Presentazione del Messaggio per la 50ª Giornata Mondiale della Pace

S.E. Mons. Mario Toso

PREMESSA
img140Il Messaggio per la Giornata mondiale della pace (1 gennaio 2017)1 si caratterizza per la sua sinteticità e per la sua originalità. Esso intende, stando al titolo, proporre l’umanizzazione della politica, la sua risemantizzazione, a partire da tutto ciò che può insegnare la nonviolenza attiva e creativa.Per conseguenza, al fine di comprenderlo nella sua intera valenza, bisognerebbe che fosse spiegata l’attuale destrutturazione e desemantizzazione della politica, come anche fosse noto cosa significa e possa comportare la nonviolenza attiva e creativa.
Detto altrimenti, il Messaggio, nonostante un linguaggio fresco, apparentemente semplice, esige attenzione, senso critico e adeguata spiegazione. E ciò relativamente alla crisi della politica contemporanea, alla dottrina e alla fenomenologia delle molteplici forme della nonviolenza, al magistero sociale di papa Francesco circa la natura della stessa politica e la necessaria rivitalizzazione della democrazia, oggi colpita da gravi forme di degenerazione o di involuzione come la pazzodemocrazia, la democrazia senza democratici, la democrazia insoddisfatta, la democrazia populista od oligarchica.2
In queste riflessioni di commento al Messaggio si cercherà, allora, di offrire alcuni elementi di interpretazione che lo possano rendere più accessibile e fruibile in vista della sua concretizzazione storica.

1. LA SITUAZIONE: FENOMENOLOGIA DELLA VIOLENZA

Nel testo si trova una breve descrizione dei fenomeni di violenza che colpiscono il nostro tempo. Papa Francesco parla di un «mondo frantumato» e, in particolare, della triste esperienza delle guerre mondiali del secolo scorso, nonché di una nuova e terribile guerra mondiale «a pezzi» che riguarda il nostro secolo. La violenza di quest’ultima provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli e di cui papa Francesco offre un rapido elenco, inclusivo dei nuovi modi di fare guerra mediante, ad esempio, il terrorismo, che sta manifestando molteplici rivoli di violenza e di guerriglie per procura.3
Conclude il censimento delle molteplici forme di violenza con un giudizio fortemente negativo su di esse, sulla loro inutilità e pericolosità: «La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti» (n. 2).img142
La convinzione di papa Francesco, come quella del suo immediato predecessore Benedetto XVI, è che nel mondo, nonostante i molteplici segni positivi di solidarietà e di unità, c’è troppa violenza, troppa ingiustizia (cf n. 3). Rispetto a ciò urge contrapporre un di più di bontà, un di più di amore, che viene solo da Dio, come ha mostrato Gesù Cristo, avviando una vera e propria «rivoluzione» pacifica.
Su questo aspetto si ritornerà fra breve. Per comprendere quanto oggi sia necessario essere discepoli di Cristo, causa esemplare della nonviolenza, torna senz’altro utile integrare la fenomenologia della violenza offerta dal pontefice argentino, accompagnandola con alcune riflessioni sulla sua natura, sulle nuove forme di essa, sulla nonviolenza.

2. NATURA DELLA VIOLENZA

 

La vera natura della violenza si coglie più adeguatamente nel compimento del suo stesso processo. La violenza incomincia con ogni atteggiamento o azione che reca danno alla dignità umana dell’altro, considerandolo come «cosa» o, persino, come «scarto» o un «essere inutile». Si manifesta con l’insulto, la calunnia, la menzogna, l’umiliazione, con ogni forma di dominio e di spoliazione che riduce l’altro – singolo o popolo, uomo o donna – ad una condizione subumana, asservendolo fisicamente, psicologicamente, economicamente, politicamente, moralmente. Culmina nell’uccisione e nella guerra, passando spesso attraverso molteplici forme che oggi rappresentano l’alternativa al conflitto armato aperto ma ne sono espressione o prodromo.
In breve, la violenza è tutto ciò che nega la persona umana nella sua dignità e nei suoi diritti fondamentali, nella sua crescita integrale. Mentre viene attuata snatura radicalmente il rapporto con gli altri, individui, gruppi e popoli. Essa diventa rifiuto sistematico dell’alterità, della relazionalità positiva, del dialogo, fino a dissolvere la convivenza in dominio materiale.
La violenza non è propriamente l’aggressività. Questa è inscritta nell’essere umano come dote naturale per l’affermazione di sé e per la propria difesa. La violenza, invece, appare esserne una degenerazione, sebbene non fatale. Se l’aggressività e la forza, che si esercitano nella lotta, permettono di regolare i conflitti, la violenza, al contrario, li stravolge e li trasforma in eliminazione del nemico.
Ne ostacola il funzionamento e il raggiungimento del fine: creare condizioni di dialogo per la negoziazione di soluzioni eque fra le parti avverse.
La violenza non va neppure confusa con la legittima difesa di se stessi e degli altri e con la coercizione. Infatti, se la difesa contro le aggressioni è storicamente associata all’impiego (o alla minaccia di impiego) di armi omicide, esistono, però, possibilità di difesa senza impiego di violenza.
Così, la coercizione si qualifica come utilizzazione della forza per uno scopo determinato. Normalmente è messa al servizio del bene comune, per far rispettare comandi legittimi e per proteggere i più deboli. La violenza interviene nella perversione di certi usi della stessa coercizione o della forza. Con essa la forza è usata in maniera brutale o irrazionale, facendo ricorso a mezzi di offesa, al fine di imporre la propria volontà e di costringere alla sottomissione, coartando ingiustamente la libertà altrui sia di azione sia di pensiero e di espressione.

