua donazione, alla sua oblatività per il bene, perché la sua misura è la misura altissima della passione di Cristo povero e crocifisso.
Con la sapienza della povertà S. Elisabetta attraversa la storia e giunge fino a noi oggi per farci dono dei “pani” che porta in grembo. Noi come suoi figli, come suoi eredi, siamo chiamati a metterci in cammino!

A tutti Buona Festa

(Tratto dallo Speciale “S. Elisabetta d’Ungheria”, a cura di A. Passoni, in Il Cantico dic. 2011)