L'acqua che unisce | ilcantico.fratejacopa.net

Il modo più significativo con cui celebrare l’unità d’Italia sarebbe quello di imporre come cittadini, attraverso il successo dei due referendum, dichiarati ammissibili dalla Corte, l’avvio di un rinnovamento della politica a tutela dei diritti. Considerando l’acqua un diritto. L’Italia celebra quest’anno i 150 anni dell’unità. In assenza di un ricorso anticipato alle urne, questa ricorrenza sarà associata a una importante sfida culturale e politica: la consultazione referendaria per sottrarre la gestione dell’acqua alla speculazione del libero mercato. Molto spesso ci si dimentica che il benessere, la fruibilità di alcuni beni e diritti sono il risultato di grandi scoperte, investimenti e scelte politiche collegate alla stessa unità d’Italia che quest’anno celebriamo.

Il XIX secolo
È nel XIX secolo che l’acqua diventa in Italia un bene accessibile a tutti. La costruzione degli acquedotti costituisce la premessa strutturale dell’avvio dei processi di industrializzazione del nostro paese. Senza la nazionalizzazione dell’acqua e dell’energia elettrica a Torino non sarebbe mai nata la Fiat, così come a Milano l’industria metallurgica. L’acqua diventa lo strumento di aggregazione dei comuni e dei cittadini. Attraverso la costruzione dell’acquedotto pugliese l’acqua arriva anche al Sud. Il processo di unificazione dell’Italia passa quindi attraverso l’acqua e la capacità della politica di farsi carico di garantire pari opportunità di accesso ai diritti di base. Poi, con l’internazionalizzazione degli scambi, la nascita dell’Unione europea, l’attenzione degli Stati si sposta dall’accesso all’acqua alla protezione della risorsa a livello di qualità. Gli atteggiamenti della politica e degli Stati cominciano nuovamente a diversificarsi. Gli Stati europei delegano all’Unione europea la definizione di regole del mercato e la tutela delle risorse naturali. Alcuni governi europei (Belgio, Olanda, Germania) puntano alla salvaguardia pubblica dell’acqua, classificata come un servizio pubblico di interesse nazionale. L’Europa emana le prime direttive quadro a tutela della risorsa e dei consumatori, mette a disposizione risorse finanziarie, ma sotto la pressione delle grandi imprese multinazionali europee comincia la deriva verso il conferimento al mercato della gestione delle risorse idriche. L’inizio del XXI secolo si caratterizza per il trionfo di una cultura dominante improntata alla mercificazione, negando che l’acqua sia un diritto umano inalienabile limitandosi a qualificarlo come un bisogno, un servizio industriale (2° Forum dell’acqua dell’Aja del marzo 2000 del Consiglio mondiale dell’acqua e dei Forum dell’acqua, così anche a Tokyo 2003, Città del Messico 2006, Istanbul 2009). Il primo decennio di questo secolo segna però un importante risultato, frutto anche della mobilitazione della rete dei movimenti che si ispirano ai principi del Manifesto per un Contratto mondiale dell’acqua. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 20 luglio 2010, per iniziativa del governo boliviano e di altri governi latino-americani, ha riconosciuto il diritto umano all’acqua e sancisce che gli Stati e la comunità internazionale hanno il compito di garantire questo diritto. Si apre quindi un nuovo scenario per il futuro dell’acqua che è tutto da verificare e costruire. La cultura e la politica dell’acqua in Italia Agli inizi del novecento è dunque lo Stato, in Italia, a farsi carico del finanziamento delle grandi opere di adduzione (acquedotti) e di bonifica delle aree depresse, mentre la gestione ha coinvolto le autonomie locali (comuni, provincie, regioni). L’eccessiva frammentazione delle gestioni porta la politica ad approvare la legge Galli (n. 36/1994), che riduce il numero dei gestori e introduce la presa in carico da parte del gestore dell’intero ciclo idrico. Con il governo D’Alema viene introdotto l’obbligo della trasformazione delle aziende municipalizzate in Società per azioni (Spa), ma gli enti locali hanno libertà di scegliere tra le modalità consentite dalla Commissione europea: l’affidamento della gestione tramite gara ad imprese, la gestione tramite partenariato con i privati o la gestione diretta. Con il governo Prodi, i movimenti dell’acqua riescono ad imporre all’agenda politica la priorità dell’acqua proponendo una nuova legge quadro, ma le forze politiche che sostengono il governo hanno posizioni contraddittorie (decreto Lanzillotta). La politica opta per una moratoria di due anni rispetto alle scelte di affidamento del servizio. La situazione cambia sotto il governo Berlusconi che, sostenendo falsamente obblighi imposti dalla Commissione europea, accelera i processi di privatizzazione. Con la finanziaria del 2008 entra in vigore l’art. 23/2008 del Decreto Ronchi e successivamente la legge 42/2009 Decreto Calderoli (soppressione degli ATO). Con questi provvedimenti si definisce l’acqua un “servizio idrico di rilevanza economica”, cioè una merce la cui gestione va affidata al mercato attraverso gare di appalto e si sopprime l’autonomia dei comuni nel decidere le modalità di affidamento attraverso gli ATO (assemblee di comuni). Paradossalmente, nel luglio del 2010, in sede di approvazione della risoluzione Onu che riconosce il diritto all’acqua, l’Italia è fra i governi che sostengono questa proposta. A partire dal 2011, l’acqua cesserà quindi di essere un bene collettivo; la proprietà resta solo virtualmente “pubblica”, in mano ai comuni, che vengono però obbligati a cedere ai privati le quote azionarie delle società che detengono le reti (acquedotti) e di cui sono proprietari. I privati acquistando semplici azioni – il cui valore di mercato è inferiore al valore reale delle opere – di fatto acquisiscono per 20/30 anni il monopolio della gestione delle reti pubbliche, cioè lo sfruttamento della risorsa idrica, definendo di fatto le condizioni di gestione (investimenti e tariffe). A differenza di altri paesi europei, che hanno optato per una gestione pubblica dell’acqua, spesso conferendo alle regioni le competenze, il governo italiano ha optato per cedere al libero mercato, di fatto ad alcune multiutility italiane ma soprattutto di offrire alle multinazionali francesi la conquista del mercato italiano dell’acqua. L’esproprio degli enti locali avverrà in beffa al tanto decantato federalismo, di cui la Lega si proclama paladina.