3. FORME PRINCIPALI DI VIOLENZA

Si possono distinguere varie forme di violenza. Innanzitutto, la violenza individuale, esercitata direttamente da singole persone contro altre persone. Si pensi alla violenza domestica sulle donne da parte degli uomini, mariti o amanti.
C’è, poi, la violenza strutturale o «istituzionale », prodotta da vari meccanismi sociali, regimi, legislazioni oppressive e ingiuste. Si tenga presente che oggi esiste un’eterogenea pluralità di attori violenti non statali, spesso più ricchi e armati dei governi e degli Stati, organizzati in modi differenti tra di loro, spesso a struttura molecolare in franchises che si richiamano a remote centrali ideologiche e religiose, mutuandone metodi e proclami, ma mantenendo grande indipendenza tattica ed operativa. Attualmente esistono entità estremiste e terroriste spesso inafferrabili, collocate per lo più nel territorio dei cosiddetti «Stati falliti», che si rivelano sorprendentemente moderne per i metodi e l’uso delle tecnologie della comunicazione di massa, nella strategia della propaganda ideologica, dell’indottrinamento, dell’arruolamento e della fanatizzazione degli adepti.4
img146Bisogna riconoscere che l’espressione «violenza strutturale» è equivoca. Le strutture in quanto tali non possono nuocere da sole. Possono danneggiare le persone quando divengono nelle mani degli amministratori pubblici, di singoli o di gruppi al potere, strumento di ingiustizia e di dominio.
Anche quando si rivelino intrinsecamente inadeguate e le responsabilità umane non siano facilmente individuabili, resta sempre vero che le strutture possono avere effetti negativi in quanto sono state poste da persone in un certo modo invece che in un altro, e in quanto persone attualmente responsabili non intervengono per rimuoverle o per riformarle tempestivamente, per incuria, per paura o per interesse a mantenere lo status quo.
Le strutture e le istituzioni, pertanto, possono essere qualificate più propriamente come «ingiuste» o «violente» quando siano ricondotte sia ai soggetti che le personificano e le strumentalizzano, sia ai soggetti che dovrebbero usufruire della loro funzione ministeriale. Analogamente, possono essere definite «strutture di peccato»,5 quando si riconosca che le responsabilità morali delle ingiustizie e delle violenze ricadono sui soggetti – singoli o collettivi –, che le pongono e le animano contro la persona umana, i gruppi o popoli e il loro sviluppo plenario.img148
Oggi è viva anche la coscienza delle violenze culturali, quali la pressione esercitata dai mass media allorché siano impiegati a servizio della manipolazione e del dominio sull’opinione pubblica, dall’organizzazione tecnocratica del lavoro che ne stravolge il senso umano e sociale, provocando disoccupazione di massa senza la creazione di nuove aree di operosità; quali le innumerevoli seduzioni della videocrazia che colonizza le coscienze e gli ethos dei popoli, di alcune applicazioni dell’informatica, che consente forme di persuasione occulta e di violazione della privacy; quali le violenze del sapere, della scienza e della tecnica, allorché vengono collocate al di sopra della realtà stessa, divenendo degli assoluti. Per alcuni tra le violenze culturali è da porre la forma della violenza simbolica, che viene diffusa attraverso segni e sistemi di segni e si manifesta nel razzismo, nella xenofobia, nell’etnocentrismo e nel fondamentalismo religioso.
Quello che oggi va particolarmente segnalato come fatto specificatamente nuovo è la globalità, la totalità e la radicalità della violenza. Già san Giovanni Paolo II scriveva: «Anche se localizzato, un conflitto è spesso l’espressione di tensioni che hanno la loro origine altrove nel mondo. Così pure accade spesso che un conflitto abbia delle risonanze profonde lontano dal luogo in cui è scoppiato.
Si può parlare ancora di “totalità”: le tensioni attuali mobilitano tutte le forze delle nazioni e, d’altra parte, il loro accaparramento a proprio vantaggio ed anche l’ostilità si esprimono oggi sia nel tenore della vita economica o nelle applicazioni tecnologiche, sia nell’uso dei mass-media o nel campo militare. Bisogna, infine, sottolineare il loro carattere “radicale”: la posta in gioco dei conflitti è la sopravvivenza stessa dell’umanità intera, a motivo della capacità distruttiva degli attuali arsenali militari».6
Con la consapevolezza che la violenza è divenuta fatto planetario, per l’interdipendenza che lega i popoli fra loro,7 c’è però anche la percezione che la violenza, specie nel mondo occidentale, oltre che forme tradizionali, divenute meno eclatanti, ne abbia assunte altre, più sottili e sofisticate, ma non meno pericolose, mediate dalla cultura tipica della società industriale avanzata, dalla tecnocrazia. La violenza si annida nell’ambiente urbano, e, come già accennato, nel mondo del lavoro, dell’economia e della finanza, nei mezzi di comunicazione sociale, nella sanità, nella ricerca scientifica e, persino, nello sport.
Non è possibile prendere in considerazione con esaustività tutte le manifestazioni della violenza.
Lasciando da parte manifestazioni individuali o collettive di violenza, come i crimini personali e nella coppia, la mafia, le lotte etniche, le persecuzioni religiose, il terrorismo internazionale in continua evoluzione quanto a ideologie e metodologie, il narcotraffico, da taluni definita la quinta guerra mondiale, nonché le guerre civili secondarie, anche se spaventose, il razzismo, le dittature e i neototalitarismi, i movimenti violenti come i Black block, i No Tav,8 clan criminali, madri che uccidono, le mutilazioni genitali femminili, spose bambine alle quali si proibisce di andare a scuola, il lavoro schiavo, ci si limita ad illustrarne alcune, considerate come forme di recente attualità.

