Convegno “Custodire l’umano, il bene della famiglia”
Bellamonte, 27-29 agosto 2014

1ª parte

La percezione dei protagonisti della fragilità
Alcune tra le molte esperienze nelle quali oggi è possibile individuare la fragilità della famiglia sono queste:
– la fragilità del matrimonio che si manifesta nella separazione e nel divorzio;
– la debolezza della famiglia nell’educare i figli: l’emergenza educativa;
– il fenomeno della convivenza come prassi prevalente prima del matrimonio cristiano;
– la difficoltà dei cristiani a comprendere il significato teologico ed ecclesiale del matrimonio cristiano e a comprendere il valore della fedeltà “per sempre”.
nicolliMolti di coloro che vivono oggi le varie forme della fragilità familiare percepiscono una Chiesa lontana, interessata soltanto a proporre un “dover essere” che non tiene conto delle difficoltà esistenziali degli uomini di oggi: una Chiesa attenta a riaffermare i principi piuttosto che a condividere la fatica nella crescita delle persone.
Parlando di famiglia ferita, io limito molto l’attenzione di questa riflessione al campo della sofferenza di relazione tra i coniugi e ai fallimenti coniugali e familiari che si concludono con la separazione e il divorzio. Coloro che falliscono in un progetto di matrimonio cristiano generalmente hanno la percezione di non contare più nulla per la Chiesa, di essere soltanto gli avanzi di un bel progetto andato a male, i cocci di un vaso rotto; spesso si ritengono scomunicati, fuori della Chiesa. Al dolore del fallimento si aggiunge l’amarezza di sentirsi abbandonati dalla Chiesa.

La fragilità umana: da spazio passivo del limite a luogo di grazia
La Chiesa italiana ha compiuto un significativo rovesciamento di prospettiva pastorale nel Convegno Ecclesiale di Verona (2006); se prima si partiva dai contenuti dell’annuncio cristiano per calarlo nelle situazioni, ora si cerca di partire dalle situazioni umane più significative e si cerca di interpretarle alla luce del messaggio cristiano.
Sono stati scelti così cinque ambiti di partenza: la vita affettiva – il lavoro e la festa – la fragilità umana – la tradizione – la cittadinanza.
La fragilità umana nelle sue varie forme è subìta normalmente con rassegnazione come lo spazio in cui si esprime il limite dell’uomo; lo sforzo è semplicemente quello di uscirne superando per quanto possibile le varie situazioni. Il IV Convegno ecclesiale di Verona invece ha orientato verso una interpretazione della fragilità come luogo in cui si manifesta e agisce la misericordia di Dio, quindi come spazio di salvezza che pone l’accento sull’azione di Dio che si attua proprio lì dove l’uomo è sconfitto e sperimenta la propria povertà (cfr. 2Cor 12,7-10).
“In un’epoca che coltiva il mito dell’efficienza fisica e di una libertà svincolata da ogni limite, le molteplici espressioni della fragilità umana sono spesso nascoste ma nient’affatto superate. Il loro riconoscimento, scevro da ostentazioni ipocrite, è il punto di partenza per una Chiesa consapevole di avere una parola di senso e di speranza per ogni persona che vive la debolezza delle diverse forme di sofferenza, della precarietà, del limite, della povertà relazionale. Se l’esperienza della fragilità mette in luce la precarietà della condizione umana, la stessa fragilità è anche occasione per prendere coscienza del fatto che l’uomo è una creatura e del valore che egli riveste davanti a Dio. Gesù Cristo, infatti, ci mostra come la verità dell’amore sa trasfigurare anche l’oscuro mistero della sofferenza e della morte nella luce della risurrezione. La vera forza è l’amore di Dio che si è definitivamente rivelato e donato a noi nel Mistero pasquale1”.
Alla luce di questa intuizione, la Chiesa sta scoprendo che proprio partendo dalle varie situazioni della fragilità familiare può costruire un’azione pastorale più realistica e autenticamente evangelica, che colloca la Chiesa nel cuore dell’umanità: da una pastorale dell’affermazione dei principi a una pastorale dell’accompagnamento delle persone all’incontro con il Signore risorto, fonte di conversione del cuore e di salvezza per tutti.

