Simone Morandini*

Questo intervento muoverà da una considerazione della prima parte del titolo che mi è stato assegnato, per esplorare poi le indicazioni che in tale ambito ci vengono dal Concilio Vaticano II, di cui celebriamo i cinquant’anni dall’apertura; esso si concluderà infine con alcune indicazioni essenziali in ordine a quella custodia del creato, cui si riferisce la seconda parte del titolo stesso, ma su cui già in altre occasioni siamo intervenuti in quest’ambito.

A. PERCHÉ UNA NUOVA SAPIENZA?
In primo luogo, perché parlare di sapienza? Utilizzare tale espressione significa rimandare ad uno spazio di discorso che vada aldilà della dimensione tecnica, ma anche della descrizione scientifica del mondo – nella varietà articolata e significativa delle sue dimensioni. Un discorso mirante invece a cogliere un senso, per orientare le nostre pratiche entro un mondo ed una storia. Un discorso, dunque, irriducibile alle specificità disciplinari, ma anche capace di un’interazione feconda con esse – nello stesso senso in cui lo stesso Concilio Vaticano nella Costituzione sulla Chiesa nel nostro tempo Gaudium et Spes (d’ora in poi GS) parlava ai nn.41-44 dell’interazione della Chiesa col mondo in un dinamismo che vede un aiuto dato e ricevuto. Parliamo di sapienza, d’altra parte, per riferirci ad un discorso capace di sostenere la prassi, per non essere solo spettatori, ma protagonisti attivi, per essere soggetti in senso forte, soggetti di pratiche, soggetti coscienti. Sapienza per far fronte alla crisi (ambientale, ma anche di senso e di fiducia), per coglierne l’interrogazione – non dimenticando che questo è il senso etimologico della parola crisi – ma anche per guardare oltre la crisi.

speciale-capitolofonti_01Si tratta, infatti, di andare aldilà di un pensiero dell’emergenza – in politica, ma anche nella costruzione delle nostre esistenze – per ritrovare orizzonti vasti. Parliamo di nuova sapienza, per far fronte ad un tempo inedito, caratterizzato da numerosi elementi di novità – si pensi alla globalizzazione finanziaria e sociale, ma anche ai profondi mutamenti nel campo dell’informazione ed alla crisi ambientale. Notiamo anche che tali mutamenti sono spesso caratterizzati dall’esigenza urgente dell’azione (e penso, in particolare ai tempi brevi del mutamento climatico, che evidenziano tra l’altro come la questione ambientale si ponga oggi come meta-questione, che ne ridefinisce tante altre), che rischia di appiattirci sul presente e sulle sue istanze. Di fronte a tale pericolo occorre, invece, una sapienza che sappia anche attingere in modo fecondo alle tradizioni di senso in cui siamo radicati, secondo l’indicazione della parola di Gesù: “Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche»” (Mt 13, 52). Una sapienza, dunque, che viva entro una dialettica di rinnovamento e di ritorno alle fonti, per gustarne sempre e di nuovo le potenzialità (non dimenticando che la stessa radice di sapienza viene dal verbo latino sapio, gustare).

Ad un teologo – ma semplicemente ad un credente di questo tempo – un tale invito non può che richiamare il Concilio, un tempo in cui la stessa Chiesa Cattolica ha saputo ritornare alle fonti della tradizione, della liturgia e della Scrittura, per spiegare le vele superando le ristrettezze di forme ecclesiali bloccate e chiuse, per aprirsi al dinamismo di un Vangelo che illumina il mondo e la storia. Un Concilio che ha offerto alcuni elementi potentemente generatori di sapienza – di nuova sapienza. Proprio la novità è forse, in effetti, la categoria che ci può offrire indicatori per guardare oltre il dibattito sul rapporto di continuità/discontinuità che affascina gli storici del Concilio e li polarizza – una categoria biblica, pentecostale, che richiama l’inedito dell’agire di Dio, che pure ne esprime l’amore costante. Proviamo, dunque, a attingere dalle sorgenti del Concilio – ed in particolare proprio da GS alcuni elementi che possono aiutarci a vivere il nostro presente.

speciale-capitolofonti_02B. IL VATICANO II: UNO STILE DI FARE SAPIENZA
Non è casuale che questo Anno della Fede sia stato convocato in questo tempo, a cinquant’anni dall’evento, a ricordarci che quella che ci troviamo a fare è una vera e propria memoria futuri. Il Concilio di cui ricordiamo – più o meno distintamente, per alcuni in forma diretta, per me e per altri in forma mediata – elementi significativi si pone come un passato che sta in realtà dinanzi a noi, come attesa e come compito. Il farne memoria appare quindi come l’espressione di quello stile credente che viene espresso da parole come anamnesi o memoriale, quasi a ricordare il rapporto tra lex orandi e lex credendi. Esso sa riprendere il vissuto già trascorso nella luce della fede, per ri-comprendere il proprio presente e per disegnare le coordinate di futuri possibili, sui quali investire speranze ed energie. Per rispondere, soprattutto a quella chiamata che, sempre identica e nuova il Signore rivolge ad ognuno di noi, persone e comunità. Lo stesso Vaticano II, del resto, ci orienta in tale senso, nel momento in ci invita a leggere i segni dei tempi.