4. NUOVE FORME DI VIOLENZA

4.1. Violenza ed economia
La violenza socio-economica non è sempre riconosciuta come tale. Ci si contenta spesso di indicarla con il termine più generico di ingiustizia o di definirla come fenomeno di costume. Tuttavia, non c’è dubbio che i singoli e i popoli, nella misura in cui vengono misconosciuti e conculcati i loro diritti economici e sociali, sono vittime di una violenza che ostacola il loro sviluppo integrale e può giungere perfino a provocarne lentamente l’emarginazione o la morte.
Una simile violenza, specie a livello internazionale, si è venuta accentuando allorché il confronto con le armi è divenuto spesso competizione economica, anche in seguito alla rinuncia di creare un’unione economica e monetaria mondiale. Il trapasso della guerra dalla sfera militare alla sfera economica crea tra le Nazioni nuove distanze e nuovi squilibri, nuove forme di colonizzazione, favorite ultimamente dalla finanziarizzazione dell’economia, dalla globalizzazione dell’indifferenza, dal capitalismo finanziario, da quell’economia dell’esclusione e dell’inequità che, come ha coraggiosamente denunciato papa Francesco, uccide (cf Evangelii gaudium, n. 53).
img150La crisi economica del 2008 ha mostrato una nuova e spietata versione del feticismo del denaro e la dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano, ovvero la negazione del primato dell’essere umano a vantaggio del profitto a breve termine. Gli effetti della violenza socio-economica sono soprattutto evidenti nei rapporti tra Paesi ricchi o più sviluppati e Paesi poveri. I primi sono fortemente avvantaggiati negli scambi economici perché detentori del potere delle leve economiche e finanziarie.
Ne deriva un forte condizionamento delle economie meno sviluppate, costrette a soggiacere a nuove tirannie invisibili o visibili come il fenomeno del land grabbing,9 a indebitamenti da capogiro, a non poter far fronte adeguatamente a pesanti deficit del reddito nazionale, ad urgenti politiche dell’innovazione e della ricerca, a eventuali calamità naturali, a speculazioni sulle derrate alimentari, alla sottoalimentazione e alla fame.
Spesso le loro forze migliori – non esclusi i capitali –, emigrano verso aree di più proficuo impiego. Se si vuole evitare una ingiustizia di dimensioni mondiali e se si vuole realmente sconfiggere la violenza, «l’imperativo “Non più la guerra” deve essere applicato a tutta la sfera dell’economia per reagire alle aggressioni ed alle oppressioni delle infrastrutture pesanti e delle nuove “potenze” finanziarie, industriali, commerciali, nella loro corsa al monopolio o al predominio sulle terre, sui mari e nello spazio» (9).
Ma la violenza socio-economica appare in atto negli stessi Paesi sviluppati ove, in taluni casi, il vigoroso rilancio di una economia neoliberista e lo smantellamento dello Stato sociale viene spacciato come riforma necessaria dello Stato del benessere assistenzialistico, diminuendo o abolendo i diritti sociali, mettendo in crisi la stessa democrazia.10 Gli effetti di uno sviluppo malinteso sono gli squilibri settoriali e regionali, la disoccupazione e la sottoccupazione, la spogliazione del lavoratore nella parte che gli spetta nella produttività del lavoro, nella partecipazione alle decisioni, l’allontanamento della prospettiva di realizzazione dell’impresa come «comunità di persone»,11 l’aumento della povertà e delle diseguaglianze.

4.2. Violenza e ambiente
Ai nostri giorni si avverte come la pace mondiale sia minacciata, oltre che dalla corsa agli armamenti, dai conflitti regionali e dalle ingiustizie tuttora esistenti nei popoli e tra le Nazioni, anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura, dal disordinato sfruttamento delle sue risorse e dal progressivo deterioramento della qualità della vita.12 Tale situazione, dovuta in particolare all’antropocentrismo moderno e al prevalere di un paradigma tecnocratico,13 svela una forma di violenza tutta particolare, che pur non esercitandosi direttamente sull’uomo, ha conseguenze negative per la sua stessa sopravvivenza.
È un fatto scientificamente provato che l’aria, l’acqua, la terra sono fortemente inquinati e che il loro inquinamento minaccia la vita del genere umano. Proprio per questo ogni atto che intacca l’integrità e l’intero equilibrio dell’ecosistema viene considerato un atto di violenza anche nei confronti dell’uomo, una mancanza di rispetto per la vita e la sua dignità.
Prendendo atto che esiste una stretta interdipendenza fra ambiente e vita umana e che la questione sociale è anche questione ecologica, si parla, allora, sempre più insistentemente, del «diritto ad un ambiente sicuro», come diritto da includere in una aggiornata Carta dei diritti dell’uomo.14 Cresce, poi, la convinzione che la crisi ecologica non si potrà risolvere se non con un’ecologia integrale,15 con la solidarietà internazionale e rivedendo seriamente il proprio stile di vita.
Un nuovo modo di produrre, l’adozione di un’economia circolare,16 la moderazione nei consumi per le nazioni o per le categorie sociali ben provviste, la pratica di un’altra modalità di progresso e di sviluppo, sono condizioni obiettive per la sopravvivenza collettiva nei prossimi decenni. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso.

4.3. Violenza e mezzi di comunicazione sociale
Gli studiosi hanno già abbondantemente studiato gli effetti positivi e negativi dei mass-media. Essi hanno potuto constatare come lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale ha non solo introdotto nuovi contenuti nei modelli di conservazione e di interazione personale, ma ha anche condotto alla standardizzazione di tipi di linguaggio. E che, inoltre, ha accresciuto l’importanza dei valori materiali e la percezione della decisività del settore economico. Non è neanche sfuggito loro che la comunicazione di massa è divenuta arbitro dello status sociale delle persone e che ha modificato la struttura familiare riducendone il ruolo tradizionale dell’autorità.
E, soprattutto, hanno messo in luce come i mass-media possano manipolare e indottrinare, anche occultamente, il pubblico, compromettendone la libertà di giudizio e l’autonomia decisionale. In conseguenza di ciò le persone più pensose sollecitano la ricerca di mezzi adeguati per governare il sistema comunicativo sempre più centrato sulla creazione, l’elaborazione e la distribuzione delle idee e delle notizie. Si suggerisce, in particolare, la necessità di un grande progetto, culturale e sociale, tecnologico e industriale, supportato da adeguate misure legislative, perché sarebbe in gioco lo stesso destino delle democrazie.
I mass-media contribuiscono ad aumentare la violenza, sono violenti, in proporzione alla cattiva qualità della comunicazione. L’odio, eletto a strumento di lotta politica, viene sempre più spesso coltivato via web, considerato un ring permanente. La qualità della comunicazione viene pregiudicata, in particolare, dal fatto che la comunicazione dei media è sovente a senso unico.img152
Colui che riceve il messaggio, trovandosi confrontato non con l’emittente, ma soltanto con il mezzo impersonale e impassibile, non può rispondervi come vorrebbe. La risposta naturale di fronte alla violenza sarebbe di difendersene. A colui il quale la violenza è comunicata, anzi inflitta, la possibilità di tale risposta è tolta. In tal modo, i media favoriscono l’accumularsi di frustrazioni e di aggressività, più o meno latenti, diventando, a questo titolo, generatori di violenza.
Un tale effetto è accresciuto dal fatto che i mass-media difficilmente rappresentano la realtà tale e quale ma ne comunicano alcuni dettagli, ingrandendoli, e anche dal fatto che essi sono gestiti da una cerchia ristretta di persone, che restano più o meno anonime e la cui influenza non ha alcuna proporzione con la loro competenza e le loro responsabilità reali.
In virtù dei fini ideologici ed utilitaristici ad essi imposti dalla dominante cultura consumistica e tecnocratica, che li pone al servizio del profitto e del potere, non raramente rendono i loro messaggi funzionali alla bramosia del possesso, alla volontà di dominio, per catturare i ricettori, per sfruttarli, per favorire l’instabilità sociale. In questo caso, la comunicazione viene intesa solo come un mezzo per plasmare l’altro, quasi fosse materia informe, senza soggettività propria. Anche questo è fare violenza alle persone e alle società.

