Intervista a Fausto Colombo (Dir. OssCom Centro di ricerca sui media e la comunicazione)

Avrebbero riempito le piazze lo stesso. Anche se Mark Zuckerberg non avesse mai inventato Facebook e pure se Twitter fosse rimasto soltanto un’idea. «I social network non fanno la rivoluzione» dice ad Avvenire Fausto Colombo, a 56 anni uno dei ‘decani’ italiani dei mezzi di comunicazione (dirige OssCom, il centro di ricerca sui media e la comunicazione dell’Università Cattolica di Milano che lui stesso ha fondato nel 1995).

 

Social network. Non fanno le rivoluzioni, ma certamente aiutano | ilcantico.fratejacopa.net

Social network. Non fanno le rivoluzioni, ma certamente aiutano | ilcantico.fratejacopa.net

Su Facebook i giovani arabi organizzano le proteste. Su Twitter raccontano come stanno andando. La rivoluzione si fa sui social network?
È naturale che siano questi siti a raccontare le rivolte in corso nel mondo arabo. Siamo davanti alla ribellione dei giovani, in Paesi in cui metà della popolazione ha meno di 30 anni. Sono ragazzi più istruiti dei loro genitori e hanno più rabbia per come sta il loro Paese. E, come la stragrande maggioranza dei loro coetanei nel resto del mondo, usano i social network. Facebook e Twitter sono i mezzi della loro generazione, per loro è naturale usarli anche adesso, è il modo più spontaneo che hanno per raccontare come stanno ribaltando il loro mondo. Ogni rivoluzione ha il suo mezzo di comunicazione di riferimento: il ciclostile per i ragazzi occidentali nel’68, Facebook per i giovani arabi oggi.

Qual è allora il ruolo di questi siti?
Semplificano la protesta, rendono più facile ribellarsi perché è più agevole la comunicazione tra chi si ribella. I social network hanno la capacità di mettere in comune tra chi li frequenta una quantità enorme di informazioni, e in questo modo lo sdegno condiviso si gonfia enormemente. Chi protesta oggi ha a disposizione mezzi di comunicazione straordinari. Infatti i governi cercano di sabotarli.

L’impressione è che non ci stiano riuscendo…
È curioso, perché sembra proprio che non siano capaci di gestire la protesta ‘virtuale’. Il sistema più rozzo e brutale è spegnere la rete. Ma non è cosa semplice fermare Internet, e infatti spesso non ci riescono nemmeno. I governi più scaltri e meno impreparati, però, hanno capito che i social network possono fare comodo, perché permettono di tenere d’occhio le persone, offrono una ‘schedatura’ degli iscritti. È un nuovo sistema di controllo che i regimi possono trovarsi in mano senza spendere niente. Eppure, nonostante la grande attenzione che stiamo dando a questi siti, io penso che non siano loro il mezzo di comunicazione protagonista della rivolta.

E qual è il protagonista?
Il mezzo di comunicazione più potente è ancora la piazza. È lì che la protesta virtuale diventa reale. Se i social network sono un luogo dove si discute, dove ci si parla, in piazza si va per cambiare le cose. Essere tutti assieme, fare parte di una folla unita e arrabbiata… tutto questo funziona ancora. La massa ha un effetto fortissimo su chi partecipa, e le immagini delle folle infuriate proiettate dalle televisioni e pubblicate sui giornali raccontano la rivolta in corso meglio di qualsiasi social network.

È il reale che ancora supera il virtuale?
In qualche modo è così. I social network sono potenti, ma non fanno le rivoluzioni. La piazza, invece, le fa. La piazza è visibile e in un momento di grande virtualità la massa fisica ha una grande importanza. Così la protesta di piazza, forma primordiale della comunicazione politica, si sposa a una delle forme più moderne, la condivisione della rabbia sui social network. È una dinamica estremamente affascinante.

(intervista di Pietro Saccò Avvenire, 24 febbraio 2011)