È questo uno dei grandi temi che GS ha ripreso dalla Pacem in Terris di Giovanni XXIII, come espressione di uno stile di essere chiesa estroverso, attento al mondo. Vediamo i due luoghi programmatici in cui il termine appare: • n. 11 “Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio”. • n. 4 “É dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, (…) bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico”. Trova qui espressione una percezione della storia come abitata dallo Spirito, in un mondo che è creazione del Padre, spazio di un disegno che, in forme complesse, non sempre facilmente percepibili, si sviluppa. Essa sa quindi guardare alla storia stessa con fiducia, come luogo di germinazione del senso, cui il Concilio – in corrispondenza con il discorso programmatico di Giovanni XXIII – non rivolge condanne ma solo parole di dialogo.

Ciò non significa affatto che esso sia caduto in quell’ingenuo ottimismo di cui talvolta i padri Conciliari vengono accusati: il n. 37 parla di una magna conluctatio che attraversa quella storia umana, di cui il n. 4 – come abbiamo appena visto – evidenzia “il carattere spesso drammatico” e il n.1 parla sì di gioie e speranze, ma anche di tristezze e angosce. Significa invece che il Concilio ha saputo interrogarsi sui movimenti profondi che attraversano la storia, per cogliere i luoghi in cui Dio passa e per vivere una sequela intelligente, critica e ricca di speranza. Se, infatti, la storia umana non è certo la Parola di Dio, tuttavia essa offre un contesto, in cui essa accade, viene ascoltata, si rende comprensibile, interpella; c’è, dunque, una densità teologica del mondo che merita di essere letta con attenzione.

A cinquant’anni di distanza, la lettura dei segni del tempo praticata dal Concilio può certo essere datata e sicuramente bisognosa di aggiornamento, ma quello che è normativo anche per noi è lo stile con cui esso l’ha praticata; non si tratta, dunque, di esercitarsi in una ripetizione pedissequa dei termini e delle categorie in cui la condusse il Concilio, ma nell’esercizio creativo di un’ermeneutica del nostro tempo, con i suoi segni, capace di cogliere anche qui emergenze di significato. In questo senso non basta un pensiero della damnatio temporis come quello praticato dai “profeti di sventura”, da cui già prendeva le distanze Giovanni XXIII. Occorre saper riconoscere anche i valori inediti di questo nostro tempo – si pensi all’attenzione per la cultura del dono o alla valorizzazione della diversità culturale e di genere.

Si pensi, in particolare, alla sensibilità ambientale diffusa nella cultura del nostro tempo, di cui anche la comunità ecclesiale riconosce l’importanza ed il valore. Proprio su quest’ultimo tema, anzi, vale la pena di ricordare come il riferimento biblico del tema dei segni dei tempi cui si rifà il Concilio sia quello di Mt 16, 1-3 che ha al centro la parola di Gesù: “Quando si fa sera, voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?”. È quasi paradossale che gli elementi del tempo meteorologico – che Gesù contrapponeva ai segni dei tempi – siano invece oggi divenuti, con il mutamento climatico, elementi qualificanti per comprendere il nostro presente. La lettura dei segni dei tempi va fatta, secondo il Concilio “alla luce del Vangelo e dell’umana esperienza “ (GS 46).

speciale-capitolofonti_03È la presa di distanza da un approccio puramente deduttivo, ma anche da un mero riferimento alla situazione, come se le domande portassero in sé le risposte. È invece l’invito a praticare uno stile di lettura della storia in grado di aprire un circolo ermeneutico, disegnando una forma di sapienza che sappia davvero valorizzare una varietà di competenze, ma anche le esperienze vissute dalle persone – uomini e donne, anagraficamente giovani e diversamente giovani – ponendole in correlazione con la luce del Vangelo. È davvero un circolo ermeneutico: si tratta di leggere il Vangelo – con tutti gli strumenti che il nostro tempo ci offre – per comprendere ed interpretare il tempo ed il mondo. Un metodo, ma anche un atteggiamento fondamentale, uno sguardo sul mondo e sulla storia che dobbiamo tornare – noi personalmente, le nostre comunità di appartenenza, la comunità ecclesiale tutta – ad apprendere. Tra gli elementi in cui Vangelo ed umana esperienza convergono il Concilio evidenza, in modo particolare la valorizzazione di un’antropologia relazionale come caratteristica dell’humanum.

Così GS n. 25 affermerà che “la vita sociale non è qualcosa di esterno all’uomo, l’uomo cresce in tutte le sue capacità e può rispondere alla sua vocazione attraverso i rapporti con gli altri, la reciprocità dei servizi e il dialogo con i fratelli”, mentre al numero precedente aveva sottolineato come “l’uomo (…) non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”. Non, dunque, l’atomismo individualista, ma la percezione di una persona la cui singolarità risplende nella rete di relazioni che essa intrattiene, nel suo con-vivere con altri, appare come elemento culturalmente emergente. Non a caso, il Concilio pone al centro della propria attenzione il futuro della famiglia umana – un’espressione centrale in GS.