acquajpegL’accaparramento di risorse naturali avviene quando un attore esterno alle comunità che vivono in un dato territorio si appropria del diritto di accesso, di controllo e di gestione delle risorse di quel territorio, impedendone il godimento a chi fino a quel momento sopravviveva grazie ad esse.
La conseguenza è l’impoverimento delle persone e dell’ambiente naturale. Le imprese che arrivano per coltivare, per estrarre minerali o petrolio, per imbrigliare le fonti o i corsi d’acqua sono percepite come esterne, come “intruse”, perché modificano per sempre l’equilibrio del territorio senza vantaggio alcuno per le comunità che lo abitano.
Vengono tanto più percepite come intruse e arraffatrici, quanto meno si ha una ricaduta sul territorio del benessere economico e quanto più, invece, il territorio stesso e i suoi abitanti ne subiscono le esternalità negative: inquinamento, danni alla salute, scardinamento del sistema economico esistente.
In realtà, la retorica che normalmente viene usata per giustificare e anzi sostenere tali investimenti e progetti è proprio quella della promozione dello sviluppo e della crescita. Sfruttare quel giacimento di petrolio, impiantare una coltivazione di Jatropha o costruire una grande diga porterà sviluppo: da un lato posti di lavoro e dall’altro un aumento dei guadagni derivanti da royalties e tassazioni varie a beneficio dello Stato che, automaticamente, implicherà un miglioramento dei servizi di base (sanità, istruzione, welfare) per la popolazione.
La tecnologia che verrà impiegata sarà certamente quella “di punta”, verde anzi verdissima. Gli impatti ambientali minimizzati, sotto controllo, e comunque l’integrità della natura può essere sacrificata qui e compensata più in là, in quello che viene presentato come un gioco a somma zero.
Nella realtà, i posti di lavoro che vengono creati sono sempre meno di quelli promessi, e spesso le condizioni di lavoro ed il salario corrisposto non sono affatto dignitosi e sufficienti per il sostentamento. In molti casi, poi, non c’è trasferimento a livello locale dei proventi ricavati dalla cessione dei diritti di sfruttamento di una data risorsa. Invece, quando le comunità si organizzano per proteggere l’ambiente in cui vivono, per preservarlo dalla tecnologia di punta che fallisce nel suo essere infallibile (tutti ricordiamo il disastro di Deepwater Horizon), per mettere in discussione il modello di sviluppo che viene imposto sono accusate di sabotaggio e terrorismo e trattate come se fossero criminali.
Quello che accade in Madagascar, Ecuador e in India, può essere collegabile anche a quanto avviene in Italia, essa stessa sempre più spesso teatro in cui si consuma un attacco ai beni comuni senza precedenti.
Una reale gestione democratica e partecipata dei territori e delle risorse ad essi collegate non potrà mai realizzarsi davvero se non mandiamo in cortocircuito un sistema che in nome dello sviluppo e della crescita fagocita incessantemente i beni comuni (e le relazioni tra di essi) dapprima come materie prime per la produzione, poi come nuove merci e infine come asset finanziari. Bisogna reagire a questo paradigma sviluppista non solo perché non sta in alcun modo riequilibrando le ingiustizie sociali ed economiche, ma perché, alimentandosi grazie ad esse, sta contribuendo ad acuirle. In più sta devastando l’ambiente in cui noi tutti viviamo, respiriamo, mangiamo. Per scardinare questo stato di cose, occorre riportare le risorse naturali fuori dal controllo della finanza e dal mercato, che per definizione si basano sul massimo profitto del privato.
Le nostre organizzazioni – Mani Tese, Re:Common, CeVi e CICMA – credono fortemente nel diritto all’autodeterminazione delle comunità locali nella gestione dei loro territori e delle risorse ad essi connesse, e nella necessità di promuovere processi decisionali democratici e partecipativi a tutti i livelli, dai territori locali alle dinamiche globali. Queste ultime non devono più essere decise da istituzioni finanziarie internazionali espressione del modello di sviluppo in crisi né tantomeno dai consigli di amministrazione delle grandi multinazionali o delle banche. Riteniamo sia necessario mettere in atto un processo trasformativo anche a livello delle istituzioni pubbliche chiamate ad esercitare il loro ruolo nel segno della promozione dei diritti umani e dei principi di equità e giustizia.
