In questo secondo Speciale della Scuola di Pace “Non più schiavi, ma fratelli” pubblichiamo la riflessione di p. Giulio Albanese “Riflessione sui segni dei tempi” (riservandoci il completamento nel prossimo Numero) e la riflessione di p. Giovanni La Manna “Migrazioni e tratta”, relazioni proposte nella Scuola di Pace (Roma 3-5 gennaio 2015).

Ancora oggi, duole doverlo scrivere, esiste lo schiavismo. Proprio come al tempo degli egizi, dei sumeri o dei romani. Si tratta di un fenomeno aberrante, che evidenzia un deficit di civilizzazione, rispetto al quale la comunità internazionale, spesso, fa finta di niente. È per questa ragione che papa Francesco ha scelto come tema della Giornata Mondiale della Pace 2015 uno slogan all’insegna della liberazione: “Non più schiavi, ma fratelli”.
D’altronde, in una società planetaria segnata da profonde sperequazioni, il deficit di libertà è una delle costanti, soprattutto nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo. A questo proposito, papa Francesco ha ricordato, dando voce a chi non ha voce, che è “una piaga gravissima nella carne di Cristo! Per contrastarla efficacemente occorre innanzitutto riconoscere l’inviolabile dignità di ogni persona umana, e inoltre tenere fermo il riferimento alla fraternità, che richiede il superamento della diseguaglianza, in base alla quale un uomo può rendere schiavo un altro uomo, e il conseguente impegno di prossimità e gratuità per un cammino di liberazione e inclusione per tutti”.
È dunque chiaro che l’obiettivo del papa è quello di promuovere una civiltà dell’amore, fondata sulla pari dignità di tutti gli esseri umani, senza discriminazione di sorta. Essere cristiani, è bene rammentarlo, significa testimoniare un messaggio di liberazione.
Ma in che modo è possibile contrastare oggi la schiavitù? In un mondo che passa, nel costante fluire della Storia e che scorrendo, ora fa gioire, ora fa gemere, il cristiano non può conoscere nulla di più grande del Regno. Si tratta del vero antidoto contro forma di costrizione o sudditanza. In questa prospettiva, essere credenti significa assunzione delle proprie responsabilità rispetto alla conversione del cuore, al bene condiviso, alla pace, alla giustizia, alla riconciliazione, al rispetto del creato. Ciò scaturisce dalla possibilità che ci viene offerta dall’incontro con Cristo, nelle periferie, a fianco dei poveri, degli ultimi, nei bassifondi dove sono relegati. A distanza di quasi due anni dall’elezione di Papa Francesco, ci pare che questa, sia la sintesi più efficace del suo magistero, in riferimento al tema della “Missione”, anche e soprattutto alla luce dell’Esortazione Apostolica, Evangelii Gaudium.
Ecco che allora da una parte c’è il nostro dovere di annunciare e testimoniare il Vangelo, mentre dall’altra può manifestarsi l’adesione o il rifiuto di qualsivoglia interlocutore. Ciascuno alle prese con la più problematica delle saggezze: il dubbio. Qui non discutiamo affatto sulle verità rivelate, ma sulle modalità che perseguiamo nell’affermarle.
Quante volte, ammettiamolo, le nostre promesse si sono dissolte come fossero bolle di sapone o i nostri gesti hanno offuscato il mistero dell’amore. Ecco che allora, accanto ai valori manomessi dalla nostra ottusità e grettezza, si evince sempre più il bisogno di realizzare una reale congiunzione tra “Spirito” e “Vita”.
Cantico febbraio 2015 1 derLa spiritualità missionaria non può prescindere dal contesto in cui viviamo. Un messaggio evangelico asettico non serve a nulla, non foss’altro perché un cristianesimo disincarnato è come se fosse una civiltà senza religione. Se per secoli l’Europa ha visto nel cristianesimo il proprio elemento aggregante, oggi, stando alla cronaca, non è più così. La Civitas medievale è impressa sui muri delle cattedrali, sugli affreschi o sulle tele di Cimabue e Giotto, ma non certo nei comportamenti di una società globalizzata in cui si è persa la linea di demarcazione tra sacro e profano. Da ciò deriva l’urgenza di tornare ad essere, parafrasando il Vangelo, “sale della terra”, “lievito che fa fermentare la massa”.