4.4. Violenza e progresso tecno-scientifico
È senz’altro acquisito dalla riflessione sulla cultura e sulla storia della civiltà moderna che la scienza e la tecnologia sono elementi che stanno alla base della dinamica dello sviluppo. Così, è abbastanza chiaro che le relazioni fra scienza, tecnologia, economia e politica sono divenute talmente strette che si può parlare di un unico processo di sviluppo. Perciò pensare all’uso della tecnica e della scienza è anche pensare ai destini dell’umanità.
Ora, si è in tempi in cui, dopo i grandi entusiasmi, quando si pensava che scienza e tecnica potessero risolvere tutti i problemi dell’umanità, si nota pure come esse possano facilmente diventare, quando siano usate male, armi violente di distruzione della natura e dell’uomo. Certamente scienza e tecnica hanno prodotto risultati straordinari per il bene dell’umanità, per la pace.17 Ma ci sono diversi aspetti e usi di esse per cui non si può dire che oggi tecnologia, scienza e ricerca tecno-scientifica portino sempre verso la pace. «Basta ricordare le bombe atomiche lanciate in pieno XX secolo, come il grande spiegamento di tecnologia ostentato dal nazismo, dal comunismo e da altri regimi totalitari al servizio dello sterminio di milioni di persone, senza dimenticare che oggi la guerra dispone di strumenti sempre più micidiali. In quali mani sta e in quali può giungere tanto potere? È terribilmente rischioso che esso risieda in una piccola parte dell’umanità».18
Inoltre, si deve notare come la scienza e la tecnica siano spesso assunte insieme ad un paradigma omogeneo e unidimensionale e siano poste sostanzialmente a servizio dei più potenti. In larga misura esse sono concepite ed impiegate per accrescere il loro benessere, la loro ricchezza, il loro potere e il loro prestigio. Sono divenute così costose che non sono più alla portata dei popoli poveri e, pertanto, tendono ad essere possesso esclusivo delle nazioni più ricche. Lo squilibrio tecnologico diviene, allora, causa di squilibrio a livello di sviluppo. Al vecchio colonialismo politico si sostituisce il colonialismo economico, tecno-scientifico.
img154Nessuno, poi, ignora, come la scienza moderna disponga già, purtroppo, della capacità di modificare l’ambiente con intenti ostili, con gravi conseguenze per la vita dell’uomo. Inoltre, la ricerca scientifica militare, nella quale vengono profusi tanti sforzi e mezzi finanziari e intellettuali, con le continue scoperte e nuove applicazioni sembra vanificare gli sforzi politici che possono venire fatti per la pace: la riduzione quantitativa delle armi è facilmente superata dal recupero nell’ordine della qualità offensiva e distruttiva.
Ciò che, poi, dal punto di vista della violenza sull’uomo, non può non essere guardato con una certa inquietudine è il campo odierno della ricerca biologica. Un’indiscriminata manipolazione genetica e sconsiderati interventi sulle origini stesse della vita possono portare l’uomo alla soglia stessa dell’autodistruzione.19
Infine, anche il progresso informatico-telematico, già notevolmente applicato, ma non adeguatamente valutato dal punto di vista etico, giuridico e politico, può costituire l’occasione per nuovi totalitarismi che violano l’essere umano nella libertà e nella dignità.

4.5. La guerra
Nel passato, nel quadro delle strategie classiche, la guerra era crudele ma, generalmente, non era mortale per i popoli che vi si impegnavano. Le nazioni potevano allora sperare che la guerra portasse una soluzione politica, salvaguardando i loro interessi vitali. Oggi, la rivoluzione tecnologica ha dato alle armi una tale capacità di distruzione che può annientare le stesse società che vi ricorrono per difendersi da ingiuste aggressioni.
La guerra moderna, sia essa classica, chimica o nucleare, diventa guerra totale, ossia violenza massima e criminale che porta allo sterminio dei contendenti e della stessa umanità. La seconda guerra mondiale ha reso tutti consapevoli della dimensione a cui può giungere il disprezzo dell’uomo e della violazione dei diritti.
L’accresciuta potenza di-struttiva delle armi moderne può aumentare tale disprezzo fino a portare al suicidio collettivo.
Proprio per questo, a livello di prospettiva etica, la teoria della guerra «giusta» è entrata in crisi.20
Diventa difficilmente proponibile. Essa non appare più mezzo adeguato per comporre i conflitti fra le nazioni. Più volte Giovanni Paolo II ha ribadito, sulle orme di san Giovanni XXIII,21 che la «guerra è in sé irrazionale e il principio etico del regolamento pacifico dei conflitti è la sola via degna dell’uomo».22

