I veri adoratori
Dice S. Francesco: “I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. Tutti infatti coloro che lo adorano, bisogna che lo adorino in spirito e verità” (FF 187.61). “Dio è spirito e nessuno ha mai veduto Dio. Poiché Dio è spirito, non può essere visto che con lo spirito; è infatti lo spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (FF 141).
img133Queste citazioni richiamano l’attenzione sulla possibilità di superare l’abisso tra Dio e l’uomo attraverso lo spirito. Tuttavia la parola “spirito” nel linguaggio comune è poco valorizzata in quanto nell’immaginario collettivo tutto ciò che riguarda lo spirito viene spesso confinato nel mondo dell’astrazione e così si allontana il rapporto con Dio dalla concretezza della vita e del rapporto con le persone.
Per comprendere la pregnanza delle parole di S. Francesco e dare ad esse l’importanza che meritano nel pensiero francescano, è illuminante il linguaggio personalista di Scheler che con la parola “spirito” indica la presenza nell’uomo (e non nell’animale) di una forza che rinnova il corso delle sue scelte e delle sue operazioni, che si ripropone sempre e che rimanda ad altro. Indica una forza profonda e singolare (da non confondere con le forze biologiche o psichiche) che dà un certo modo di essere.
Il termine spirito indica un respiro che rinnova la vita, “una forza invisibile allo sguardo del pensiero astratto, che ci fa superare le imperfezioni di ogni sapere umano e insieme ci fa comunicare misteriosamente con un altro Spirito, diverso dallo spirito imperfetto dell’uomo…” (V.C. Bigi, Il lavoro e l’operare negli Scritti di Francesco d’Assisi, Ed. Porziuncola, 1994, p.48).
“Con la parola «spirito» gli Scritti di S. Francesco denominano la sfera in cui si pone il rapporto di Dio uno e trino con l’uomo” (V.C. Bigi, ibidem, p.46).
Grazie a questo rapporto lo spirito dell’uomo può arrivare alla beatitudine che, però, è raggiungibile solo attraverso un perseverante cammino di conversione che permette di diventare “dimora dello Spirito del Signore” (FF 178/1).

La nuova affettività
È possibile percorrere concretamente un cammino di conversione attraverso le opere buone, purché non ci si appropri della propria volontà, altrimenti esse diventano opere cattive (cfr. V.C. Bigi, Il lavoro e l’operare negli Scritti di Francesco d’Assisi, Ed. Porziuncola, 1994, p.63). Dice S. Francesco: “Mangia infatti dell’albero della scienza del bene colui che si appropria la sua volontà e si esalta dei beni che il Signore manifesta e opera in lui; e così per suggestione del diavolo e per aver trasgredito ad un comando diventò per lui il frutto della scienza del male; per cui bisogna che ne sopporti la pena” (FF 147).
Invece seguendo la volontà di Dio, cioè compiendo l’opera buona in comunione con Cristo, il peccatore si fa dimora dello Spirito del Signore e si trasforma in Lui assumendo gradualmente gli stessi sentimenti di Cristo.
Similmente il Papa ci indica questa via della santità sottolineando che “siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione” (GE 26) per “crescere nell’unione con Lui” (GE 120) attraverso un’attività che santifichi.
Per comprendere meglio quanto sia importante il modo in cui si compie un’opera buona riflettiamo su un’esperienza di S. Francesco, significativa nel suo cammino di conversione.
Come ci attestano le biografie, prima di iniziare il suo cammino di conversione gli pareva “insopportabile” (FF 348) la sola vista dei lebbrosi e facendo leva sulla sua volontà, sul dovere per il dovere nei confronti dei poveri si limitava a fare loro l’elemosina con l’orgoglio di chi si sente estraneo alla loro realtà e si degna di fare qualcosa di buono.
Ma un giorno improvvisamente scese da cavallo e corse incontro ad un lebbroso. Decise di annullare se stesso e di compiere con Cristo un atto di misericordia grazie al quale si trasformò e acquistò una nuova consapevolezza. Per grazia di Dio capì che la causa del suo rapporto carente coi lebbrosi erano i suoi peccati. Dice infatti nel suo Testamento: “… essendo io nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi” (FF 110).
Per grazia di Dio capì che per convertire il suo spirito aveva bisogno di fare penitenza per rinnegare se stesso e per porre Cristo al centro del suo valorizzare. Infatti aggiunge nel suo Testamento: “Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a fare penitenza… e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia”.
Nel compimento di atti simili a questo, nella comunione di vita e d’azione con Cristo, trasformò se stesso e poté distruggere in sé l’uomo vecchio che agiva solo per dovere e poté diventare un uomo nuovo, dimora dello Spirito del Signore.
“Partecipando in qualche modo alla sua stessa vita e cioè pensando, volendo, amando in Dio” (G. Ferretti, Max Scheler. Fenomenologia e antropologia personalistica, Ed. Univ. Catt., MI, 1972, p.158) assunse l’Amore espresso da Cristo nella sua vita.
Fu così che avvertì una trasformazione della propria affettività, come testimoniano le sue parole che rivelano un rapporto nuovo coi lebbrosi: “…ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato (conversum fuit) in dolcezza d’anima e di corpo”. È una trasformazione-conversione della persona umana attraverso il fondamentale collegamento a Dio.

L’Amore donato
Come fare per riconoscere se si è dimora dello Spirito? Dice S. Francesco: “Così il servo di Dio può riconoscere se ha lo spirito di Dio: quando il Signore fa, per mezzo di lui, qualcosa di buono, se la carne non se ne inorgoglisce, poiché la carne è sempre contraria ad ogni bene; ma piuttosto si ritiene ancora più vile ai propri occhi e si stima minore di tutti gli uomini” (FF 161).
È fedele quel servo che è libero dall’orgoglio per aver compiuto qualcosa di buono ed è consapevole che tutto il bene che compie con le sue opere non è suo, ma di Dio e perciò va restituito (cfr. FF 168).
Dio “solo è buono” (FF 70.202.49). Al contrario noi siamo “miseri, putridi, fetidi e vermi” (FF 199).
Queste parole non vogliono significare sfiducia nell’uomo, ma il costitutivo essere relazionale della persona che ha bisogno di rapportarsi al Tu per realizzare se stessa.
C’è un abisso tra Dio e l’uomo, tuttavia Dio non vuole fare di noi dei sudditi, ma degli interlocutori per aprirci “nell’amore sempre nuovi orizzonti di perfezione fino a farci vivere del suo stesso amore infinito” (G. Ferretti, ibidem, p. 308). Il vero Amore ci viene donato in questo rapporto privilegiato con il Tu. E dopo averlo ricevuto potremo donarlo agli altri e, al tempo stesso, restituirlo a chi ce l’ha donato.

Graziella Baldo