Ecco perché è necessario comprendere il mondo, saperlo interpretare, leggendo attentamente i “segni dei tempi”1. La loro decodificazione è fondamentale per rendere intelligibile il messaggio cristiano in un mondo che cambia. Il Vangelo stesso ne ha forgiato l’espressione, identificandola come un invito alla fede e alla vigilanza2.
Nel riproporre con forza l’originario significato biblico, Giovanni XXIII, nella sua profetica lettura della storia della Chiesa, ha invitato a scrutare questi segni affermando: “Facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi, crediamo di scoprire, in mezzo a tante tenebre, numerosi segnali che ci infondono speranza sui destini della chiesa e dell’umanità”3.
Questa attenzione ai segni da parte del “Papa Buono” trovò la sua esplicitazione nell’enciclica Pacem in Terris e in quella del suo successore Paolo VI che riprese l’espressione nel suo primo documento ufficiale, l’Ecclesiam Suam, osservando che si deve “stimolare nella Chiesa l’attenzione costantemente vigile ai segni dei tempi e all’apertura continuamente giovane che sappia verificare tutto e ritenere ciò che è buono”.
Il Concilio, naturalmente, fece da cassa di risonanza e da laboratorio rispetto a questa intuizione dei segni, riproponendola nella costituzione Gaudium et Spes.
Tre testi, particolarmente, colpiscono in questo documento conciliare: “Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico”4;
“Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio.
La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane”5.
“È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta”6.
Questi tre testi sono molto espliciti e ci fanno capire che, a distanza di cinquant’anni da quando furono redatti, non hanno trovato spesso la cosiddetta attuazione nell’evangelizzazione. Per carità, sarebbe ingiusto negare gli sforzi profusi da molti pastori e agenti pastorali in questi ultimi decenni, ma molto di più poteva e deve essere fatto. Anzitutto, leggendo sia la Gaudium et Spes, come anche la Lumen Gentium, balza evidente il cambiamento ecclesiologico di posizione e di prospettiva.
La Chiesa si autocomprende al servizio della Parola rivelata, proponendosi come mediazione di essa nel mondo. Una Chiesa pellegrina con l’uomo del suo tempo che per lui rappresenta la “compagnia della fede” nella ricerca della autentica volontà di Dio7. Una Chiesa umilissima che chiede aiuto agli uomini del suo tempo per essere capace di leggere attentamente i fenomeni umani.
Una Chiesa povera, consapevole che la verità è ricerca comune e che essa la possiede solo in una prospettiva escatologica. Intendiamoci, questa non è una prospettiva del protestantesimo, è il modo di pensare della più alta autorità del Magistero: il Concilio!
“La Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano… la Chiesa ha un bisogno particolare dell’aiuto di coloro che, vivendo nel mondo, sono esperti delle varie situazioni e discipline, e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o non credenti”8.
Non credo sia esagerato dire che mai erano state scritte parole così esplicite da parte della Chiesa nei confronti del mondo. Mi pare che questo sia un dato che va ricordato con insistenza, perché segna un modo nuovo di porsi della Chiesa – dal mio umile punto di vista, lo ripeto con insistenza, ancora non pienamente realizzato – nei confronti delle culture, delle ideologie e degli uomini che le formano. In questo contesto, i segni dei tempi orientano verso un’interpretazione più universale del dato rivelato e obbligano la stessa Chiesa, nel suo insegnamento, a sintonizzare tale messaggio salvifico alla vita e alla cultura dell’uomo, una realtà in costante mutamento.Cantico febbraio 2015 alb 3
In qualche modo, quindi, i segni dei tempi appartengono già alla Rivelazione perché possono essere identificati con quei germi di vita9, posti nel mondo e nel cuore di ogni uomo, mediante i quali è più facile percepire l’azione di Dio che incessantemente opera nella creazione, nella storia e negli uomini.