Una pastorale attenta alla fragilità
Sento anzitutto di rilevare un fatto positivo già nel fatto che il tema dell’attenzione pastorale alle situazioni familiari particolari non è più una rarità, ma sta diventando una delle preoccupazioni prioritarie nella Chiesa che è in Italia. Negli ultimi tre anni che ho trascorso presso l’Ufficio nazionale della CEI ho notato una crescita esponenziale dell’interesse attorno a questo tema. Il Convegno che lo stesso Ufficio nazionale ha tenuto a Salsomaggiore nel giugno 2011 dal titolo “Luci di speranza per la famiglia ferita” è stato un atto di realismo e di coraggio che la Chiesa italiana non poteva più dilazionare.fraternità
Ho sempre temuto ed evidenziato un rischio che la Chiesa italiana ha corso in questi ultimi decenni, nei quali la pastorale familiare ha avuto un forte sviluppo sia nel pensiero teologico che nella prassi: il rischio di proporre uno splendido ideale di famiglia, di costruire un bel progetto della famiglia perfetta che cresce in risposta ad una vocazione e diventa una risorsa preziosa nella comunità, ma di rimanere indifferenti di fronte alle tante famiglie che oggi sono sempre più in sofferenza di relazione, e di abbandonarle al proprio destino.
Il rischio di tirarci dietro le famiglie che ascoltano e cercano di mettere in pratica proposte alte di spiritualità coniugale e familiare, di correre sempre più verso grandi ideali, e di lasciar perdere le famiglie che arrancano con fatica, che lottano con sofferenza verso i tanti problemi quotidiani che rischiano di raffreddarle e di smembrarle.
Daremmo l’immagine di una Chiesa che si occupa dei “perfetti” (o quelli che si ritengono tali), ma che lascia perdere i deboli e i falliti della vita.
Fare pastorale oggi nella Chiesa – cioè essere una comunità che custodisce la presenza risanante e salvante di Gesù, buon pastore – vuol dire sì essere capaci di proporre la “vita buona del Vangelo” come prospettiva che rende bella e preziosa l’esistenza umana, ma vuol dire anche affiancarci alle persone lì dove si trovano – fosse anche su una strada che porta lontano da Gerusalemme, come la strada dei discepoli che fuggivano verso Emmaus, delusi dagli eventi della passione di Gesù – fare un pezzo di strada con loro riscaldando il loro cuore con quella parola di speranza che il Risorto è capace di pronunciare anche sulle situazioni più disperate per trasformarle in storia di salvezza.
La presenza nelle nostre comunità di tante persone separate, divorziate o risposate domanda un’attenzione pastorale non minore di quanto richieda l’accompagnamento dei fidanzati o dei giovani sposi. Sono convinto che la pastorale familiare oggi deve essere capace di proporre progetti coraggiosi di santità alle nostre famiglie, ma deve anche chinarsi con cura e trasmettere la tenerezza di Dio sulle situazioni di sofferenza; anzi, deve entrare in queste situazioni, abitarle senza paura di contaminarsi per cogliere in esse quel filo sottile della presenza di Dio che salva, rendendo feconda la sofferenza.
Grazie a Dio, soprattutto a partire dal Convegno ecclesiale di Verona, possiamo affermare che la Chiesa sta entrando con coraggio in questo stile, privilegiando la semplicità, la povertà, l’attenzione agli ultimi, ai privilegiati del Vangelo.
Già nel 1981 i Vescovi italiani scrivevano2: “Bisogna decidere di “ripartire dagli ultimi”, che sono il segno drammatico della crisi attuale. Fino a quando non prenderemo atto del dramma di chi ancora chiede il riconoscimento effettivo della propria famiglia, non metteremo le premesse necessarie ad un nuovo cambiamento sociale. Gli impegni prioritari sono quelli che riguardano la gente tuttora priva dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, il salario familiare, l’accesso alla cultura, la partecipazione… Con gli “ultimi” e con gli emarginati potremo tutti recuperare un genere diverso di vita. Demoliremo, innanzitutto, gli idoli che ci siamo costruiti: denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Riscopriremo fiducia nel progettare insieme il domani… e avremo forza di affrontare i sacrifici necessari, con un nuovo gusto di vivere”.
Se allora “ripartire dagli ultimi” significava soprattutto porre l’attenzione ai dimenticati e agli emarginati della storia specialmente in campo economico e sociale, oggi vuol dire anche mettere al centro dell’attenzione coloro che per una fragilità di partenza, o per l’influsso di una cultura nemica della fatica e dell’impegno, o anche per responsabilità personali, si ritrovano nella sofferenza e nella povertà spirituale per un progetto familiare che si è accartocciato su se stesso.