Lo spartiacque dei referendum
Il Forum italiano dei movimenti dell’acqua, di cui fa parte il Contratto mondiale sull’acqua, propone da tempo una nuova visione dell’acqua. Nel luglio del 2007 ha sottoposto al dibattito parlamentare una legge di iniziativa popolare, che a partire dal riconoscimento dell’acqua come diritto umano propone un modello di gestione pubblica attraverso enti di diritto pubblico, partecipato dai cittadini, sostenuto da un finanziamento attraverso la fiscalità generale (costo diritto all’acqua) e forme di fiscalità specifica che, associate alla tariffa sui consumi, possano garantire la copertura dei costi di manutenzione e gestione. Le forze della maggioranza ma anche dell’opposizione hanno finora snobbato questa proposta di legge e sono stati accelerati i processi di privatizzazione. Dall’esigenza di contrastare l’obbligo della messa a gara, a partire dal 2012, della gestione dell’acqua, nasce la campagna referendaria, lanciata nel secondo semestre del 2010, che nell’arco di tre mesi ha consentito di raccogliere oltre 1 milione e 400 mila firme a sostegno di tre quesiti referendari. Quale sarà il futuro modello di gestione del servizio idrico in Italia se i tre quesiti proposti dal Comitato promotore della Campagna referendaria saranno dichiarati ammissibili e soprattutto se saranno sostenuti dal voto dei cittadini italiani? Se si andrà alle elezioni politiche nel corso dei primi sei mesi del 2011, l’indizione del referendum slitterà di un anno. Ciò significa che la maggioranza dei comuni italiani sarà obbligata a mettere a gara la gestione dei servizi idrici. Riciclando uno slogan si potrebbe dire che il provvedimento produrrà i suoi effetti quando i buoi sono già usciti dalla stalla. Se invece i referendum si svolgeranno entro il 15 giugno, se i tre quesiti referendari otterranno il sostegno del 50% + 1 degli aventi diritto al voto e trionferà la maggioranza dei SÌ tra i votanti, si creerebbe di fatto un nuovo scenario che consentirebbe di salvare l’acqua come bene comune. Se il primo quesito referendario raggiungerà il quorum, sarà annullato l’obbligo della messa a gara previsto dall’art. 23 del decreto Ronchi; il successo del secondo quesito annullerebbe l’obbligo di conferire la gestione a società di capitale, rendendo possibile per gli enti locali l’affidamento ad enti di diritto pubblico, cioè senza scopo di lucro. Infine, se anche il terzo quesito referendario raggiungesse il quorum, in Italia chi investe sull’acqua non avrà più un rendimento minimo garantito per legge del 7%. L’effetto combinato dei tre quesiti annullerebbe i riferimenti legislativi vigenti, rendendo necessaria l’approvazione di un nuova legge quadro sull’acqua. Il dibattito potrebbe ripartire dalla proposta di legge depositata dal Forum dei movimenti oppure da proposte di legge parlamentare; una di queste è quella depositata dal Partito democratico che non coincide però con la proposta dei Movimenti. La cultura presente nella maggioranza delle forze politiche resta però quella di ritenere che il mercato sia il migliore strumento di regolamentazione dei servizi idrici. La vittoria referendaria, in assenza di una rivoluzione culturale che convinca in primis noi cittadini e quindi tutte le forze politiche a considerare l’acqua un diritto, un bene comune e non una merce, non garantirà di fatto la possibilità di mettere in atto nuove modalità di gestione pubblica dell’acqua. Il referendum è uno strumento di democrazia, che potrà concorrere a contrastare i processi di privatizzazione ma non garantirà di fatto una gestione pubblica. Il successo dei referendum deve essere associato ad una riconversione dell’approccio individuale, come cittadini, e collettivo, come società civile, della nostra cultura nei confronti dell’acqua. L’acqua non è un bene privato. Il modo più significativo con cui celebrare l’unità d’Italia sarebbe quello di imporre come cittadini, attraverso il successo dei tre quesiti referendari, l’avvio di un rinnovamento della politica a tutela dei diritti. Considerare l’acqua un diritto, come dichiarato dalle Nazioni Unite, e impegnare gli Stati a garantirlo, significa riconvertire la politica a favore di una gestione pubblica e partecipata dell’acqua come servizio pubblico nazionale. Significa quindi dichiarare l’acqua un bene comune pubblico, nazionale, il cui accesso è garantito ad ogni cittadino. Salvare l’acqua significa salvare la democrazia, e rinsaldare l’unità d’Italia. Questa è la sfida del 2011 e l’impegno civile con cui affrontare il nuovo anno.

Rosario Lembo, Presidente Contratto mondiale dell’acqua- Onlus (www.contrattoacqua. it)