Davanti ai segni dei tempi, la Chiesa è provocata a svolgere la sua funzione profetica perché è chiamata ad esprimere il giudizio di Dio sul presente. Un giudizio, tuttavia, che è sempre di misericordia. I segni dei tempi, infine, spingono a considerare seriamente l’orizzonte escatologico, ponendo tutti, credenti e non, nell’attesa di un compimento definitivo della storia. Il Concilio sembra quindi aver compiuto, anche per i segni dei tempi, un processo di personalizzazione e attualizzazione che apre la strada ad orizzonti davvero infiniti.
Ma quali sono oggi realmente i segni dei tempi sui quali dovremmo discernere per contrastare, alla luce della Parola forte di Dio, ogni forma di schiavitù?
La lista potrebbe essere molto lunga, ma per brevità mi soffermerò solo su alcuni segni che, alla luce della mia esperienza, risultano essere sintomatici di un mondo che sta attraversando una fase, senza precedenti nella storia umana, di mutazioni; vere e proprie trasformazioni trasversali, presenti con sfumature diverse, nei cinque continenti.

1. IL PRIMO SEGNO: LA GLOBALIZZAZIONE
Il primo segno è quello della globalizzazione. Un fenomeno su scala planetaria i cui effetti sono evidenti a livello socio-politico-economico, oltre che culturale e religioso. Da qualche anno a questa parte, solitamente si parla male della globalizzazione che viene associata concettualmente alla devastante crisi dei mercati finanziari e in particolare del lavoro. In effetti, sulla globalizzazione si può dire tutto e il contrario di tutto, trattandosi di un qualcosa che ha a che fare col progressivo allargamento della sfera delle relazioni sociali sino ad un punto che potenzialmente arriva a coincidere con l’intero pianeta.
Interrelazione globale significa anche interdipendenza globale, per cui sostanziali modifiche che avvengono in una parte del pianeta avranno, in virtù di questa interdipendenza, ripercussioni, nel bene e bel male, anche in un altro angolo del pianeta stesso, in tempi relativamente brevi. Una delle sue manifestazioni tecnologiche più appariscenti riguarda la planetaria diramazione della Rete Internet, espressione di un pro gresso comunicativo che ha innescato una vera e propria rivoluzione culturale, non minimamente riducibile ad un semplice indicatore dello sviluppo umano.
Internet, infatti, si configura prevalentemente come proiezione, nella Rete, della condizione umana che consente di esplorare gli sconfinati spazi di socializza zione quali i social network, le mailing list, i news group, i forum, le chat line, l’e-mail, per non parlare dell’erogazione di inediti servizi in ogni ambito, da quello commerciale a quello politico, religioso, militare, scientifico e ludico. Un fenomeno, dunque, decisamente rivoluzionario che, nel suo complesso, ha determinato la creazione di nuove vie d’accesso alla conoscenza quali l’informazione, la ricerca, la documentazione e l’aggiornamento, ampliando a dismisura il bacino delle opportunità umane.
Il termine “Internet” deriva da “Interconnected Networks”, cioè “Reti Interconnesse”.
L’idea su cui si fonda è molto semplice e consiste nel collegare reti di computer tra loro, creando “la Rete delle Reti” da cui deriva la metafora delle “autostrade” internettiane tanto cara a Bill Gates, fondatore della Microsoft.
albanese terraNella società reale, anch’essa globalizzata, le autostrade nazionali sono arterie di comunicazione veloce, realizzate per ogni tipo di mezzo, privato o commerciale che sia, collegando reti di strade locali per facilitare il trasferimento e lo scambio veloce delle merci. Lo stesso vale per le reti ferroviarie e per quelle marittime e aeree. Ciascuna di queste reti ha un’origine, una storia, un’evoluzione, una specializzazione, modificando le loro caratteristiche nel tempo, al punto, ad esempio, che le reti ferroviarie competono con quelle aeree per il trasporto passeggeri e sono in lizza con le autostrade.