Una Chiesa capace di accogliere la famiglia ferita
Non possiamo ancora dire che la Chiesa abbia maturato un atteggiamento accogliente nei confronti delle famiglie che vivono una situazione particolare di separazione, di divorzio, di nuova unione con la conseguente condizione di famiglia allargata. Se è un buon segno il fatto che molte chiese si pongono il problema dei separati, dei divorziati e dei risposati, dobbiamo ancora constatare che le persone che si trovano in questa condizione non si sentono accolte nella Chiesa, si sentono a disagio, hanno la sensazione di essere fallite come credenti e pertanto pensano di non aver più nulla da spartire con la Chiesa.
Questa sensazione di rifiuto e di emarginazione da parte della Chiesa rende più difficile l’educazione dei figli da parte dei genitori separati e la loro cordiale accoglienza da parte della comunità.
È vero che questo disagio non risponde sempre a un oggettivo rifiuto della Chiesa o a una esclusione esplicita. Accade spesso che chi fallisce il matrimonio si porta dentro dolorosamente la sensazione di aver tradito un’aspettativa della Chiesa e quindi in modo soggettivo si sente tagliato fuori dalla sua azione pastorale. Sta di fatto che spesso chi fallisce il progetto cristiano di vita familiare si pone ai margini della Chiesa e, anche nel caso che abbia esperienza di partecipazione e abbia svolto qualche servizio, non si ritiene più idoneo a continuare questo servizio. L’idea comune che circola nel popolo cristiano è che il fallimento del matrimonio crei di per se stesso una frattura con la comunità ecclesiale e costituisca un ostacolo alla partecipazione viva e attiva alla vita ecclesiale.
Ancor più lontana è la Chiesa rispetto al tema di una particolare attenzione ai figli delle famiglie divise, che  che portano in se stessi le ferite di situazioni problematiche o fortemente conflittuali dei genitori. Eppure i catechisti ci comunicano spesso che hanno a che fare con bambini e ragazzi che – quasi per la maggior parte – manifestano segnali di disagio per una situazione familiare problematica o smembrata.
Mi domando in quante diocesi sia stato posto il tema di una formazione appropriata ai catechisti e in genere agli educatori per dare strumenti adeguati ad affrontare queste situazioni senza fare ulteriori danni e possibilmente per offrire un accompagnamento rasserenante. L’accoglienza della Chiesa attenua nella coppia separata l’insicurezza e trasmette la capacità di dare serenità e sicurezza ai figli.
Tutti noi siamo convinti che questa situazione di disinteresse, o peggio di emarginazione, nei confronti delle famiglie provate dalla separazione e dal divorzio, deve essere superata; siamo convinti che la Chiesa abbia per natura propria una vocazione particolare a rivolgersi soprattutto a coloro che sono o che si sentono emarginati dalla vita comunitaria per annunciare a loro che Dio è venuto proprio per offrire speranza e per ridare coraggio.
Più volte il Papa Francesco ha richiamato il dovere che la Chiesa ha di andare a cercare le persone nelle periferie, ai margini della vita “normale”, tra coloro che vivono un senso di fallimento e di abbandono, il dovere di accompagnare con amore queste persone. Ad esempio, in una omelia della Messa quotidiana, il 28 febbraio 2014, il Papa ha espresso così il suo pensiero: “Quando questo lasciare il padre e la madre e unirsi a una donna, farsi una sola carne e andare avanti e questo amore fallisce, perché tante volte fallisce, dobbiamo sentire il dolore del fallimento, accompagnare quelle persone che hanno avuto questo fallimento nel proprio amore. Non condannare! Camminare con loro! E non fare casistica con la loro situazione”.
Cosa possiamo fare allora per aiutare le nostre comunità cristiane a maturare una capacità di accoglienza e di accompagnamento nei confronti delle famiglie divise e una migliore competenza nell’accogliere e accompagnare i figli di queste famiglie?