5. LA NONVIOLENZA

Le attuali politiche e strategie di guerra, la possibilità non platonica dell’olocausto nucleare mondiale, la stessa necessità di difendere i popoli, i cittadini e i loro beni con mezzi che non comportino la minaccia dell’annientamento, stanno accreditando sempre più, come vera alternativa realistica alla violenza e alla guerra, alle insurrezioni e alla rivoluzioni, la via dell’azione non violenta, che non è da confondersi con la non violenza assoluta.img156
L’azione non violenta o, come anche viene detta piuttosto impropriamente, «resistenza passiva», al pari della guerra, delle tirannie e delle ingiustizie, può avere diverse forme, in rapporto ai problemi in una data situazione. C’è, per esempio, la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza,23 il boicottaggio sociale, lo sciopero anche generale, il picchettaggio, il digiuno, l’obiezione fiscale, la non collaborazione (resistenza non violenta), la difesa popolare organizzata o difesa civile non violenta, istituita da un governo come parte del suo piano di difesa, il governo parallelo.
Tenendo conto, però, dell’ampiezza dei cambiamenti culturali e politici che questa scelta comporta, una tale via, per oggi, nonostante sia fortemente auspicabile e vada perseguita con tutte le forze, appare una prospettiva non realizzabile né a corto né a medio termine. Se non cambiano le cose anche a livello internazionale, sembra che la via della difesa civile non violenta sia destinata a coesistere per molto tempo con le forme di difesa militare.
C’è, poi, l’azione non violenta quale è stata messa in atto anche in Polonia, che facendo uso «delle sole armi della verità e della giustizia»,24 ha contribuito, nell’anno 1989, alla caduta dei regimi comunisti in Europa, come ricorda in questo suo Messaggio papa Francesco. Il pontefice ricorda anche quella nonviolenza, praticata con decisione e coerenza, realizzata, più di qualche decennio fa, dal Mahatma Gandhi – la marcia del sale, lo sciopero della fame –, che portò alla liberazione dell’India, e la nonviolenza del pakistano Khan Abdul Ghaffar Khan (il Ghandi musulmano).25
Ma non dimentica anche che le donne sono state protagoniste di una nonviolenza efficace, come, ad esempio, Leymah Gbowee, la quale assieme a migliaia di donne liberiane, organizzando incontri di preghiera e protesta nonviolenta, hanno ottenuto negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.26
L’azione non violenta, propriamente detta, si distingue dall’azione politica e sociale, che cerca di affrontare e risolvere le cause di conflitto prima che degenerino in violenza; dall’azione diplomatica, che negozia compromessi accettabili per evitare scontri violenti o per mettervi termine; dalla mediazione, che ristabilisce le relazioni tra gli avversari; dall’azione umanitaria, che tenta di limitare gli effetti della violenza portando assistenza alle sue vittime.
Essa può essere associata alle diverse azioni appena elencate. In particolare, l’azione non violenta non si accorda con il rifiuto di vedere la realtà della violenza, ostentando indifferenza nei confronti delle ingiustizie che generano violenza, favorendo il disinteresse e l’individualismo. Così, non è rifiuto del conflitto, non è silenzio o fuga di fronte alle situazioni di violenza. Nemmeno è paura di farsi dei nemici, o rassegnazione, capitolazione, sottomissione alla violenza dei violenti. Tanto meno, come si è già detto, è rifiuto di difendersi e di difendere l’oppresso. I sostenitori dell’azione non violenta non sono nella posizione di chi rifiuta, in ogni caso, il conflitto armato come un’esigenza talmente assoluta da dover accettare l’ingiustizia e la perdita della libertà. La nonviolenza comporta l’essere attivi, richiede coraggio e determinazione.
Secondo Ghandi la violenza può addirittura essere preferibile alla codardia.
Proprio per le ragioni suddette le espressioni «resistenza passiva» o «difesa passiva» sembrano meno adatte ad indicare l’azione non violenta, che è essenzialmente azione.
È azione riflessa e concertata, che punta all’efficacia. Si fonda su un’analisi rigorosa della situazione e dei rapporti di forza. Coordina gli atteggiamenti e i comportamenti dei soggetti. Si oppone alla distruzione delle persone umane e si preoccupa di instaurare, ripristinare o difendere i loro diritti fondamentali. Cerca di svegliare e scuotere le coscienze di tutti, compresi avversari e terzi, smascherando la menzogna e l’ingiustizia e indicando dove si trova la violenza.
D’altra parte è azione che mette in opera mezzi omogenei col fine, tali da rispettare l’integrità fisica, psichica, spirituale degli avversari, sempre considerati come persone. La maggior parte di questi mezzi fanno leva sulla forza delle masse, la loro volontà di non cooperazione, di resistenza all’oppressione e all’ingiustizia. Il loro impiego ha per obiettivo obbligare o impedire di nuocere alle persone a cui ci si oppone, quando non le si abbia convinte. In tal modo, l’azione non violenta, è alla portata di tutti, anche di coloro che sono sprovvisti di potere, di influenza o di ricchezze. Essa è forza diversa da quella dei violenti: è forza combattiva contro il male e l’ingiustizia. Rispetta la persona e l’avversario. Manifesta la potenza dello spirito.

6. GESÙ CRISTO TRACCIA LA VIA DELLA NONVIOLENZA CRISTIANA

Dopo una scarna analisi delle varie forme della violenza che colpisce l’umanità papa Francesco propone come esemplare l’azione nonviolenta di Gesù Cristo. La reazione di Gesù alla violenza è stata radicalmente positiva: «Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cf Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cf Mt 5,39).
Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cf Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cf Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cf Ef 2,14-16)».27
Poiché Gesù Cristo è indicato come modello e fonte di nonviolenza, diventa necessario, in vista di una prassi non violenta cristiana, che vengano esplicitate per i credenti le ragioni e le modalità di una tale esemplarità. Per questo ci fermiamo a riflettere sul fatto che Gesù Cristo rivela la nostra vocazione alla pace e, dunque, alla nonviolenza; sul significato e sulla rilevanza della sua morte in croce come denuncia della violenza e sollecitazione all’impegno nell’amore e secondo giustizia; sulla fondazione di un’etica della non violenza, di un ethos contrassegnato dall’attività e dalla creatività.