Questi sistemi di trasporto, associati allo standard per visualizzare le informazioni ed interagire con esse, portano anche alla realizzazione di nuovi spazi di incontro ed interazione di coloro che li utilizzano: per analogia si può immaginare una stazione ferroviaria, un aeroporto, una stazione di servizio. Proviamo, allora, a comprendere meglio e ad approfondire il concetto dei luoghi nella “Rete delle Reti”, facendo riferimento alla metafora del “non luogo”.
A parlarne è stato l’antropologo francese Marc Augé10 secondo cui i non luoghi sono, in contrapposizione ai luoghi antropologici, tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei non luoghi sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (autostrade, svincoli e aeroporti), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, i campi profughi, ecc.
Spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane come porta di accesso ad un cambiamento (reale o simbolico). I non luoghi sono prodotti della società della surmodernità11, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte, alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”, Simili eppure diversi: le differenze culturali massificate.
In ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Ognuno con un proprio stile e caratteristiche proprie nello spazio assegnato. L’individuo nel non luogo perde tutte le proprie caratteristiche per continuare ad esistere solo ed esclusivamente come cliente o fruitore. Il suo unico ruolo è quello dell’utente, definito da un contratto più o meno tacito che si firma con l’ingresso nel non luogo. Internet nasce così: un non luogo, una rete di passaggio tra luoghi, una rete di trasporto, vista come uno strumento dove pubblicare le proprie brochure da parte delle grandi e piccole aziende.
La cosiddetta “disintermediazione” dell’informazione arriva subito dopo: perché rivolgersi ad una rete televisiva o ad una rivista specializzata per far conoscere il mio prodotto? Successivamente è arrivato l’Internet delle interazioni sociali, i cosiddetti social network. Un luogo di missione? Sono uno dei tanti contesti per entrare in contatto con la gente. Stiamo parlando di una realtà, quella internettiana, che comunque al di là dei servizi che essa può offrire, è “Terra di Missione”. Da questo punto di vista, è necessario esercitare un’azione educativa sugli utenti, promuovendo responsabilità e fiducia. Infatti, uno degli errori che viene commesso frequentemente da coloro che si accostano alla Rete con un background culturale “predigitale”, è quello di considerarla come “un momento a sé stante” dell’esistenza umana.
Sì, quasi vi fosse da una parte la vita “reale” e dall’altra quella “virtuale”, sancendo una distinzione tra due distinte realtà. Per carità, si può anche vivere senza cellulare, ma i modelli e i paradigmi odierni sono un qualcosa d’ineluttabile, forme espressive, linguaggi che fanno parte del “modus vivendi” delle nuove generazioni, come anche di quelle più attardate. Per i giovani, come anche per i loro genitori, esiste solo una “Vita” che è “iperconnessa”, con il telefono e gli sms, con la posta elettronica e con il Web. Ciò che conta è farne un uso intelligente.
D’altronde, secondo la strategia di Bill Gates, le cosiddette “information highways”, le cosiddette autostrade dell’informatica e dell’informazione, non sono solo il sistema nervoso digitale di questa o quell’azienda, ma anche il sistema nevralgico del “no-profit”, nelle caratteristiche di economicità ed ubiquità del network. Lo stesso vale anche per il mondo missionario che ha iniziato ad utilizzare Internet prima di molte categorie sociali, addirittura nella prima metà degli anni Novanta, testimoniando il Vangelo.
L’importante è capire che dietro ogni computer c’è sempre una persona alla quale dovremmo offrire fiducia e sostegno, annunciando la Buona Notizia. E allora “cliccate e vi sarà aperto!”. Scherzi a parte, si parla spesso di missione digitale, ma in che modo è davvero possibile evangelizzare Internet? Molto dipenderà dall’impegno delle nostre comunità nell’acquisire l’alfabetizzazione necessaria a capire la filosofia digitale. Sebbene rispetto agli anni Novanta siano stati compiuti progressi significativi, la strada è ancora molto lunga e impegnativa.
