L'acqua non è un merce | ilcantico.fratejacopa.net

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Tre miliardi di anni fa, nell’acqua apparvero le prime forme di vita, semplici forme di vita unicellulare dalle quali si è sviluppata la vita nelle sue forme più complesse, fino alla straordinaria biodiversità che oggi anima la Terra. L’acqua è la linfa vitale del pianeta, che trasporta nutrienti all’interno degli organismi viventi e ne raccoglie le scorie del metabolismo. Lo stesso fa nel ciclo degli elementi essenziali che sottendono alla vita degli ecosistemi. L’acqua degli oceani è inoltre un fondamentale strumento di regolazione termica per il clima planetario. Possiamo ben dire quindi che l’acqua è la base della vita biologica. Ma la sua importanza è tale anche nella vita spirituale.

Tutte le religioni usano l’acqua per riti di purificazione. I cristiani e gli ebrei battezzano e benedicono con l’acqua. Gli indù affidano alle acque del Ghange le ceneri dei loro defunti. Per tutte le religioni l’acqua ha un alto valore simbolico.
Ma l’acqua ha anche un alto valore economico come merce utilizzata non solo per bere, ma anche per attività agricole e industriali. Circa il 70% degli usi mondiali dell’acqua vanno in agricoltura, il 20% in attività industriali e solo il 10% per usi domestici. Mentre i primi due utilizzi producono un valore aggiunto e quindi generano una corrispondente disponibilità a pagare, l’uso domestico non genera valore aggiunto, tuttavia rappresenta l’uso più prezioso perché riguarda più direttamente la sopravvivenza e la salute umana. Ciò introduce un serio problema di indirizzo etico, soprattutto per il fatto che sempre più frequentemente si registrano nel mondo situazioni di crisi idriche, quantitative o qualitative, le prime aggravate dai cambiamenti climatici, le seconde aggravate da una industrializzazione incontrollata nei paesi poveri, spinta dal processo di globalizzazione dei mercati.

Già oggi fra il 15 e il 35% dei prelievi per irrigazione supera la velocità di ricarica delle falde e quindi è insostenibile e molti paesi poveri non riescono a garantire alle loro popolazioni la fornitura minima indispensabile di acqua. Oggi, circa 2,5 miliardi di persone nel mondo, circa la metà della popolazione del mondo in via di sviluppo, vivono in condizioni sanitarie precarie. Di conseguenza, ogni anno, circa 1,8 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni muoiono per malattie diarroiche (quali colera, tifo e dissenteria) attribuibili all’assenza di acqua potabile e di servizi sanitari di base. Molte altre malattie sono direttamente imputabili a un’inadeguata erogazione di acqua dolce per bere e per l’igiene di base (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, The Greening of Water Law: Managing Freshwater Resources for People and the Environment, New York, 2010).

Un miliardo di persone non ha accesso ad acque potabili sicure. A causa dei cambiamenti climatici a tale numero si potrebbero aggiungere entro il 2050 altri 2 miliardi e 800 milioni di persone con scarsità di acqua. Secondo le previsioni dal 5 al 25% degli usi globali di acqua dolce probabilmente supererà nel lungo termine le forniture disponibili e circa la metà della popolazione mondiale entro il 2025 fronteggerà una scarsità di acqua.
Può l’acqua obbedire solo alle ragioni del mercato? Certamente no. Ne abbiamo avuto prova anche in Italia durante la grande ondata di caldo dell’estate del 2003, quando ci fu un vero e proprio conflitto fra l’industria termoelettrica e gli agricoltori per l’utilizzo delle acque del Po in magra. I poveri spesso soffrono, non tanto per la scarsità d’acqua in sé, ma per l’impossibilità economica di accedervi, come osservato nel Rapporto del 2006 del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), intitolato Beyond scarcity: Power, poverty and the global water crisis.

Secondo un’impostazione di stampo neoliberista, l’acqua sarebbe un bene economico come altri, il cui valore di scambio o prezzo dovrebbe essere fissato secondo le comuni regole della domanda e dell’offerta, e in definitiva secondo la logica del profitto. Questo concetto si fonda sulla teoria secondo cui il costo di tutto ciò che si usa deve essere a carico del consumatore, di colui che trae utilità dall’uso. Secondo questa visione delle cose, persino i più poveri dovrebbero “pagare” per l’accesso ai cinquanta litri di acqua potabile considerati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità la quantità giornaliera minima indispensabile per la sussistenza.

Secondo un’impostazione che potremmo definire neoliberista la scelta ideale sarebbe quella di privatizzare i servizi idrici, e di assoggettarli alle regole del mercato. A tale proposito risultano però illuminanti le parole di Benedetto XVI: “Il diritto all’alimentazione, così come quello all’acqua, rivestono un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti, ad iniziare, innanzitutto, dal diritto primario alla vita. È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l’alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni” (Benedetto XVI, CIV, n. 27).