A questo proposito riteniamo che le istituzioni deputate a farlo si debbano adoperare per la cessazione dei fenomeni di concentrazione e accaparramento della terra, anche attraverso la promozione dell’agricoltura ecologica e di piccola scala. Esse si devono adoperare per il rafforzamento dei processi di implementazione reale dell’acqua come diritto fondamentale, la cui gestione deve essere sottratta ai privati e il cui accesso deve essere universale. Rivendichiamo la necessità di una transizione verso un nuovo modello energetico basato su fonti rinnovabili e diffuse e la necessità di adottare misure per porre un freno alla speculazione sulle risorse naturali, ridefinendo regole stringenti per i mercati finanziari. Chiediamo infine l’adozione urgente di un accordo per combattere i cambiamenti climatici che sia vincolante per tutti i paesi, secondo il principio della responsabilità condivisa ma differenziata e del ripianamento del debito ecologico che i paesi del Nord del mondo hanno accumulato.manojpeg
Le istituzioni devono fare la loro parte, ma sappiamo bene come la democrazia dei territori e l’idea stessa di bene comune traggano la loro linfa vitale dalla partecipazione delle persone comuni. Crediamo che sia necessario fare del nostro meglio per rinvigorire queste due pianticelle e dare il nostro contributo.
Innanzitutto, occorre sforzarsi a comprendere i legami invisibili, sottili e fortissimi che mettono in collegamento casa nostra, ciò che consumiamo o utilizziamo con il resto del mondo. Quello che abbiamo raccontato non è qualcosa di lontano che succede ad altri, mosso da dinamiche e politiche lontane da noi. L’accaparramento di terra in Madagascar, come altrove, da parte di imprese italiane per esempio, non è svincolato dalle scelte di investimenti di quelle stesse imprese a casa propria. Il collegamento tra le distese di Jatropha e la diffusione di centrali a biomassa in Italia è tutt’altro che casuale. L’incidenza delle politiche energetiche a livello nazionale e regionale gioca un ruolo ben preciso nell’orientare i piani di investimento delle stesse imprese.
Possiamo poi sporcarci le mani. Le prove di democrazia dal basso ci sono e sono tante, sparpagliate in tutti i nostri territori. Possiamo provare a dare il nostro contributo, nella profonda consapevolezza che il “globale” è formato da tanti “locali” che si intrecciano, si condizionano e vicenda, possono fare rete. Decidiamo di riscoprire il piacere dell’impegno e della condivisione con i propri vicini e di usare le possibilità che abbiamo per far sentire la nostra voce. Ricordiamoci che l’Italia fa parte dell’Unione Europea, luogo in cui sono prese tante delle decisioni che hanno impatti sulla nostra vita quotidiana, e anche sulla quella di chi in questo luogo non ci abita. Neanche l’Europa è un’entità lontana e fatta da sconosciuti: ai diversi Consigli siedono anche i nostri Ministri, espressione del nostro governo. Così come al Parlamento siedono anche i deputati italiani, eletti da noi. Inoltre possiamo far sentire la nostra voce decidendo di utilizzare i meccanismi che già esistono, come il diritto d’iniziativa dei cittadini europei che consente ad un milione di cittadini dell’Unione di prendere direttamente parte all’elaborazione delle politiche dell’UE, invitando la Commissione europea a presentare una proposta legislativa.
Una farfalla non può provocare un uragano, ma il nostro battito di ali ha comunque un impatto, e ognuno di noi usa risorse naturali nella propria vita quotidiana.
Come consumatori abbiamo un grande potere: possiamo pretendere che una azienda rispetti i diritti dei lavoratori, che un’altra riduca il packaging dei propri prodotti o che una terza adotti misure per inquinare meno. Possiamo anche cercare di fare meglio la spesa, per evitare sprechi e buttare via cibo e per cercare di promuovere la filiera corta e il chilometro zero. Possiamo iniziare la nostra personale transizione energetica scegliendo di usare l’auto il meno possibile, per dare il nostro contributo a lasciare il petrolio sottoterra. Tutti i trucchi per essere più sostenibili li sappiamo da tempo, così bene che ci ha un po’ stufato il sentirli ripetere. Che sia arrivata l’ora di metterli in pratica?
Siamo cittadini, ma anche lavoratori, consumatori, correntisti, clienti di imprese assicurative. Per ognuna di queste funzioni abbiamo un ruolo e le potenzialità per influenzare e reindirizzare scelte scellerate. Che si tratti dell’irresponsabilità dei nostri governi, delle banche a cui concediamo di gestire i nostri risparmi, delle assicurazioni che paghiamo profumatamente per la nostra sicurezza, dei fondi pensione a cui affidiamo il nostro futuro, siamo noi che permettiamo loro di operare.
È a noi che devono rendere conto. Ricordiamocene. Infine crediamo che sia necessario continuare ad informarsi e seguire quello che succede. Sui siti web delle nostre organizzazioni potrete trovare informazioni dettagliate sull’andamento dei casi che vi abbiamo raccontato e su molti altri. Così potete monitorare quanto accade e attivarvi qualora richiesto.
www.manitese.it
www.recommon.org
www.contrattoacqua.it
www.cevi.coop

Tratto da “A caccia di risorse”
prodotto da Manitese, Recommon, CICMA e CEVI