6.1. Gesù Cristo rivela la nostra «vocazione» alla pace, alla nonviolenza
Il Dio rivelato da Gesù Cristo non è un Dio violento, Dio della guerra santa. Dire che Dio vuole la guerra e la violenza è bestemmiarlo. Ecco quanto papa Francesco scrive nel suo Messaggio: «Lo ribadisco con forza: “Nessuna religione è terrorista”. La violenza è una profanazione del nome di Dio. img158Non stanchiamoci mai di ripeterlo: “Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!”».28 Il Dio dei cristiani è un Dio pacifico, che si fa vicino come colui che perdona, redime e umanizza divinizzando. Rivelando Dio, la sua misericordia, Gesù Cristo rivela all’uomo il suo destino: l’Amore trinitario, principio e fine dell’esistenza.
Visibilizzazione del Padre, presentandosi con i tratti del «Servo sofferente», Gesù viene ad assumere e a risignificare la storia dell’uomo. Ne vuole cambiare il corso senza l’aiuto degli eserciti. Mentre viene catturato dice a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?» (Mt 26,52-54).
Con queste parole Gesù vuole interrompere la spirale di violenza che si sta abbattendo su di lui. Alla violenza risponde con la non violenza. Egli sembra aver chiara la consapevolezza dei rapporti di violenza che determinano le strutture della realtà esistente: la violenza chiama violenza; chi pratica violenza subisce violenza e, facilmente, pratica altra violenza.
La catena si interrompe solo rinunciando alla violenza. Ma ciò non implica subire passivamente la violenza, rassegnati. La rinuncia alla violenza non è perché si è impotenti – Gesù non è indifeso, potrebbe avere a sua disposizione, un enorme potenziale di forza contro il quale la violenza terrena non potrebbe che infrangersi –, ma perché si ha a disposizione la forza dell’Amore e del perdono, seppure umanamente “costosi”: chi smaschera,per amore di Dio e dell’uomo, le strutture di violenza non può sfuggire alla reazione della violenza. Non ignaro di ciò, prima ancora di essere catturato, Gesù confida agli apostoli e alla folla: «È giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo» (Gv 12, 23). «Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12, 27-28).
Cosciente d’essere l’Uomo Nuovo, nel momento stesso in cui è attivo nel dono supremo di sé e accetta la morte, Gesù inaugura per ogni uomo un cammino di non violenza e di pace. In Gesù, che riconcilia l’umanità con Dio, accettando di compierne la volontà, viene prefigurata un’esistenza di comunione con Dio e con i fratelli: l’uomo è essere per la pace e la non violenza.
L’uomo, creato ad immagine somigliantissima di Dio, redento da Cristo, è chiamato ad essere profeta della pace e della non violenza, a superare discriminazioni di ogni tipo, fra vicini e lontani, fra amici e nemici: la storia umana, per la creazione e l’incarnazione, trova inscritta in sé la vocazione all’unità, alla partecipazione della vita di Amore che incessantemente fluisce all’interno della Trinità, alla pace. La nuova immagine di Dio, rivelata da Gesù, fonda ed esige nuovi rapporti fra le persone, contrassegnati dalla fraternità, dalla concordia e dal perdono, dalla verità e dalla giustizia, dalla solidarietà.

6.2. La croce di Gesù è denuncia della violenza, non accettazione passiva di essa; è sollecitazione ad un impegno d’amore e di giustizia
È proprio in Gesù Cristo, che muore in croce, con le braccia aperte sul mondo, perdonando i propri persecutori (cf Lc 23,24), che il progetto divino di un’umanità pacifica e non violenta si manifesta e si compie. Attraverso il gesto sacerdotale di Gesù l’umanità si riconcilia con Dio, con l’Amore, che redime morendo e perdonando. Mediante il sangue di Gesù, nel quale la pienezza d’amore si è compiaciuta di dimorare, non solo l’uomo, ma tutte le cose in lui – afferma san Paolo –, sono riconciliate con Dio (cf Col 1,20). Distruggendo in se stesso l’inimicizia, fonte di violenza, Gesù abbatte il muro delle divisioni, unifica i popoli in un destino di pace, affratella in un solo corpo quelli che erano nemici (cf Ef 2,16; Rom 12,5).
Con il suo sacrificio Gesù «ricrea» l’umanità, trasformandola da nemica, quale era divenuta in Adamo, in amica di Dio; mostra all’uomo tutto l’impegno e la totale fedeltà del Padre al progetto di un’umanità pacifica e non violenta.
Dio vuole il rinnovamento dell’umanità non mediante la costrizione o l’attuazione di una forza vendicativa, ma mediante la forza dell’Amore, che si dona fino all’estremo e perdona. In Gesù Cristo, che sale spoglio sulla croce, presenta al mondo la nuova umanità e fa appello alla libertà deicida con le armi dell’amore che risana e riconcilia. Nel Figlio che si incarna e si immola, si impegna a far uscire l’umanità dal tunnel dell’odio e della violenza, immettendo nell’uomo la sua stessa vita, la sua capacità di dono e di perdono.
La croce di Cristo è per il credente denuncia della violenza, vittoria su di essa, segno della solidarietà di Dio con l’uomo oppresso e conculcato nella sua dignità. La croce non è propriamente apologia della sofferenza, del sacrificio e della morte.
Mentre Gesù l’abbraccia è trasformata in atto d’accusa della violenza del sistema religioso-politico del suo tempo che lo rifiuta e lo condanna ingiustamente.
Per la risurrezione, che non è compenso e riparazione dell’insuccesso della morte di Gesù ma l’affermazione sfolgorante della potenza della vita divina, la croce indica per ogni uomo una via che porta al successo sulla violenza e sull’odio. Perché venendo crocifisso Gesù assume anche la condizione del condannato con ingiustizia, perché Dio Padre si curva sul Figlio per accoglierne il dono della vita ed eternarlo nel dinamismo potente della risurrezione. La croce testimonia la solidarietà di Dio nei confronti di ogni uomo calpestato nei suoi diritti fondamentali.Preghiera semplice
Quando il credente si immerge nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, specie con il Battesimo, partecipando all’Eucaristia – ove è celebrato il memoriale della passione del Figlio di Dio che muore per redimere dal peccato, spezzando il circolo vizioso della violenza –, è reso partecipe della vitalità e della fecondità sanante e liberatrice dell’Amore-non violento. Nello stesso tempo è chiamato ad essere uomo del perdono, ad amare i propri nemici e a pregare per i propri persecutori. Profondamente pacificato, attivo nel dono di sé, è invitato a impegnarsi a fianco degli oppressi e degli ultimi, non per annientare gli oppressori e gli sfruttatori, ma per scuoterne le coscienze e portarli a Cristo, «Servo sofferente», perché siano guadagnati definitivamente all’amore, alla giustizia e alla non violenza.
Gesù, incontrandosi con l’umanità, ha guarito gli ammalati e i peccatori, ristabilendoli nella loro integrità e nella loro dignità. Non condanna il peccatore, ma con i suoi gesti e con le sue parole rivela la violenza latente nei suoi interlocutori (farisei, sadducei, zeloti), riformula sistematicamente le loro subdole domande e solleva i veri problemi per mettere i suoi detrattori di fronte alla loro coscienza. Ai suoi occhi la violenza nasce nel cuore e si esprime già nella parola.