Si stenta infatti ancora oggi a capire che Internet non è di per sé un’agenzia di stampa né un’enorme bacheca planetaria, né tanto meno una biblioteca informatica. Pretendere di ridurre la rete a queste schematizzazioni non solo è riduttivo, ma rischia di pregiudicare un grande spazio di libera espressione utile ad abbattere il muro d’ignoranza e d’indifferenza rispetto ai valori del Regno, fraternità universale in primis.

2. GLOBALIZZAZIONE E CAMPO ECONOMICO
Ma la globalizzazione, nell’immaginario collettivo, è prevalentemente riferita al campo economico. Si tratta di un processo di integrazione economica mondiale il quale comporta, oltre all’eliminazione di barriere di natura giuridica, economica e culturale, la circolazione di persone, cose e beni economici in generale. Da una parte la globalizzazione ha determinato l’ampliamento su scala internazionale delle opportunità economiche (opportunità d’investimento, di produzione, di consumo, di risparmio, di lavoro, etc.), in particolare in relazione alle condizioni di prezzo o di costo (arbitraggio); dall’altra ha acuito l’inasprimento della concorrenza nei settori interessati dai fenomeni suddetti, in particolare tendenza al livellamento di prezzi e costi alle condizioni più convenienti su scala internazionale.
Sta di fatto che il rafforzamento della interdipendenza tra operatori, unità produttive e sistemi economici in località e Paesi geograficamente distanti, ha fatto sì che eventi economici in un determinato luogo avessero poi ripercussioni, spesso inattese o indesiderate, in altri. Le recenti vicende sindacali, legate alla recessione in Europa hanno acceso il dibattito su questo tema. È innegabile che oggi vengano imposti pesanti sacrifici ai lavoratori, un po’ a tutte le latitudini. Si dice solitamente che per essere competitivi sul mercato, si debba emulare a tutti i costi il “modello cinese” che, com’è noto, ha sbaragliato gli Stati Uniti.
Ma se l’Impero del Drago ha un prodotto interno lordo (Pil) che cresce a dismisura è perché la manodopera da quelle parti costa quattro soldi. Basterebbe chiederlo a tanti nostri imprenditori del manifatturiero che hanno deciso d’investire in Cina a prezzi davvero stracciati. Oggi, insomma, non esistono più regole certe che affermino il primato della politica sul “business” e, nel vuoto legislativo lasciato dai soggetti nazionali, si insediano attori privati che divengono padroni assoluti, sostituendosi ai governanti.
Dobbiamo forse, come cristiani, rassegnarci alla supremazia del mercato, dove la produzione a tutti i costi cancella ogni valore, generando peraltro, come ha scritto un grande intellettuale italiano Stefano Rodotà, “una sorta di invincibile diritto naturale”? Vi sono altre strade da percorrere? Sarà possibile che il sacrosanto diritto al lavoro, sancito dalle grandi democrazie, debba essere silenziato dai fautori del liberismo più sfrenato, che pretendono di muoversi impunemente, senza freni inibitori, con la convinzione che è possibile fare incetta di braccia a qualsiasi prezzo in giro per il mondo? La posta in gioco è alta perché, come raccontano i nostri missionari, vi è un bisogno crescente di giustizia in ogni angolo della Terra.
Il timore nasce anche dal pericoloso sommarsi, su scala planetaria, dei costi eccessivamente elevati delle derrate agricole, con effetti devastanti sui ceti meno abbienti. A questo proposito la “rivolta del pane” che ha interessato nel 2011 il Nord Africa, la dice lunga. Si tratta di una crisi economica generale e persistente, che priva milioni di persone, particolarmente i giovani, del proprio posto di lavoro.
A ciò si aggiunga il fatto che ogni variazione benché minima di prezzi e tariffe, dal costo del carburante ai servizi della telefonia cellulare, intacca inesorabilmente i redditi, ormai ridotti all’osso, della povera gente. Nel frattempo, molti governi sono costretti a “raschiare il barile” per far fronte alla spesa pubblica, falcidiati come sono dalla crisi finanziaria globale e dall’incertezza di un “sistema” che fa acqua da tutte le parti.