Credere nella famiglia nonostante le sue fragilità
tavNella Esortazione apostolica “Familiaris consortio” Papa Giovanni Paolo II aveva esortato con forza la famiglia con l’espressione famosa “Famiglia, diventa ciò che sei!”3; vent’anni più tardi, alla vigilia della beatificazione di Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, ha sentito il bisogno di andare ancora di più alla radice e ha esortato: “Famiglia, credi in ciò che sei!”4. Dicendo questo, il Papa intendeva orientare l’attenzione della comunità cristiana sulla famiglia: Chiesa, credi in ciò che è la famiglia, sacerdoti, credete nel dono che la famiglia rappresenta per la Chiesa! La famiglia è “la via della Chiesa”5.
Perché la famiglia merita questo atto di fede? Non certo perché è perfetta, ma perché c’è un mistero grande che essa racchiude, un mistero che rinvia al mistero stesso di Dio Trinità. La famiglia cristiana è chiamata ad essere per la sua stessa identità segno sacramentale dell’amore di Dio per ogni uomo e dell’amore di Cristo per la Chiesa, sua sposa.
Don Tonino Bello definisce la famiglia “icona della Trinità”6: l’icona non è un dipinto qualsiasi, è il risultato della contemplazione del mistero che l’iconografo compie in un clima di digiuno e di preghiera; il dipinto che ne risulta, anche se le sue linee a volte sono essenziali e perfino grezze, è uno strumento per aiutare il credente che la contempla a mettersi in comunione con il mistero che essa descrive. Guardando alla famiglia cristiana, anche se presenta un amore a volte impoverito da egoismo e da fragilità e perciò attraversato dalla sofferenza, è possibile leggervi il mistero di Dio Trinità.
Credere nella famiglia significa ancora comprendere il significato del matrimonio cristiano come un dono che Dio fa non soltanto agli sposi ma alla comunità. Così afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica7: “Due altri Sacramenti l’Ordine e il Matrimonio sono ordinati alla salvezza altrui… Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa, servono all’edificazione del popolo di Dio”. Dunque il sacramento del Matrimonio, come quello dell’Ordine, sono ambedue necessari per costruire la Chiesa in modo armonico ed efficace, perché la Chiesa sia in grado di compiere la sua missione. Si va sperimentando con frutti sorprendenti che nasce un nuovo modo di vivere la comunione ecclesiale lì dove preti e sposi lavorano in sinergia, dove i diversi carismi della coniugalità e della verginità si pongono insieme nella testimonianza e nel servizio dell’amore in mezzo al popolo di Dio.
Ma perché l’attenzione alla famiglia non diventi una ideologia, un mito che ignora la realtà, è indispensabile che la fede nella famiglia sia concretizzata nella stima e nella fiducia rivolta ad ogni famiglia concreta. Quando diciamo che la famiglia è “icona della Trinità”, una ricchezza per la società e per la Chiesa, non parliamo delle famiglie “perfette”, che non esistono. Parliamo delle nostre famiglie, parliamo anche delle tante famiglie che faticano a vivere l’amore, che presentano tanti segni di povertà, che hanno continuamente bisogno di rinnovarsi nel perdono…
Possiamo “credere nella famiglia” perché ogni storia di vero amore è una storia abitata da Dio, una “storia sacra”: Dio si è compromesso con gli sposi nel Sacramento e, dal momento che egli è un Dio fedele, non li abbandona più, nemmeno quando la loro vicenda diventa difficile o si impoverisce, nemmeno quando incontra il fallimento umano di un progetto. La povertà e gli errori umani non sono mai così gravi da essere irreparabili perché l’amore di Dio è capace di trasformare persino la valle di Acor – che è la valle della maledizione – in “porta di speranza”8.

Accostarsi alle situazioni di crisi o di fallimento “in punta di piedi”
Dietro ogni matrimonio in crisi o fallito c’è sempre un percorso di grande sofferenza; quando una persona arriva alla separazione, vi arriva sempre logorata da sofferenze e da tentativi vani. E di fronte alla sofferenza non dobbiamo mai metterci in una posizione di giudizio ma anzitutto di ascolto e di condivisione. Ogni situazione è complessa e non può essere capita “al volo”: chi ci sta davanti ha bisogno di ascolto e di comprensione prima ancora che di consigli. Chi vive una situazione di difficoltà o di fallimento matrimoniale ha diritto di vedere in colui a cui si confida (sacerdote o laico) non tanto il difensore di un ordine morale costituito, ma un padre o un fratello che cerca di capire la situazione, che si sforza di leggere “dall’interno” il problema mettendosi insieme davanti a Dio che ama e vuole il vero bene della persona.
È necessario pertanto accostarsi a tutte le situazioni di sofferenza coniugale o familiare “in punta di piedi”: con una grande disponibilità ad ascoltare, con il desiderio di capire e con il desiderio di essere solidali. Ogni situazione non va presa genericamente come “un caso” ma va letta come “la storia di una persona”. Nessuno può essere dispensato dalla fatica del discernimento, dalla responsabilità verso la verità del Vangelo e verso le singole persone.
Inoltre dobbiamo con decisione affermare che l’ammissibilità o meno alla Riconciliazione e alla Comunione sacramentale non è l’unico criterio da assumere per il rapporto dei separati, dei divorziati, dei risposati, dei conviventi e degli sposati solo civilmente con la Chiesa. Molti preti quando hanno appurato che una persona non è nella condizione di accedere ai sacramenti, ritengono di non aver più alcun impegno pastorale nei confronti di queste persone.
Nel Direttorio i Vescovi raccomandano, ad esempio nel caso dei divorziati risposati: “Ogni comunità cristiana eviti qualsiasi forma di disinteresse o di abbandono e non riduca la sua azione pastorale verso i divorziati risposati alla sola questione della loro ammissione o meno ai sacramenti”9.

