Proposte francescane per la edificazione della res publica
Iª parte relazione del dott. Paolo Evangelisti
Scuola di Pace 2/5 gennaio 2012

PREMESSA

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Dott. Paolo Evagelisti | ilcantico.fratejacopa.net

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Quando ho proposto questo titolo in realtà ne avevo pensato uno un po’ più diretto per questo nostro incontro: Che cos’è la res publica? L’analisi francescana del bene comune. Un titolo che voleva porre in chiaro sin dall’inizio la competenza del francescanesimo a ragionare di res publica e di etica per la res publica. D’altronde di questa capacità francescana si era accorto anche il buon Shakespeare che, nel primo atto di Misura per misura, ci racconta di uno stratagemma apparentemente stravagante di un re il quale, per poter meglio conoscere il suo popolo e la bontà delle azioni di chi egli aveva delegato a governare, si reca in un monastero. Lì chiede ad un religioso di farlo vestire con il saio e di imparare a comportarsi come un perfetto frate. Ciò gli permetterà di muoversi con discrezione nei territori del suo regno per poter osservare il popolo ed analizzare l’efficacia del governo esercitato su di esso.

Per questo scopo il re non sceglie né un abito – vale a dire un modo di vestire e di essere secondo l’etimo latino – da contadino, né quello di un prete o di un soldato, ma proprio l’habitus di un frate (Atto I, scena III). Forse Shakespeare non era un analista politico, ma certamente conosceva assai bene le dinamiche del potere e delle istituzioni del suo tempo. E credo che in questa chiave possa essere letta l’invenzione di questo stratagemma regale. Questo per dirvi, anche con Shakespeare, che la testualità francescana è un giacimento ancora poco valorizzato, un giacimento ideale, linguistico, concettuale per definire un’etica della politica ed un’etica civile. Questa consapevolezza credo possa essere conquistata innanzitutto da chi, come voi, pratica i valori proposti dalla vita e negli scritti del Fondatore.

PAUPERTAS VOLONTARIA: LA RIFLESSIONE SUL MODUS HABENDI
È la paupertas volontaria (Cf. “Non possiedo né oro né argento. Ripensare il potere alla luce della povertà Francescana” in il Cantico online gennaio 2012) che permette di avvicinarsi meglio al concetto complementare, al binomio res publica e bene comune. Non riprendo qui i testi che abbiamo analizzato in quella sede, proprio a partire dagli stessi scritti di Francesco. Qui richiamo invece un testo fondamentale, forgiato nella temperie dello scontro che oppose, negli anni ’60/’70 del XIII secolo, il francescanesimo a coloro che sostenevano che la perfectio evangelica non fosse conseguibile attraverso la paupertas volontaria. In quel contesto di confronto aspro vennero spinte al massimo le riflessioni sullo statuto e sull’identità pauperista del francescanesimo ad opera dei maggiori esponenti dell’Ordine: Bonaventura, Peckham, Olivi. Uno di questi testi, che è un testo di altissimo valore anche mistico, è il Canticum pauperis pro dilecto di Giovanni Peckham. Dunque – dice in quest’opera il frate inglese – “chi ha rinunciato per Cristo agli averi cammina in una via stretta e difficile ma anche più lontana dai pericoli del mondo” ed è più vicino alla perfezione evangelica. “Non cosi si può dire di chi mantiene le proprietà per sé stesso. Può essere vicino a Cristo sul fatto, sulla circostanza degli averi perché anche Gesù acconsentì che un apostolo tenesse la borsa dei denari per tutti, ma non è così vicino a Cristo, ovvero povero come lui, nel modus habendi e, per questo, non potrà gloriarsi della eminente dignità della perfezione” (G. Peckham, Canticum pauperis…, Quaracchi 1905, pp. 146-147).