Qualcuno, anche da noi qui in Italia, vorrebbe che l’economia nel suo complesso fosse sempre e comunque un cane sciolto, ma questi sono i risultati! Sia chiaro, dei problemi globali che assillano il nostro povero mondo e del cambiamento d’epoca che essi rivelano, non ci si può liberare dando del “contestatore” a chiunque provi a denunciarli. Coloro che la pensano in maniera così reazionaria, hanno già deciso di gettare la spugna, di consegnarsi prigionieri a una lettura del fenomeno “globalizzazione” che non sa prescindere da categorie diverse da quelle imposte da certi sacerdoti del “dio denaro”.
Occorre, dunque, come credenti, saper leggere e interpretare i fenomeni sociali determinati dalla globalizzazione “con intelligenza e amore della verità – proprio come si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa – senza preoccupazioni dettate da interessi di gruppo o personali” per un agire corretto delle politiche economiche12. Dato che un governo planetario non appartiene, almeno per ora, alle ipotesi realistiche, e comunque non può essere concepito come la proiezione su scala mondiale delle sovranità di questo o quel Paese, sarebbe auspicabile che il consesso delle nazioni si dotasse di strumenti in grado di umanizzare la globalizzazione.
Proviamo ad immaginare come sarebbe l’Organizzazione del Commercio Mondiale (Wto) se fosse dotata di una struttura tripartita con i rappresentanti dei governi, degli imprenditori e dei lavoratori, in grado di determinare congiuntamente le politiche e i programmi dell’organizzazione stesse. Proprio perché si sta giocando una partita difficile, è indispensabile garantire l’esistenza di una molteplicità di soggetti dotati di diritti, attraverso regole condivise che possano ridistribuire il potere nel villaggio globale tra chi lo esercita e chi può controllarlo. Se il profitto è l’unica bussola, rischiamo davvero grosso. Ecco perché la globalizzazione è davvero una realtà bisognosa di redenzione per il bene comune dei popoli.Cantico febbraio 2015 alb 5
Purtroppo, questa lettura della globalizzazione, che ho tentato di raccontare in maniera succinta, ma spero sufficientemente chiara, non è condivisa da tutti. Vi sono non pochi cattolici, in Italia e nel mondo più in generale, che non hanno ancora compreso che questa materia non può prescindere da un giudizio evangelico. In alcune coscienze si manifesta una sorta di dissociazione tra lo spirito cristiano e le questioni del mondo. Se da una parte va riconosciuto il primato della Parola di Dio, dall’altra credo sia altamente peccaminoso fare orecchie da mercante, sentendosi spiritualmente a posto, quando in altre aree geografiche del nostro pianeta si consumano drammi indicibili come l’annosa crisi somala o la mattanza siriana.
Ecco perché, anche nell’ambito delle comunità cristiane, è quanto mai urgente ricercare e rendere attuative delle strategie che consentano di prendere in mano le redini della situazione.
A tal proposito, è bene rammentare come anche nella costituzione pastorale Gaudium et spes non si guardi più alla Chiesa come societas iuridicae perfecta, chiusa nella solidità e coerenza del proprio ordinamento giuridico, ma come realtà protesa come mai verso il mondo, un mondo spesso lontano e segnato dalla secolarizzazione. Questo approccio viene definito dalla Dottrina Sociale della Chiesa con la parola “sussidiarietà”, principio che, sebbene richiamato anche dal diritto canonico, non ha mai trovato in esso piena attuazione, disattendendo, in parte, il dettato conciliare.
Tale spirito consente ai cristiani, in quanto cittadini, di diventare parte attiva nella soluzione dei problemi d’interesse generale. Soprattutto in Italia, siamo abituati a pensare che qualcun altro si occuperà dei problemi della collettività e sono 150 anni e anche più che il “sistema- Paese” funziona in questo modo. In effetti, l’anima della democrazia rappresentativa è la delega, mentre il cuore della sussidiarietà è la responsabilità.