6.3. Gesù fondamento delle istanze etiche e religiose della nonviolenza
Il messaggio della pace e della non violenza nel Vangelo è connesso con l’annuncio e l’avvento del Regno di Dio. Nella reinterpretazione della volontà di Dio fatta da Gesù, l’amore del prossimo non è circoscritto al «prossimo», inteso come membro del proprio gruppo etnico, religioso e sociale.
Come si è già considerato, dal giorno in cui Dio è rivelato come Padre, che ama e benefica i suoi figli senza distinzioni, i confini dell’amore sono dilatati fino a comprendere il nemico. La formula della tradizione sacerdotale «ama il prossimo tuo come te stesso» viene portata a compimento da Gesù: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti » (Mt 5,43-45).
Attraverso questa nuova formulazione dell’amore tra gli uomini, che radica l’ethos della nonviolenza nel modo di agire del Padre, viene disinnescata, in modo radicale, l’ideologia del nemico che, lungo la storia biblica – e quella successiva cristiana –, ha giustificato l’eliminazione fisica dell’avversario. Non si tratta di amare il nemico lasciandolo nemico, ma di amare il nemico non trattandolo più come nemico, cercando di mutarlo in amico.
Con l’abolizione della categoria «nemico » non si accetta l’ingiustizia, non si ignorano i conflitti. Si vuole, invece, attuare la giustizia nel suo significato più pieno, giacché il prossimo, come insegna lo stesso Gesù nella parabola del buon samaritano, non è un essere astratto ma reale, concreto, bisognoso di aiuto e di amore. A lui spetta l’amore misericordioso del Padre per rinascere come persona nuova ed essere se stesso, ossia figlio di Dio.
Mediante il suo insegnamento Gesù invita a rinunciare alla strategia della violenza per assumere quella dell’amore attivo e creativo. Propone la giustizia dell’amore – una forma più alta della giustizia che cerca di stabilire un equilibrio fra delitto e castigo –, che libera il malvagio dalla spirale della violenza e dell’iniquità: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti comanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle» (Mt 5,38-42).
Con queste parole, più che un codice di comportamento da eseguire alla lettera, Gesù propone l’istanza dell’amore che si esprime in forma creativa anche nelle situazioni di violazione di diritti personali, come nel caso dell’insulto ingiurioso, dell’espropriazione dei beni personali, della requisizione per la corvée pubblica o militare, del prestito esoso e petulante dell’insolvente.
Motivi o fini diversi possono indurre a rinunciare alla resistenza violenta contro la violenza subita. La rinuncia alla violenza può essere espressione di una protesta passiva e sofferta, può voler dimostrare una neutralità disinteressata, può infine essere una strategia di sopravvivenza di chi è vinto ed è senza speranza. In tutti questi casi non vengono presi in considerazione né l’atteggiamento né l’azione di colui che pratica la violenza: il predominio del violento viene sopportato, tollerato o addirittura accettato.
L’imperativo etico espresso nei passi evangelici appena citati si differenzia da queste tre forme. Il non violento non è né impotente né neutrale; soprattutto prende in considerazione l’avversario stesso che pratica la violenza. Questi deve essere condotto, mediante l’interruzione della catena di violenza, a verificare e infine a modificare il suo agire. Se il comandamento dell’amore per il nemico è cogente, allora l’agire del nemico, del violento, non può essere indifferente: il non violento non può rimanere inattivo in un ambiente violento.

6.4. L’esperienza di Cristo aiuta la comunità cristiana ad abbozzare un’etica della nonviolenza Per la fede, l’etica dell’azione non violenta si radica nell’esperienza dell’Essere stesso di Dio, rivelato dal Verbo fattosi carne. I testi biblici lo presentano come «il Vivente», il creatore e difensore della vita, il liberatore degli oppressi, Amore (1 Gv 4,8.16). Gli esseri umani sono chiamati «figli di Dio». Assumere questa figliolanza è vivere a sua immagine, difendendo e promovendo la vita con la forza creativa ed attiva dell’amore, che spezza il determinismo della violenza e avvia nuove relazioni umane.
L’etica dell’azione nonviolenta si fonda su ciò che si potrebbe chiamare «l’avventura umana di Dio», cioè il modo che Egli ha scelto per rendersi presente nella nostra storia – l’incarnazione –, per trasformarla e renderla feconda, per farla sbocciare in un compimento armonioso: «il regno di Dio», regno di pace e di giustizia. Inaugurato da Gesù Cristo, morto e risuscitato, questo «Regno» è germe da accogliere, da far crescere in unione e comunione con Lui, escludendo ogni violenza dalla sua realizzazione. La proclamazione del regno di Dio è proclamazione dell’alleanza di pace stabilita da Cristo fra Dio e tutti i popoli, e fra i popoli stessi, vincendo il peccato e l’odio. La pace del Regno di Dio non è semplicemente frutto dell’accordo umano, ma è dono di Dio.
La pace di Dio e la pace del mondo non sono identiche: «Vi lascio – dice Gesù ai suoi discepoli – la pace; vi do la mia pace; non come la dà il mondo io ve la do» (Gv 14,27).
Va tuttavia aggiunto subito, a scanso di gravi equivoci, che l’insegnamento di Cristo e la sua stessa azione non escludono affatto dalla condotta cristiana l’atteggiamento di fortezza che, in caso di necessità, può, o anche deve, realizzarsi con giusta energia. Egli, infatti, insegna che «il Regno dei cieli subisce violenza e sono i violenti che lo rapiscono» (Mt 11,12; cf Lc 16,16). E nel caso dei venditori nel tempio interviene con estrema energia (cf soprattutto Gv 2,14-17).
D’altro lato gli evangelisti non evitano di ricordare l’«ira» di Cristo (Mc 3,5 e probabilmente anche 1,41) e la sua «indignazione» (Mc 10,14).
Né, infine, mai, il Nuovo Testamento (=NT) condanna il servizio militare. È anche istruttivo l’insegnamento di Giovanni il Battista secondo Luca: ai militari in esercizio attivo (strateuomenoi) che chiedono come convertirsi egli raccomanda l’onesto svolgimento delle loro mansioni (Lc 3,14), non di abbandonarle.
La comunità cristiana, nel NT, è posta di fronte al mondo come comunità modello, come proposta vivente e concreta di «società alternativa», nonviolenta. È chiamata ad essere sale della terra e luce del mondo, vivendo realmente la riconciliazione con Dio e i fratelli, non dominata da strutture violente, quali quelle delle potenze di questo mondo. I discepoli di Gesù delle comunità neotestamentarie celebrano nell’Eucarestia la morte di Gesù come il superamento escatologico della violenza e confessano che Dio, mentre si lascia colpire nel suo Figlio dalla violenza universale dell’umanità, ne spezza il circolo vizioso. Ma lo stesso Gesù Cristo aveva messo sull’avviso i suoi discepoli sul permanere di tensioni anche gravi, che implicano delle vere lotte (Mt 10,34-36: non la pace ma la spada; cf Lc 12,51- 53).
Se in situazioni solo individuali è sempre possibile subire senza ribattere la violenza altrui, come sarebbe giusto un tale atteggiamento da parte di chi abbia responsabilità di altre persone, specie se indifese? Il pastore deve dare la vita per le sue pecore, ma certamente non senza combattere i lupi.