Il principio ispiratore: carità nella verità
Il principio generale affermato dal Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia è quello della “carità nella verità”: “Come Gesù ha sempre difeso e proposto, senza alcun compromesso, la verità e la perfezione morale, mostrandosi nello stesso tempo accogliente e misericordioso verso i peccatori, così la Chiesa deve possedere e sviluppare un unico e indivisibile amore alla verità e all’uomo: la chiarezza e l’intransigenza nei principi e insieme la comprensione e la misericordia verso la debolezza umana in vista del pentimento sono le due note inscindibili che contraddistinguono la sua opera pastorale”10.
“Carità” dice attenzione alla persona e alla complessità delle sue vicende personali, spesso attraversate da difficoltà che dall’esterno non possono essere pienamente comprese; “verità” dice attenzione al significato di una scelta fondamentale che quella persona ha compiuto consapevolmente e al valore del Sacramento.

Mons. Sergio Nicolli
Già Direttore Uff. Naz. Cei per la famiglia

1 Rigenerati a una speranza viva – Nota pastorale Episcopato italiano dopo il 4° Convegno Ecclesiale Nazionale, giugno 2007, n. 12
2 CONSIGLIO PERMANENTE CEI 1981, La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, nn. 4.6
3 n. 17 (titolo)
4 21 ottobre 2001
5 GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle famiglie (1994), n. 2
6 La famiglia come laboratorio di pace, Elle Di Ci, Leuman (Torino) 1989
7 n. 1534 8
Os. 2,17
9 Direttorio cit. n. 215 10
Ivi, n. 192

che portano in se
stessi le ferite di situazioni
problematiche o fortemente
conflittuali dei
genitori. Eppure i catechisti
ci comunicano
spesso che hanno a che
fare con bambini e ragazzi
che – quasi per la maggior
parte – manifestano
segnali di disagio per una
situazione familiare problematica
o smembrata.
Mi domando in quante diocesi sia stato posto il tema
di una formazione appropriata ai catechisti e in
genere agli educatori per dare strumenti adeguati ad
affrontare queste situazioni senza fare ulteriori danni
e possibilmente per offrire un accompagnamento
rasserenante. L’accoglienza della Chiesa attenua
nella coppia separata l’insicurezza e trasmette la
capacità di dare serenità e sicurezza ai figli.
Tutti noi siamo convinti che questa situazione di
disinteresse, o peggio di emarginazione, nei confronti
delle famiglie provate dalla separazione e dal
divorzio, deve essere superata; siamo convinti che
la Chiesa abbia per natura propria una vocazione
particolare a rivolgersi soprattutto a coloro che
sono o che si sentono emarginati dalla vita comunitaria
per annunciare a loro che Dio è venuto proprio
per offrire speranza e per ridare coraggio.
Più volte il Papa Francesco ha richiamato il dovere
che la Chiesa ha di andare a cercare le persone
nelle periferie, ai margini della vita “normale”, tra Tutti noi siamo convinti che questa situazione di disinteresse, o peggio di emarginazione, nei confronti delle famiglie provate dalla separazione e dal divorzio, deve essere superata; siamo convinti che la Chiesa abbia per natura propria una vocazione particolare a rivolgersi soprattutto a coloro che sono o che si sentono emarginati dalla vita comunitaria per annunciare a loro che Dio è venuto proprio per offrire speranza e per ridare coraggio. Più volte il Papa Francesco ha richiamato il dovere che la Chiesa ha di andare a cercare le persone nelle periferie, ai margini della vita “normale”, tra