L’Italia, ad esempio, è nata come Stato fortemente accentrato, calando una coltre amministrativa e istituzionale sulla ricca varietà di autonomie preesistenti nel nostro Paese. L’articolo 5 della Costituzione afferma che la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali. Da lì è partito 64 anni fa, tutto un processo che ha portato l’Italia ad essere quella che è oggi, con un fortissimo pluralismo delle autonomie locali. Dal 2001 nella nostra Costituzione c’è una norma, l’articolo 118 quarto comma, che ha dato inizio ad una medesima operazione di ribaltamento dell’impostazione secondo la quale il monopolio dell’interesse pubblico era nelle mani delle istituzioni, andando ad operare però nei confronti della cittadinanza. In questa norma si dice che Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono le autonome iniziative dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Il fatto che dei privati cittadini si prendano cura dei beni comuni non è una novità. La vera novità è nell’autonoma iniziativa: se c’è autonomia c’è responsabilità. Un ragionamento, questo, che va esteso, nel contesto della globalizzazione, alla “res publica” dei popoli.
L’attivarsi di singoli cittadini fa sì che vi possano essere delle situazioni in cui l’interesse personale è assai rilevante, come per i commercianti che si prendono cura della strada su cui si affacciano i propri esercizi commerciali, con vantaggi per tutti e in primo luogo per se stessi. In altri casi, invece, l’interesse personale è minimo e prevale quello generale, come nelle esperienze di volontariato nell’ambito della cooperazione internazionale per lo sviluppo dei popoli, o aderendo in prima persona ad iniziative in difesa dei diritti umani nel Sud del mondo. Anche questa è una missione che i credenti non possono permettersi di sottovalutare13.
(Continua)

Giulio Albanese
Missionario e giornalista, direttore Riviste
Missionarie delle PP.OO.MM.

1 Cfr., http://www.gliscritti.it/approf/2009/papers/fisichella150109.htm
2 Mt 16,4; Lc 12,54-56.
3 Giovanni XXIII, Humanae Salutis, Documento di indizione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 25 dicembre 1961; AAS 54 (1962), pp. 5-13.
4 GS 4: EV1/1324.
5 GS 11: EV1/1352.
6 GS 44: EV1/1461.
7 LG 8: EV 1/304-307.
8 GS 44: EV 1/1460-ss.
9 Cfr. GS 15; 44.
10 Cfr. Sergio Pillon, Internet e la Missione, http://www.pillon.org/popoli/ Internetelamissione.pdf
11 “surmodernità” è un termine creato dall’antropologo francese Marc Augé nello sviluppo della teoria dei non luoghi. Con il termine surmodernità, calco dal francese surmodernité, si intende fare riferimento ai fenomeni sociali, intellettuali ed economici connessi allo sviluppo delle società complesse alla fine del ventesimo secolo, con riferimento in particolare al superamento della fase postindustriale e alla sempre più invasiva diffusione della globalizzazione nella vita degli individui. La condizione di surmodernità rappresenta il verso della medaglia il cui rovescio è stato costituito dalla postmodernità ed è definita dallo stesso Augé attraverso la figura dell’eccesso, nelle sue declinazioni di eccesso: di tempo, di spazio, dell’individuo o dell’ego.
L’eccesso di tempo si risolve in una difficoltà di pensare il tempo a causa della sovrabbondanza di avvenimenti del mondo contemporaneo. Quello di spazio è anch’essa una trasformazione accelerata del mondo contemporaneo, che porta, da un lato al restringimento del pianeta rispetto alla conquista dello spazio, dall’altro, alla sua apertura grazie allo sviluppo dei mezzi di trasporto rapido. In questa dimensione nascono e si moltiplicano i non luoghi. L’eccesso di ego infine, si manifesta nel momento in cui, come avviene nelle società occidentali, l’individuo si considera un mondo a sé: si ha cioè un’individualizzazione dei riferimenti poiché l’individuo si propone di interpretare da sé stesso per se stesso le informazioni che gli vengono date.
12 Cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, § 320.
13 Cfr., Gregorio Arena, Cittadini attivi, Laterza 2006.