Giulio Albanese

AlbaneseSessantadue persone detengono la stessa ricchezza della metà della popolazione mondiale. È quanto emerge da un rapporto pubblicato il 18 gennaio 2016 da Oxfam, in coincidenza con l’annuale World Economic Forum che si tiene questa settimana a Davos.
Un dato che, secondo l’autorevole federazione di 18 organizzazioni umanitarie e attiviste che si occupano di povertà, diritti umani e ingiustizie nel mondo, racconta da solo l’enorme disuguaglianza di reddito nel nostro pianeta e che vanifica la lotta alla povertà globale. Dobbiamo ammettere che questo è semplicemente “immorale”. Lo studio indica tra l’altro che la ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale – circa 3,6 milioni di persone – è scesa del 41% (pari a mille miliardi di dollari) dal 2010 a oggi. Ma ciò non toglie nulla alla divaricazione della forbice tra chi ha molto e chi poco o nulla.
Lo scarto tra i super-ricchi e il resto della popolazione si è accresciuto in modo spettacolare negli ultimi 12 mesi. Ecco che allora la ricchezza delle 62 persone più ricche del pianeta è aumentata di oltre 500 miliardi di dollari, arrivando così ad un totale di 1.760 miliardi di dollari. Il primo della classe è Bill Gates, fondatore del colosso Microsoft, che ha accumulato 79,2 miliardi di dollari. Per carità, questo signore si lava la coscienza facendo il filantropo con la sua fondazione Bill & Melinda Gates, creata nel gennaio del 2000. Oggi è guidata da William H. Gates Sr. (padre di Bill Gates) e da Patty Stonesifer (ex membro della delegazione americana all’Onu), con un patrimonio di 43 miliardi di dollari ed è attiva nella ricerca medica, nella lotta all’Aids e alla malaria, nel miglioramento delle condizioni di vita nei paesi in via di sviluppo e nell’educazione. Ma a cosa serve fare “beneficenza” in questo modo quando si è responsabili della più aberrante esclusione sociale dell’umanità?
Anni fa, quando molti dei nostri missionari denunciavano i meccanismi di sfruttamento della globalizzazione selvaggia nelle periferie del mondo e la finanziarizzazione indiscriminata dell’economia, erano spesso tacciati di terzomondismo populista.
Ora però che la crisi è diventata planetaria e che le masse sono impoverite anche in alcuni Paesi della vecchia Europa, abbiamo, per così dire, sotto gli occhi l’insostenibilità politica e sociale di un modello di sviluppo che ha mostrato tutta la sua inadeguatezza.
Negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta, sembrava quasi fosse peccaminoso criticare un sistema che aveva generato in Occidente, dal punto di vista materiale, una condizione di benessere, espandendo la fascia del cosiddetto ceto medio.
Eppure, allora, anche in Italia, vi erano voci fuori dal coro che avevano il coraggio di stigmatizzare l’inganno. “Spinti dal nostro feticismo produttivo – scriveva in quegli anni un coraggioso teologo, il compianto padre Ernesto Balducci – noi stiamo avanzando in regioni spaventose, quelle del benessere vuoto di ogni valore”. Ecco che allora, oggi, proprio facendo tesoro dell’esperienza traumatica dei poveri, nei bassifondi della Storia, siamo chiamati, con urgenza e temerarietà ad opporci al pensiero debole imposto dal materialismo pratico, definendo, con ingegno e fantasia, una cultura rispettosa della dignità della persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio.
“La cultura della competizione […] è condannata non solo dalla coscienza – ammoniva padre Ernesto – ma dall’istinto di sopravvivenza. I valori alternativi sono, non dico possibili, ma necessari”. Del resto, perché la Storia, col suo carico di contraddizioni, riesca ad essere maestra di vita, pur passando nei resoconti della memoria in mani sempre diverse quante sono le generazioni, dovrebbe essere oggetto di un sano discernimento.
Essa, infatti, continua ad essere la permanente narrazione di modelli di civilizzazione che, in fondo, hanno sempre generato una palese esclusione. Perché forse quella dei deboli e reietti d’ogni tempo è la storiaccia dei vinti, incapace d’includere nei suoi capitoli tutti i protagonisti del copione. Sì, quasi vi fosse un disfacimento per cui la periferia, ciò che è distante dal palazzo, non contasse per edificare i posteri nella perpetua memoria delle loro gesta negate. “Quando ci siamo svegliati – scrisse provocatoriamente don Lorenzo Milani – i poveri erano già partiti senza di noi!” È drammaticamente vero, non solo in riferimento al passato, ma anche al presente che c’appartiene. div ricchi e pov
Ma queste anime dimenticate che hanno accettato l’esodo dell’emarginazione nello spazio e nel tempo, non solo costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, ma ci interpellano. D’altronde, il messaggio evangelico non legittima la rassegnazione. Pertanto, dobbiamo avere l’ardire di rimboccarci le maniche con umiltà, senza rimpiangere le cipolle d’Egitto come gli ebrei quando erano nel deserto. La tentazione, a questo punto, potrebbe essere la delega, secondo la logica dello scaricabarili.
Che vi siano, cioè, ardimentosi missionari o volontari che dir si voglia, prodighi di benevolenze, pronti a rincorrerli sui sentieri di un’esistenza algida e vischiosa, fatta di paludi dove è facile affondare. Sì, quasi la salvezza delle anime fosse solo e unicamente affare loro. Papa Francesco, però, dall’alto del suo illuminato pensiero ci ammonisce, sapendo che, in fondo, un nuovo mondo è possibile con l’impegno di tutti. Perché tutti siamo missionari.