In questo testo è chiaro innanzitutto che qui non si parla della povertà subita, ma della povertà scelta consapevolmente, come condizione assunta e capace di generare una serie di conseguenze dotate di senso e di grande rilievo sul piano sociale, religioso ma anche politico. Riflettendo sul modus habendi con cui visse Cristo si riflette infatti sul modo con il quale si usa, senza possedere, un bene terreno. Da questa riflessione emergono due assunti principali. Il primo: la rinuncia ai beni non è una rinuncia cieca, uno spossessamento che porta al mero abbandono dei beni, ma i beni che allontaniamo da noi in termini proprietari derivano da una motivazione ed hanno una destinazione forte sono pro Christo. Secondo assunto della riflessione proposta da Peckham: la paupertas intesa come cammino di perfectio si distingue dalla mera adesione al cristianesimo per il fatto che attraverso di essa si è capaci di comprendere meglio la dottrina evangelica, attraverso la scelta di povertà che si definisce precisamente nel modus habendi. Vale a dire in un modus, in un metodo gestionale e non proprietario nell’uso delle ricchezze e delle risorse le quali non devono appunto essere considerate proprie, patrimonio privato, ma sono pienamente utilizzabili e valorizzabili se le si usa gestendole, facendole circolare, guardando al loro fine, non al loro valore di ricchezza immobile. Qui ricordo solo che cosa fu capace di dire e di dirci Francesco nel Cantico delle Creature e in quel passo del suo Commento al Padre Nostro che analizzammo ad Assisi l’11 novembre.

PRO CHRISTO
scula-pace-2012Ma se la rinuncia ai beni si realizza compiutamente solo se avviene pro Christo qual è il significato ed il fine di questa devoluzione deliberata, che non è abbandono e fuga dal mondo? Ci aiuta a capire questo snodo essenziale il Commento al Vangelo di Luca scritto da Bonaventura il quale riflette su un momento cruciale dell’escatologia cristiana, ovvero sulla morte di Cristo, chiedendosi quale fu la “principalis ratio” che mosse coloro che vollero uccidere il Salvatore. Bonaventura dice che Cristo trovò la morte perché i suoi uccisori vedevano in lui l’uomo che disse loro la verità ed essi vollero evitare questa denuncia dei loro comportamenti, dei loro vizi. Essi preferirono dunque perdere Cristo piuttosto che perdere il loro onore messo in discussione dalla predicazione di Cristo. E questa è la ratio, prosegue Bonaventura, che motiva tutti coloro che amando il proprio bene privato congiurano e congiurarono contro Cristo. E qui il futuro cardinale francescano cita esplicitamente un campione della riflessione monastica, un grande mistico che costituì una delle matrici più forti del pensiero francescano che si misurò con la cristomimesi: Bernardo di Chiaravalle. “O Gesù, o buon Gesù, tutto il mondo” – è la stessa espressione che ha appena utilizzato Bonaventura per definire coloro che vollero uccidere Cristo – “totus mundus contra te conjurasse e coloro che primeggiarono nella tua persecuzione furono coloro che governavano il popolo e amavano il potere” (Bonaventura, Expositio in evangelium sancti Lucae, XI, in Opera omnia XI, Parigi 1897, p. 129).

Così si chiude la riflessione bonaventuriana condotta con l’aiuto di Bernardo. Ma a questo schema negativo, di condanna di coloro che furono e sono contra Christum, Bonaventura già implicitamente offre la declinazione positiva di questa lettura: se chi è contra Christum ama il bene privato ed il potere, si deduce chi siano coloro che sono pro Christo. Sono coloro che amano il bene comune e non amano il potere fine a sé stesso. Tuttavia Bonaventura non si ferma qui, a questa proposta implicita. Leggiamo che cosa scrive in uno dei testi più importanti per la formazione dell’identità e dell’autocoscienza francescana: l’Apologia Pauperum: “La comunità che si fonda e si organizza sul diritto della charitas fraterna è il nostro punto di riferimento, quella che “fu di tutti i giusti”, quella che “seppe trovare il modo di trasformare i beni appartenenti ai singoli in beni messi in comune, appartenenti a tutti secondo Corinzi III, 22” (Bonaventura, Apologia pauperum, in Opera omnia XVI, Parigi 1868, pp. 497-499). Da questa matrice apostolica Bonaventura fa derivare – e con lui l’intera testualità francescana del Due – Cinquecento – un criterio di analisi sociale e politica delle comunità ecclesiali, religiose e civili. Se quello infatti è il modello di riferimento, ogni francescano è chiamato ad un dovere di analisi e di impegno che rapporti e confronti le realtà in cui si trova a vivere a quel modello apostolico. È chiaro che con questo passaggio si attribuisce e si dota ogni pauper volontario che agisce e vice pro Christo di una competenza e di una dignità propria nell’analisi politica del mondo, una dignità ed un compito di altissima forza. Ma, nel merito, questo criterio, questo paradigma caritativo ed apostolico non serve solo a definire e misurare l’adeguatezza di un organismo sociale e civile alla perfectio evangelica, serve a stabilire in che modo anche il non perfetto, il laico che intende in ogni caso guardare a Cristo ed alla sua qualità di Salvatore, può approssimarsi ad una cristomimesi.

