Proposte francescane per la edificazione della res publica
2ª parte relazione del Dott. Paolo Evangelisti*
Scuola di Pace 2/5 gennaio 2012

bene-comuneLa seconda parte della interessante relazione del Dott. Evangelisti alla Scuola di Pace ha focalizzato l’attenzione su due punti che riprendiamo dalle stesse parole del relatore: “Il primo punto vuole mostrare come questa concezione del bene comune, messa in forma dalla testualità francescana del Duecento, riemerga con forza nelle opere dell’Osservanza francescana del XV secolo che qui vorrei esemplificare ricorrendo a qualche testo di Giacomo della Marca, allievo di Bernardino da Siena. Il secondo e conclusivo punto riguarda un’analisi del pensiero francescano che ha saputo inglobare nel concetto di bene comune la moneta ed il suo statuto giuridico. Un punto di grande rilevanza contemporanea se si pensa a che cosa dovrebbe rappresentare oggi la moneta e invece a che cosa è costretta ad essere in chiave meramente speculativa sui mercati finanziari mondiali”.

1. BENE COMUNE E OSSERVANZA FRANCESCANA
Partiamo da quella che possiamo senz’altro definire la concezione politica repubblicana nei testi di Giacomo della Marca. Vale a dire nelle riflessioni prodotte in particolare nei sermoni del santo francescano nella seconda metà del ‘400. Formidabili testi di etica civile e di pedagogia politica che qui analizzeremo solo nei passaggi nei quali si definisce la res publica ovvero, letteralmente, ciò che è comune, ciò che appartiene alla comunità ed è res, cosa, oggetto comune, quindi oggetto di diritto e soggetto di diritto solo in quanto condiviso e, nel pensiero francescano, circolante.
Giacomo, nei suoi Sermones dominicales e nel Quadragesimale, pone alcuni principi cardine volti a definire la funzione del governante e la qualificazione della res publica, della comunità politica. Per l’Osservante chi governa ed ha il potere deve svolgere la sua azione secondo un principio esclusivamente ministeriale del suo esercizio: egli deve agire unicamente per la “conservatio” e la “utilitas rei publicae”, secondo un principio francescano ed evangelico richiamato da Giacomo stesso “nolite thesauriçare in terra” (Mt. 6,19). Questa azione ministeriale di governo deve svolgersi nel rispetto assoluto della giustizia e del bene comune che è res publica.
Con un forte recupero di testi ciceroniani e di Agostino (De civitate Dei), che egli però elabora e potenzia, Giacomo dirà che non il regno dei cieli ma la res publica terrena può esistere, ed è possibile, solo se vi è una giustizia assoluta. “Sine summa iustitia respublica regi non potest”. Senza una giustizia piena una res publica non può sussistere ed essere governata. E quali sono i sei fondamenti per garantire un senso ed un valido governo di questa res publica?

  • Concordia civium
  • Iustitia generalis
  • Amor rei publicae
  • Rector sapiens et virtuosus
  • Esaminare oppositas
  • Reddere rationem de administratione

Un autentico programma etico, costituzionale, in cui il potere è concepito nella sua funzione esclusivamente ministeriale e repubblicana. Consideriamo sinteticamente questi sei principi cardine:

  • Concordia civium: operare in una dimensione condivisa, motivante per ciascuno;
  • Iustitia generalis: vale a dire necessità di un’applicazione assoluta della giustizia e dunque della legge come valore insuperabile;
  • Amor rei publicae: significa capire che una repubblica per essere tale deve essere pensata, proposta, divenire oggetto di un discorso condiviso ed amata come frutto di questo percorso che si rinnova giorno dopo giorno;
  • Rector sapiens et virtuosus: attenzione alle qualità ed alle competenze del governante, rispettoso di tutti questi principi cardine;
  • Esaminare oppositas: capacità di analisi dei fenomeni, delle posizioni che esistono nella società e nella comunità, quindi reiezione di un governo assoluto o di parte, intesa come fazione;
  • Reddere rationem de administratione: fondamentale concetto della trasparenza, del rendere conto pubblicamente dell’operato economico, di ciò che si è gestito essendo bonum commune, secondo un criterio di responsabilità e trasparenza che non è retorico ma razionale nel solco di una relazione autentica che collega amministratori ed amministrati.

bene-comune-2Nel suo insieme questo programma è la traduzione politica e razionale dell’idea di servizio che deve connotare chi è chiamato a governare. Ma vorrei tornare al rapporto stretto che lega iustitia e res publica nel pensiero di Giacomo. Per lui la giustizia è “anima rei publicae”, è questa giustizia a farsi quindi motore e linfa vitale della comunità politica e del suo governo, criterio dirimente per qualificare ciò che è comune, repubblicano appunto. Chi è chiamato a governarla, se non vuole essere definito tiranno – quindi un illegittimo governante condannato a perdere il potere – deve abbandonare ogni forma di gestione privatistica del patrimonio e delle risorse della res publica, operando solo affinché tutti i vantaggi siano realizzati e distribuiti per il bene della repubblica e dei cittadini: “omnem utilitatem referat ad bonum rei publicae et civium”. Ricordate ciò che aveva detto Olivi 200 anni prima? Il bene comune è tale solo se ingloba e considera il bene del singolo civis.

Qui Giacomo dice che il bene che deve essere perseguito e accresciuto è il bene ed il profitto, l’utilitas della res publica e il bene del civis. Accanto al bonum rei publicae vi è, equiordinato, il bonum civium. In questo si realizza la res publica e la giustizia della res publica. Si ricordi che Giacomo aveva detto che senza una giustizia assoluta, cioè piena, alta, non si può governare e non può esistere una res publica. Si tratta di una concezione ciceroniana che egli recupera e potenzia mostrando nei suoi sermoni non solo la necessità etica di conseguirla, ma offrendo strumenti, motivazioni e passione civile per realizzarla. Giacomo e Cicerone affermano infatti che “non solo è falso che una res publica possa reggersi senza una qualche giustizia ma è verissimo che non può reggersi senza una giustizia piena anzi” – continua – “una res publica senza giustizia, senza questa pienezza di giustizia, non è imperfetta ma, come si deduce razionalmente dalle definizioni che si sono date, non esiste nemmeno più”.

Credo che non occorra sottolineare la forza di questo passaggio, il suo valore politico e direi costituzionale che Giacomo – via Cicerone – conferisce alla giustizia nella res publica ed alla giustizia – anche come forma di legalità – nell’esercizio del governo e dell’amministrazione del bene comune. La res publica e la giustizia non possono che esistere insieme, che co-esistere e, d’altronde, è lui stesso a definire la giustizia come l’anima della Repubblica. Molte, davvero moltissime, le considerazioni e gli insegnamenti che potremo ancora sviluppare da questi passi francescani dell’allievo di Bernardino da Siena. Ma va affrontato l’ultimo tema sul quale mi preme sollecitare la vostra attenzione: un tema centrale dell’etica politica che è anche di straordinaria attualità se vogliamo, come credo, andare oltre la cronaca spicciola che si limita ad inseguire le altalene dello spread.

2. LA CONCEZIONE DELLA MONETA, FATTORE COSTITUTIVO DELLA RES PUBLICA
Mi riferisco alla concezione della moneta che i francescani seppero elaborare sin dagli inizi del XIV secolo. Un’idea di moneta che si inserisce pienamente nella nozione di bene comune che i pauperes Christi delinearono come orizzonte fondativo non solo per le comunità religiose che seguivano l’idea di Francesco, ma per tutte le comunità di laici che vivevano nell’Europa dell’epoca. Forse oggi è difficile dedicare qualche minuto per pensare a che cosa sia la moneta, ma proprio nel momento in cui la sua volatilità e la sensazione di effimero che porta con sé sono più forti, è indispensabile fermarsi per capire il senso di ciò che accade. Capire, in compagnia di chi ha riflettuto sul bene comune e sul valore della moneta, per non essere inconsapevoli della quotidianità, soggetti passivi di grafici e speculazioni spesso del tutto estranee non solo alle regole dell’etica, ma anche a quelle dell’economia produttiva.

Ancora una volta sono coloro che hanno scelto la paupertas volontaria a dimostrarsi sensibili e capaci di riflettere seriamente e politicamente sulla moneta come bene. Direi capaci di reggere il confronto con il pensiero economico delle teorie sviluppate da Smith ed oltre, sino ai nostri giorni, di reggere il confronto con l’utilitarismo di Bentham, con il neoliberismo della scuola di Chicago e con chi ragiona utilmente di economia come il premio Nobel Amartya Sen o la studiosa americana Elinor Ostrom che ha ricevuto il Nobel proprio per le sue riflessioni sui beni comuni e la loro gestione. Sono i francescani a rivendicare il valore comunitario della moneta, a ricordarci che essa è nata come strumento indispensabile delle società civili e che la moneta ha un senso solo se è un bene della res publica. Per i francescani la moneta è molto di più che il denaro, moneta monetata, merce tra le merci ma, come diceva già Aristotele, essa è numisma, cioè oggetto istituito, sorto dalla comunità e dalla legge, e per questo che essa si chiama nummus in latino derivando dal greco nomisma, perché la sua origine è il nomos, la legge, la deliberazione collettiva.

bene-comune-3È la sua stessa origine a dirci dunque che essa dipende nella sua funzione e nel suo valore dalla civitas, dalla polis, dalla comunità che l’ha istituita. E chi altera il valore della moneta è punibile perché intacca un valore che non è nella disponibilità limitata di un privato o di un gruppo di persone ma è un valore della res publica. A dircelo in modo esplicito sono, tra i primi, due francescani che diverranno anche Generali dell’Ordine nel XIV secolo Geraldo Oddone e Alessandro di Alessandria. E, nello stesso secolo, Eiximenis, frate catalano, svilupperà un discorso molto approfondito sul senso e sul valore della moneta per la res publica. Nel XV secolo poi, Angelo da Chivasso, insigne giurista e Osservante francescano, dirà che non è possibile procedere a variazioni nel valore della moneta se non attraverso un percorso pubblico, deliberativo e che raccolga il voto di ogni civis. Questo l’orizzonte temporale e concettuale offertoci dal francescanesimo medievale. Da un punto di vista economico questa testualità ha molto da insegnare a chi oggi gestisce la moneta, ma qui possiamo solo mettere in luce un singolo aspetto non certo secondario del pensiero francescano: quello che dice ai cives, ai mercatores, ai governanti, che il valore della moneta è un valore che ha un senso come forma e strumento di comunicazione civile, come forma indispensabile per costruire e rafforzare comunità.

Per questo il valore della moneta deve essere oggetto di analisi e di decisione politica nel rispetto di tutti coloro che la usano. Neppure il re o il princeps che autentica la moneta può essere considerato proprietario della divisa o decidere di alterarne il valore. Francesc Eiximenis dirà che il princeps che altera il valore della moneta è lui stesso reo del crimine di lesa maestà, reo cioè di una laesio enormis che è la fattispecie giuridica che determina la condanna alla pena capitale secondo quanto stabilito dal diritto romano. Questa durissima posizione politica, giuridica ed etica è formulata da Eiximenis in modo lineare proprio perché egli sostiene che la sovranità della moneta è sovraordinata e sovrasta quella del princeps che la conia. Ma, si badi bene, questa sovranità non è una sovranità dell’oggetto-moneta, di un totem che non possiede né senso né direzione, ma risiede in definitiva nella comunità di tutti gli utilizzatori della divisa che, servendosene per gli scambi nella res publica, ne fanno un bene comune. Un bene dotato di valore economico e politico. Si noti che questo argomento è sviluppato dal frate catalano in un testo scritto su commissione e destinato ai regnanti.

Un testo che ha dunque per interlocutori dei re, i massimi reggitori della confederazione catalano-aragonese, ovvero coloro che dirigevano una delle più grandi potenze economiche del Mediterraneo trecentesco. Tutto questo ci rivela la forza e la passione civile, la tensione etica di questo frate e ci fa riflettere sul fatto che la moneta non può essere considerata nella sua mera fisicità, ma che essa è un oggetto pensato che non ha un valore in sé ma lo ha solo se è capace di esprimere un’identità economica e politica, comunitaria, in quanto frutto di scambi economici e di scambi dotati di senso. I più grandi pensatori repubblicani del Medioevo, i francescani e lo stesso Aristotele hanno sempre considerato la moneta come un fattore costitutivo della comunità, della res publica. La moneta come il linguaggio sono due fattori indispensabili per costituire e per comunicare nella comunità. La moneta è comunicazione e commutazione. Così dice Aristotele e nella Politica e nell’Etica Nicomachea, ed è da questa lezione che i francescani partono per affermare, sin dal XIII secolo con Roberto Grossatesta, francescano e primo traduttore in latino dell’Etica aristotelica, che occorre fare della moneta non un bene del princeps, ma un bene della comunità, assegnando per questo ai mercatores un ruolo fondamentale, all’interno però di un’etica repubblicana che essi stessi sono chiamati a costruire e condividere.

* (Cultore della materia in storia medioevale presso l’Università di Trieste) La terza ed ultima parte della relazione sarà pubblicata nel Cantico di maggio.