S.E. Mons. Mario Toso
Vescovo di Faenza Modigliana,
già Segretario Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace

1 Cf FRANCESCO, Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2017), LEV, Città del Vaticano 2016.
2 Si tratta di una letteratura molto vasta. Qui, ci limitiamo a rimandare ai seguenti volumi: S. J. PHARR R. D. PUTNAM (a cura di), Disaffected Democracies. What’s Troubling the Trilateral Countries, Princeton University Press, Princeton 2000; G. ZAGREBELSKY, La democrazia e la felicità, a cura di E. Mauro, Laterza, Roma-Bari 2011; C. GALLI, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011.
3 Basti pensare a quanto sta avvenendo nel Medio Oriente, una regione frantumata e sotto attacco da parte della guerriglia e del terrorismo. Qui la lotta tra musulmani sunniti e sciiti ha assunto un vero carattere di contesa per l’egemonia regionale e ha provocato tra i sunniti gli allineamenti politici e gli aiuti economici più improbabili, trasversali e comunque ben celati nelle attività concrete, politiche e finanziarie, di là dalle oblique pronunce politiche. Su questo si legga F. SALLEO, Non solo guerra, in «Ariel» (2015), n. 1, pp. 44-45.
4 Cf F. SALLEO, Non solo guerra, p. 45. Su Al-Qaeda E Stato islamico si legga: D. TOSINI, Metastasi del Qaedismo: da Al- Qaeda allo Stato Islamico, in «Ariel» (2015), n. 1, pp. 50-56.
5 Cf GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, n. 36.
6 GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la Celebrazione della Giornata mondiale della pace (1° gennaio 1982), n. 2. 7 Cf Sollicitudo rei socialis, nn. 38-39.
8 Sul rapporto tra alcuni movimenti e la violenza cf F. BAGOZZI, Antagonismo e conflitto: l’ala dura dei Movimenti, in «Ariel», (2015), n, 1, pp. 115-123.
9 Su questa si legga almeno: PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Terra e cibo, LEV, Città del Vaticano 2015, pp. 45-51.
10 Cf M. TOSO, Per una nuova democrazia, LEV, Città del Vaticano 2016, p. 35.
11 Cf GIOVANNI XXIII, Mater et magistra, nn. 95-96.
12 Cf GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace (1°gennaio1990), n. 1.
13 Cf FRANCESCO, Laudato sì’, LEV, Città del Vaticano 2015, nn. 101-123.
14 Cf GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace (1°gennaio1990), n. 3.
15 Cf Laudato sì’, capitolo IV.
16 Cf ib., n. 22.
17 Cf Laudato sì’, nn.102-103.
18 Ib., n. 104.
19 Cf GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, n. 11. Si veda anche BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, nn. 74-75.
20 Sul tema della «guerra giusta», sulla sua crisi e sulla discussione intorno ad essa si veda almeno: P. CARLOTTI, La pace, la difesa militare e le sue legittime forme, in PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Il concetto di pace. Attualità della «Pacem in terris» nel 50° anniversario (1963- 2013), LEV, Città del Vaticano 2013, pp. 351-384.
21 Cf GIOVANNI XXIII, Pacem in terris, n. 67.
22 Cf GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace (1°gennaio1984), n. 4.
23 Con le Sentenze della Corte costituzionale n. 164 del 1985 e n. 228 del 2004 si è sancito che il dovere Costituzionale dei cittadini della Difesa della Patria, può venire svolto in maniera equivalente con modalità diverse e/o estranee alla Difesa militare. Con DPCM del 18 febbraio 2004 è stato istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri un Comitato di consulenza per la difesa civile non armata e nonviolenta.
24 Cf GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus, n. 23.
25 Entrato in contatto con Gandhi e con altri pensatori musulmani indiani, ne assorbì l’influenza e si impegnò per la difesa dei diritti delle persone meno abbienti investendo molte energie fin dall’inizio della sua ricerca nell’ambito dell’istruzione, considerata la via prioritaria per la conquista della libertà. Inoltre si attivò concentrandosi anche per difendere i diritti delle donne, in questa direzione si sono pure impegnate le sue sorelle contribuendo a sviluppare una cultura mirata al rispetto dell’identità delle donne e all’applicazione della pratica della non violenza per la gestione delle relazioni non solo nei confronti del popolo indiano, ma anche rispetto ai colonialisti inglesi. Badshah Khan fondò il primo esercito nonviolento della storia, Khudai Khidmatgar (servi di Dio), il cui giuramento recitava: “Sono un Khudai Khidmatgar, e poiché Dio non ha bisogno di essere servito, ma servire la sua creazione è servire lui, prometto di servire l’umanità nel nome di Dio. Prometto di astenermi dalla violenza e dal cercar vendetta. Prometto di perdonare coloro che mi opprimono o mi trattano con crudeltà. Prometto di astenermi dal prendere parte a litigi e risse e dal crearmi nemici. Prometto di trattare tutti i patta come fratelli e amici. Prometto di astenermi da usi e costumi antisociali. Prometto di vivere una vita semplice, di praticare la virtù e di astenermi dal male. Prometto di avere modi gentili ed una buona condotta, e di non condurre una vita pigra. Prometto di dedicare almeno due ore al giorno all’impegno sociale”. È importante sottolineare che i sostenitori del movimento, nato nel 1929, che hanno condiviso il pensiero di Badshah Khan erano nati e cresciuti in un ambiente storicamente caratterizzato dalla cultura della vendetta e da un severo codice d’onore.
26 Cf FRANCESCO, La nonviolenza: stile di una politica per la pace, n. 4.
27 Cf ib., n. 3. 28 FRANCESCO, Messaggio per la Celebrazione della Giornata mondiale della Pace (1° gennaio 2017), n. 4.