Infatti in questo stesso testo Bonaventura procede ad un’analisi delle comunità “che scaturiscono dal diritto civile mondano”, quelle comunità che formano e costituiscono in quanto tali forme di res publicae: un impero, un regno, una civitas, una compagnia mercantile, un esercito. In tutte queste forme di messa in comune sia del vantaggio sia del danno – dice Bonaventura – ciò che può intaccare e rendere inidonea la res publica è l’esistenza di una proprietà anche privata che occasionalmente può creare difficoltà al conseguimento del bene comune e rendere inclini al male, vale a dire inclini a produrre svantaggi comunitari. In questa forma la res publica non consegue la perfectio evangelica e va rigettata. Qui si legge chiaramente quel pieno diritto del frate – asserito senza dubbi di sorta da parte di Bonaventura – a proporsi come un analista politico competente, in grado di stabilire un’etica di riferimento con la quale validare la res publica ed il bonum commune, di individuare nello specifico quali siano i rischi di un’etica che riguarda il publicum: se nell’esercizio del governo di una qualsiasi res publica si fanno entrare le proprietà private questo esercizio risulta non conforme alla sua finalità, e non conforme alla povertà evangelica. Se nell’amministrare una compagnia mercantile si tiene presente la dimensione individuale di proprietà, quell’amministrazione è viziata e anch’essa non è conforme all’evangelica povertà. L’analisi, come si vede, è penetrante e sottile: non condanna la proprietà, ma l’uso errato della proprietà privata nell’amministrare ciò che, a qualsiasi titolo, costituisce res publica, bonum commune. L’elenco redatto da Bonaventura nel testo che si intitola Apologia dei Poveri è allo stesso tempo chiaro ed esplicitamente politico. L’impero, il regno, la civitas, qualsiasi forma di organizzazione politica comunitaria, la societas mercatorum, la compagnia militare. Di questo ragiona Bonaventura, è questo l’ampio spettro della sua analisi che, in quanto oggetto di pertinenza comunitaria, pubblica, è sottoponibile alla competenza ed al vaglio del pauper Christi. Ed egli è chiamato, in virtù del suo statuto di povero conforme a Cristo, precisamente nel modus habendi che ha assunto, a contribuire a migliorare il governo, l’amministrazione di ciò che, in qualsiasi forma è comune, è repubblicano.