L’acqua non può essere gestita con un criterio esclusivamente economico e privatistico. Nelle capitali di paesi come la Colombia, le Filippine, il Ghana, che non sono dotate di una adeguata rete idrica pubblica, e l’acqua viene fornita da privati con autobotti, il costo dell’acqua è da tre a sei volte superiore a quello di città come New York e Londra. Si giunge al paradosso che i poveri pagano molto più dei ricchi per quello che dovrebbe essere un diritto universale: l’accesso ad acque potabili. “L’acqua, per la sua stessa natura, non può essere trattata – si legge nel Compendio, che ha preceduto la promulgazione della Caritas in Veritate – come una mera merce tra le altre e il suo uso deve essere razionale e solidale. La sua distribuzione rientra, tradizionalmente, fra le responsabilità di enti pubblici, perché l’acqua è stata sempre considerata come un bene pubblico, caratteristica che va mantenuta qualora la gestione venga affidata al settore privato… Senza acqua la vita è minacciata. Dunque, il diritto all’acqua è un diritto universale e inalienabile” (Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Ed. Vaticana, 2004, n. 485).

Drammatico ed a volte perfino violento è il conflitto quando diverse popolazioni confidano per la loro stessa esistenza sull’utilizzo delle stesse risorse idriche. Si pensi al caso del Nilo, in cui i paesi a monte non possono ignorare le necessità di quelli a valle, moderando le captazioni, le derivazioni ed evitando l’inquinamento. Secondo molte analisi strategiche in futuro, dopo le guerre per il petrolio che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, assisteremo a nuove guerre per l’acqua. Negli ultimi anni, si assiste ad un tentativo della comunità internazionale di instaurare un clima di cooperazione tra gli Stati nella gestione delle risorse idriche. Pur essendo utile, la sola cooperazione in un ambito nel quale è in gioco il bene comune del genere umano, in sé non è sufficiente.
Anzitutto, sembra mancare l’affermazione preliminare dell’esistenza di un diritto fondamentale ed inalienabile all’acqua. In secondo luogo, anche qualora si affermasse un tale diritto, a livello internazionale sembra lontana l’esistenza di una Autorità politica che sappia mediare gli interessi in gioco e far rispettare il diritto nell’orizzonte del bene comune di tutti i Popoli e le persone.

Per concludere vorrei fermarmi a sottolineare come il diritto all’accesso ad acque pulite sia la base per il rispetto di diversi altri diritti fondamentali:

  1. Il diritto a godere di uno standard di salute migliore possibile, elemento essenziale soprattutto per ridurre la mortalità infantile;
  2. Il diritto ad una alimentazione sufficiente e sana, che molto dipende dalla disponibilità di acqua pulita per l’irrigazione;
  3. Il diritto ad una vita dignitosa, in quanto senza l’accesso all’acqua la vita stessa ed il benessere in generale sono minacciati.

In definitiva, il problema dell’acqua è oggi centrale per il futuro dell’umanità. L’impegno per l’acqua è un impegno per lo sviluppo integrale dell’umanità, per la vita di essa, per la pace.
La posizione della Chiesa Cattolica sul problema dell’acqua è stata espressa, sia pure in maniera sintetica, con chiarezza nel già citato Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, dove si può leggere: “Il principio della destinazione universale dei beni si applica naturalmente anche all’acqua, considerata nelle Sacre Scritture come simbolo di purificazione e di vita: “In questo dono di Dio, l’acqua è elemento vitale, imprescindibile per la sopravvivenza e, pertanto un diritto di tutti”.

L’utilizzazione dell’acqua e dei servizi connessi deve essere orientata al soddisfacimento del bisogno di tutti e soprattutto delle persone che vivono in povertà. Un limitato accesso all’acqua potabile incide sul benessere di un numero enorme di persone ed è spesso causa di malattie, sofferenze, conflitti, povertà e addirittura di morte: per essere adeguatamente risolta, tale questione “deve essere inquadrata in modo da stabilire criteri morali basati proprio sul valore della vita e sul rispetto dei diritti e della dignità di tutti gli esseri umani” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 484).”

Quanto detto ci sollecita, allora, a riflettere muovendo dall’idea che l’acqua non è una mera merce tra le altre. È – come l’aria e la terra – un dono del Creatore appartenente a tutti (cf CIV n. 51) e, quindi, un «bene comune». Ad esso corrisponde un diritto fondamentale, individuale e comunitario. Il diritto all’acqua promana dal diritto primario alla vita.
L’acqua ha una tale rilevanza sociale per cui gli Stati non possono demandarne la gestione ai soli privati. La gestione dell’acqua, bene pubblico, ha bisogno di un controllo democratico, partecipato. Ciò che alle volte gli Stati non riescono a fare va promosso tramite una cittadinanza attiva, in un confronto serrato con le stesse istituzioni pubbliche.

Mons. Mario Toso, Segretario del Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace