Dalla relazione conclusiva al Convegno Cei per la Giornata del Creato
“Il futuro della nostra terra. Un’umanità nuova per una custodia responsabile”
Torino, 12-13 settembre 2014

morandini1. Vorrei aprire il mio intervento, che vorrebbe tentare un bilancio di questa due giorni torinese, con un interrogativo: in quale tempo ci collochiamo?
a. Vorrei prima di tutto qualificare questo tempo nel segno dell’urgenza di una crisi che non attende. Uscirà nelle prossime settimane la versione definitiva del V rapporto IPCC: le emissioni climalteranti stanno crescendo ben più in fretta di quanto prospettato dal protocollo di Kyoto ed il conseguente mutamento climatico è drammaticamente più veloce di quanto emergesse dal precedente IV rapporto; crescenti, quindi, si prospettano gli impatti sulla struttura ecosistemica del pianeta e soprattutto sulle comunità umane. Mi limito a citare le numerose bombe d’acqua viste in numerose aree del nostro paese entro un’estate così anomala ed a ricordarne le vittime, ma solo per sottolineare anche che purtroppo sono solo avvisaglie di quanto già avviene in forme ben più ampie in diverse aree del pianeta ed è destinato a far parte del nostro futuro.
b. Non è questo, infatti, un tempo che chieda di praticare forme di lettura apocalittica della crisi ambientale, ma di percepire in essa una sfida che va affrontata, e che ha molte dimensioni. Si pensi all’Expo, ed all’impegnativa prospettiva di “nutrire il pianeta” che esso ci pone dinanzi: anch’essa si rivela legata a filo doppio con l’esigenza di tutelare quella struttura ecosistemica che costituisce la condizione di possibilità di un vissuto umano capace di futuro. È un contesto nel quale sempre più ci scopriamo famiglia umana, collegati in una solidarietà di destino tra uomini e donne, ma anche con la rete della vita che ci supporta, su questo fragile e meraviglioso pianeta.
c. È invece un tempo profondamente segnato dalla figura di un pontefice che sceglie il proprio nome facendo riferimento ad un santo da lui stesso ricordato come custode del creato; un pontefice che pronuncia parole forti sui temi ambientali ed altre ne annuncia in tal senso. È un tempo in cui sempre più la salvaguardia del creato si pone come tema ecumenicamente impegnativo…

2. Ma allora, quale responsabilità, in questo nostro tempo, per una teologia chiamata certo in primo luogo a dire Dio, ma anche a nominare il mondo, quale è possibile coglierlo in lumine Dei? E quale responsabilità per una chiesa chiamata a disegnare nella luce del Vangelo forme di vita buone e sostenibili per l’umano (secondo la prospettiva del Convegno Ecclesiale di Firenze 2015)? Quali pensieri e quali pratiche possono esprimere vissuti forti di armonia con la terra, capaci di trasformarla in modo creativo, ma senza violarne la realtà vivificante?

3. Se vogliamo azzardare qualche risposta – quale mi pare di poterne cogliere da questa due giorni di dialogo e di confronto, ma anche dal ciclo di seminari di cui essa costituisce il coronamento – la prima espressione che mi pare di dover pronunciare, nel linguaggio caratteristico di una comunità credente è semplice: ritrovare creazione. Ritrovarla in primo luogo come componente essenziale dell’architettura della fede cristiana: se la Bibbia è il grande codice dell’Occidente, non possiamo dimenticare che la meta-narrazione che in essa ci è offerta si dipana tra creazione ed escatologia, avendo come punto focale il kairos della redenzione. È in questa grande narrazione che – da credenti – ci sentiamo chiamati ad inserire anche il nostro vissuto personale e comunitario, il racconto dei nostri fallimenti e delle nostre speranze, la configurazione del nostro rapporto con la terra e con la storia. Certamente uno dei punti di fragilità della modernità è proprio lo smarrimento di un tale orizzonte, che ci fa sentire spaesati sulla terra. Non credo però lo si possa surrogare troppo facilmente con altre narrazioni parascientifiche, come quelle legate alla figura di Gaia, ma certo – in assenza di qualunque narrazione significativa – stiamo smarrendo il futuro (come segnalava Elena Pulcini), o forse ce lo stiamo mangiando noi stessi, con un consumo di risorse vorace e predatorio.

4. Sottolineare con tanta forza l’orizzonte della creazione non significa in alcun modo togliere spessore alla singolarità umana ed al suo dispiegarsi in una storia, ma piuttosto comprenderla in un orizzonte vasto, illuminato dal respiro del Creatore trinitario – quel respiro che diciamo Spirito di Dio.
La stessa declinazione cristologica della fede non può, del resto, dimenticare che Egli è “primogenito di tutta la creazione” secondo l’indicazione di Colossesi 1, 15; che la stessa figura di umano che a partire da Lui si disegna può essere correttamente compresa solo entro tale orizzonte. Si tratta, insomma, di confessare che la Parola che salva e rinnova è la stessa Parola creatrice, declinata in quella inedita ricchezza di forme – modulate trinitariamente – che ci è donata nell’evento pasquale.

5. Qui mi pare ci abbia offerto e ci offra indicazioni particolarmente preziose Jürgen Moltmann, nel momento in cui nella sua opera il riferimento alla creazione – alla terrestrità relazionale che ci caratterizza – appare come armonica insostituibile per narrare di ogni aspetto del mistero di fede. Dio viene certo all’uomo (ed alla donna), ma viene sempre nella forza di uno Spirito che è Signore e dà la vita, che abita la rete di rapporti di cui è intessuto il mondo della vita. La stessa cristologia può così pensarsi in prospettiva pneumatologica, nell’approfondimento della singolarità dell’umano, ma anche nella percezione di un’”incarnazione profonda”, che interessa l’intera storia della vita.custodia

6. Le ultime parole ci conducono, però, piuttosto nello spazio linguistico di un altro autore contemporaneo che molto ha lavorato sul tema, il teologo australiano Denis Edwards. Egli sottolinea come “abbiamo bisogno di una rinnovata teologia del mondo naturale, che includa ed abbracci la comunità della vita sula Terra, comprendendola in termini evolutivi e come sottoposta ad un’estrema minaccia”. Una teologia che sappia cogliere ogni creatura – gli esseri umani, ma anche gli uccelli del cielo e i fiori del campo – come espressione sovrabbondante della fecondità amante del Dio Trino. Si tratta, insomma, di ritrovare quella dimensione cosmica che caratterizzava la Scrittura e la teologia dei Padri, per pensarla però in un contesto nuovo, segnato dalla modernità e dai frutti dell’impresa scientifica…

7. La sfida è, dunque, a tutto campo ed interessa le diverse forme in cui si articola il sapere teologico e le pratiche ecclesiali. Una sfida impegnativa, ma anche ricca di prospettive: una teologia che sappia accoglierla, ascoltando attentamente la Parola di Dio e lasciandosi illuminare da essa, attiva un movimento nuovo per la nostra comprensione dell’umano, ma anche un inedito modo di vivere il mondo – una spiritualità concreta, generatrice di stili di vita. Ci troviamo così collocati, in primo luogo, decisamente aldilà di quell’approccio un po’ individualista ed un po’ spiritualista, che ha spesso limitato la capacità dei credenti di essere lievito nella storia dell’umano. Ma siamo anche condotti oltre quella strettoia che caratterizza buona parte del dibattito contemporaneo e che nel pensare il nostro rapporto con la terra sembra limitarsi all’alternativa tra forme di assolutizzazione della natura quasi neopagane e antropocentrismi duri e violenti.

8. Una buona teologia saprà invece a. sostenere l’umano, in forme che non ne sminuiscano la singolarità, ma neppure dimentichino quella relazionalità (anche ecologica) che lo fonda e lo precede – quella stessa che costituisce una componente della forma in cui ci si presenta quella donazione fondante cui faceva riferimento Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus.
b. ispirare un’etica civile (pur senza evidentemente volerla assorbire) a declinarsi come accoglienza nella terra, ma anche come relazione a quella terra in cui è radicata la stessa civitas.
c. accompagnare una presenza pastorale che spesso assume anche un ruolo di custodia del territorio, quasi sentinella contro il degrado.
d. supportare pratiche educative efficaci e creative, generatrici di buona vita sostenibile, di stili di vita leggeri.
e. far vivere uno sguardo lucido, capace di guardare negli occhi la crisi e viverne la paura, ma senza cadere nell’angoscia paralizzante – il rischio segnalato da Elena Pulcini – grazie alla confessione di una speranza che non delude.
Una buona teologia saprà affiancare e muovere tali pratiche, ma anche contemporaneamente apprendere da esse, in una circolarità che richiama quella ermeneutica, ma anche quella ecologica.

9. Mi sembra che in questi giorni e nel percorso che li ha preceduti abbiamo coltivato una simile buona teologia, abbiamo provato a farla crescere e dovremo pensare alle forme in cui dare diffusione più ampia al portato di questa traiettoria. Le preziose riflessioni proposteci in questi giorni (un grazie particolare a A. Piola, G. Quaranta, O. Aime, G. Coha), così come il lavoro che hanno fatto sul tema parecchi autori hanno segnalato una ricchezza ed una varietà di spunti e di istanze emergenti che guardano in tale direzione, ma anche un impatto ancora abbastanza scarso sui manuali, sull’insegnamento della teologia, sulla formazione all’interno della comunità cristiana. C’è molto, insomma, ma da far adeguatamente lievitare.

10. Dobbiamo, cioè , lavorare ancora – per una teologia che sappia interagire in modo creativo con la pastorale – e desidero proporre alcune linee che potremo approfondire nella riflessione futura e nel dialogo. Prima di offrire alcune indicazioni di contenuto, mi piace però soffermarmi sull’ultimo termine: la custodia del creato è impresa che interessa l’intera famiglia umana ed è realizzabile solo nell’interazione costruttiva tra le sue diverse componenti. Un grazie particolare va in tal senso a Moltmann e Pulcini che ci hanno aiutato a praticare dialogo in questi giorni, con le rispettive sensibilità; è chiara però anche l’esigenza di allargare l’orizzonte: la pace con la terra cresce assieme a quella tra gli uomini e le donne e le religioni tutte sono chiamate a contribuire a tale prospettiva. La pratica della teologia deve far propria tale istanza, apprendendo a collocare il proprio dire nella luce di un Dio che davvero ci vuole famiglia umana, capace di abitare assieme la terra, in forme sostenibili, valorizzando la pluralità di espressioni di una sapienza solidale per la crescita comune.

Cantico ottobre 2014 online11. Che cosa sogno, dunque, per una teologia attenta alla custodia, capace di dirsi entro il dialogo? Come potrebbero articolarsi attraverso le diverse discipline quelle indicazioni generali che abbiamo accennato fin qui? Abbiamo bisogno di: a. Una sistematica che sappia articolare la confessione della fede in Gesù Cristo, Signore e Salvatore, nello spazio di un mondo che è certo scenario per la storia di Dio con l’umanità, ma anche – prima ancora – realtà essa stessa teologicamente densa, abitata dallo Spirito e destinata a condividere la gloria dei figli (Rom.8, 19ss).
b. Una filosofia che sappia prendere sul serio l’essere biologico dell’uomo (Jonas ed oltre), senza però ridurlo ad esso. Capace di articolare una comprensione dell’umano come essere che trasforma creativamente la natura, ma che è radicato anche nella natura stessa e di essa vive.
c. Un’etica che sappia leggere attentamente i segni dei tempi – in una fase in cui il tempo stesso (il clima) è in cambiamento – per chiamare a pratiche rinnovate; che sappia articolare il rigore dell’elaborazione normativa e la capacità dialogica con altre ispirazioni ideali; che sappia integrare profondamente nella comprensione dell’umana vocazione in Cristo anche la nostra co-creaturalità, così come la dimensione intergenerazionale.
d. Una pastorale che sappia essere custodia della terra – del territorio, nella sua dimensione ecosistemica, così come in quella antropologica; una catechesi che sappia introdurre ad una fede in Cristo autenticamente capace di respiro cosmico.
e. Una liturgia, che sappia aprire le nostre orecchie all’ascolto della Parola Creatrice, nelle sue risonanze entro il mondo, nel suo focalizzarsi in un corpo crocefisso e risuscitato, nel suo protendersi – oltre il gemito della ktisis – verso un futuro di benedizione; la stessa forma dei luoghi di culto dovrebbe orientare ad una nitida espressione della fede nel Dio Creatore.

12. Si tratta, dunque, di ritrovare la creazione a tutto tondo, per giungere allo spazio della lode, in un amore che sa volgersi ad ogni creatura e farsene carico. Si tratta anche, d’altra parte, di lasciar trasformare da tale dinamica le pratiche delle nostre comunità, la forma che esse prendono, le scelte di consumo e gli investimenti; di integrare profondamente la custodia del creato nel nostro modo di stare entro la città e di fare economia. È un lavoro che ha bisogno di integrare competenze diverse, per metterle a servizio di un rinnovato modo di abitare la terra.

13. Si tratta, insomma, di cercare ancora, perché davvero la gioia del Vangelo risuoni come buona novella per l’intero creato…

Prof. Simone Morandini,
Gruppo Cei Custodia del Creato

Per la completezza del testo si rimanda alla pagina del Convegno in www.chiesacattolica. it, Area Custodia del Creato, dove sono rintracciabili le relazioni dell’intero Convegno, aperto da Mons. Fabio Longoni, Dir. Uff. Cei UNPSL.