IL CONCETTO DI BENE COMUNE
scuola-pace-2012-3Pochi anni dopo Olivi, rivendicando il ruolo dell’altissima paupertas e la sua rigorosa applicazione, in ossequio alla Regola di Francesco ed al suo Testamento, torna a riflettere su questi temi con grande lucidità e determinazione, e lo fa in tre testi apparentemente assai distanti tra loro per tipologia “esteriore”, se volessimo utilizzare un criterio univocamente positivista di classificazione: il De Votis, la Lectura super actus apostolorum e il De contractibus. Testi che oggi, in maniera un po’ scolastica definiremmo rispettivamente come un testo di spiritualità francescana, un testo di esegesi biblica ed uno di etica economica. E dunque saremmo indotti a scartare almeno i primi due dal discorso che veniamo svolgendo. Ma l’unicità intellettuale e l’analisi che converge su un medesimo concetto filosofico e politico ci obbligano a non adottare alcuna esclusione. In tutti e tre i testi infatti si ragiona di bene comune, si ragiona su quale sia il criterio più idoneo per utilizzare ciò che non ci appartiene privatamente e sul senso che ha l’uso dei beni. Nel De votis Olivi afferma che, quando si dice che “il bene comune è più importante e deve prevalere sul bene e l’interesse personale, ciò non può essere considerato valido così, in modo semplicistico, ma è valido solo quando il bene comune ingloba e valuta anche l’interesse privato” (P.G. Olivi, De Votis, ed. a c. di Bartoli, Grottaferrata 2002).

Qui Olivi coglie un fatto fondamentale, che costituirà un elemento decisivo delle dottrine politiche civili e repubblicane fino a Locke e oltre: il concetto di bene comune è valido se non diviene un concetto idolatrico, un principio assolutistico fine a sé stesso: esso deve rispondere e coinvolgere l’interesse di chi è parte della res publica, anche se questo non significa confondere il bene ed il fine comune e collettivo con quello personale. Si tratta di un concetto che, all’epoca, era tutt’altro che acquisito tra i teorizzatori del bene comune, ivi compresi moltissimi giuristi e lo stesso Tommaso d’Aquino. È evidente quale sia la forza politica di questa definizione di bene comune: proviamo ad enucleare solo alcuni punti salienti: a) la res publica è tale se riconosce tutti coloro che la compongono b) gli interessi di ciascuno debbono essere tenuti in conto nella definizione di ciò che costituisce il bene comune c) è solo attraverso questa forma di costituzione “democratica” della res publica, di questo percorso condiviso che il bene comune si erge a preminenza, può essere conseguito e divenire vincolante nell’azione e nella legge di quella comunità politica d) l’utilitas che ciascuno può individuare ed esprimere viene messa in sinergia con l’utilitas della res publica perché diviene utilità condivisa e moltiplicabile. Potremo definirla come una declinazione autonoma e francescana di utilitarismo repubblicano. Olivi non lo dice, ma è da questo pensiero politico che un grande magister francescano, Giovanni Duns Scoto noto come Doctor Subtilis, potrà affermare qualche anno dopo che la bontà di una forma politica e comunitaria non si misura in ragione della sua qualificazione aristotelica, ovvero essendo essa una monarchia, un’oligarchia o una democrazia, ma per la natura della sua legittimazione che non può che essere quella del consenso. La forma dell’istituzione così legittimata è un fatto irrilevante. Ciò che conta è il consenso di chi dà forza costitutiva alla res publica, sente di appartenere ad essa e diviene parte consapevole per la costruzione del bene che è in comune. Siamo agli inizi del XIV secolo quando in Europa solo due istituzioni di potere in tutto il continente provano a misurarsi con questo criterio di legittimazione: l’Inghilterra e la corona catalano-aragonese e, in altre forme, lo fanno pure i comuni dell’Italia centro-settentrionale.

Dunque, anche senza andare oltre nell’analisi, possiamo misurare da questi pochi cenni la profondità della concezione oliviana e francescana del bene comune che approda anche ad una riflessione sull’utilitas e sul consenso come chiavi necessarie della legittimazione del potere, della cogenza giuridica del bene comune, ovvero del fatto che solo attraverso questo percorso, questo bene ed il suo conseguimento possono divenire obbliganti per tutti. Ma Olivi non limita a questo la sua analisi sul bonum commune. Egli si interroga su quali siano i metodi migliori e più adeguati per utilizzare in modo non proprietario i beni e le risorse, partendo dal concetto che il miglior impiego dei beni e delle ricchezze sia quello comunitario. E qui egli distingue due modi: uno è quello dell’uso che si realizza e si esaurisce con il consumo della cosa stessa, come accade quando una persona usa del pane che mangia o dell’aria che assorbe respirando, l’altro si configura nella modalità distributiva dei beni. E qui entra in gioco il governo, l’auctoritas politica definiti dall’Olivi come un’auctoritas che è dotata di un mero potere dispensatorio cioè di gestione dei beni che vanno amministrati e fatti circolare. Questa è la concezione del governo e del potere che per Olivi ha un crisma etico ed evangelico, capace di inserirsi nel solco di quella modalità di gestione comunitaria ed apostolica definite nel Nuovo Testamento e richiamate anche da Bonaventura. È questo l’unico modo di essere e fare comunità. In questo quadro Olivi rammenta a tutti coloro che hanno il compito di distribuire ciò che l’autorità politica ha stabilito – quindi oggi si direbbe qualunque bene o servizio – di farlo ricordando che essi non solo non hanno un diritto proprietario su quei beni ma che non hanno neppure alcuna auctoritas su ciò che distribuiscono: devono quindi astenersi da ogni comportamento che possa intaccare sia la quantità che la modalità di ciò che l’autorità di gestione dei beni ha stabilito di distribuire o far circolare. Il testo si legge nella Lectura super actus apostolorum (P.G. Olivi, Lectura super actus apostolorum II in D. Flood, Peter John Olivi…, St. Bonavent). Si mette così a fuoco quale sia il vero valore dei beni comuni: quello della loro possibilità di circolare tra chi appartiene alla res publica. Si mette ancora a fuoco sia la funzione del governo sia quella del potere: entrambi sono soggetti che devono amministrare e non possedere ciò che non è né del potere né del governo, ma è comune. Si mette ancora a fuoco quale sia la funzione delle strutture della comunità politica, dello “Stato”: quella di rendere effettivo ciò che l’autorità politica ha stabilito, ponendosi solo come strumenti di questa azione politica ed economica. Il limite alla discrezionalità e non solo alla venalità nell’esercizio dell’amministrazione è per Olivi perentorio ed assoluto, direi apostolicamente e pauperisticamente invalicabile ed indiscutibile.

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CARITAS: CIVILITAS DEI RAPPORTI NELLA RES PUBLICA
Nel suo insieme, questa concezione politica e civile, ovvero di civilitas dei rapporti nella res publica, è ciò che Olivi, Bonaventura e tutta la testualità francescana tra ‘200 e ‘500 definiscono come caritas. Un concetto molto distante da ciò che oggi stereotipicamente si definisce con il sintagma “fare la carità”. Il valore è non solo più articolato, evangelicamente connotato, ma è assai più denso, alto, ed ha una chiara valenza etico-politica che non si limita al monito morale ma si fa codice prescrittivo, operativo, finalità di governo e chiave di validazione dell’esercizio del governo. D’altronde caritas non si comprende se non nel contesto di una concezione comunitaria in cui la res publica è proprio l’inveramento del bonum commune, in cui res publica è concretamente il prodotto dell’azione degli uomini che sono cives. E’ questo un aspetto assai rilevante del pensiero politico francescano che se è davvero capace di costruire un’etica economica, come ha ben dimostrato Giacomo Todeschini nei suoi numerosi studi, è altrettanto attrezzato per formulare una concezione politica autenticamente, direi umanamente, repubblicana. Questo portato francescano alla politica è un debito di conoscenza che dovrebbe essere onorato da parte di chi pratica o studia il francescanesimo medievale. Saldare questo debito, come si diceva nel dibattito seguito al mio intervento in Assisi del novembre scorso, potrebbe contribuire anche a far crescere la consapevolezza della forza del pensiero e della proposta francescana all’interno della Chiesa cattolica (si pensi al testo della Caritas in Veritate) e all’interno della cristianità nella sua dimensione più ampia: penso in particolare alle chiese ed alle importanti tradizioni riformate che si sono confrontate e continuano a misurarsi con l’etica della politica e dell’economia.

Dott. Paolo Evangelisti
(Cultore della materia in storia medioevale presso l’Università di Trieste)