Ritiro di Avvento a cura di Don Stefano Culiersi *
“Spes non confundit” è il titolo della Bolla di Indizione del Giubileo ordinario che ha cadenza venticinquennale, indetto da Papa Francesco per il 2025 con il quale la Chiesa si ferma a godere della presenza del suo Signore. Questa Bolla risente molto del clima generale di vita, di sensibilità, di socialità, che stiamo vivendo, segnato da un deficit di speranza. Il Papa si rende conto di questo, e allora dona un Giubileo dedicato a una speranza solida che non delude. Per comprendere il documento percorriamo insieme alcuni punti della Bolla di Indizione lasciando all’iniziativa personale la lettura ordinata punto per punto.
Vorrei cominciare dagli auspici che il papa si aspetta da questo anno giubilare: per tutti il Giubileo possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, porta di salvezza. Possa la luce della speranza cristiana raggiungere ogni persona come messaggio dell’amore di Dio rivolto a tutti e possa la Chiesa essere testimone fedele di questo annuncio in ogni parte del mondo. Il prossimo Giubileo sarà un Anno Santo caratterizzato dalla speranza che non tramonta, quella di Dio. Ci aiuti a ritrovare la fiducia necessaria nella Chiesa, nella società, nelle relazioni interpersonali, nei rapporti internazionali, nella promozione della dignità di ogni persona e nel rispetto del creato. La testimonianza credente possa essere nel mondo lievito di genuina speranza, annuncio di cieli nuovi e terra nuova dove abitare nella giustizia e nella concordia tra i popoli protesi verso il compimento della promessa del Signore. Lasciamoci attrarre dalla speranza e permettiamo che, attraverso di noi, diventi contagiosa per quanti la desiderano. Possa la nostra vita dire loro: spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore, spera nel Signore! Possa la speranza riempire il nostro presente nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo al quale va la lode e la gloria ora e nei secoli futuri.
Questi sono gli auspici: un incontro personale con il Signore, un messaggio dell’amore di Dio rivolto a tutti, di cui la Chiesa si fa carico. Il papa si aspetta che da questo anno l’esperienza della speranza si possa tradurre non soltanto in una questione mentale o intima, ma anche in una reale espressione di vita che noi possiamo esercitare, godere proprio per il nostro inserimento in questa società, in quelle mediazioni umane che ci vedono coinvolti e nelle quali noi abbiamo perso fiducia e speranza.
Qual è la nostra situazione? Nel documento il Papa è molto consapevole che questo nostro tempo è privo di speranza, di pazienza e di futur e questa assenza ha delle conseguenze gravissime per la nostra vita, per il futuro. Ma per capire qual è la nostra situazione, faccio una cavalcata tra le diverse citazioni della Bolla del Papa.
Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé.
L’imprevedibilità del futuro tuttavia fa sorgere sentimenti contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio.
Incontriamo spesso persone sfiduciate che guardano al futuro con pessimismo e scetticismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere occasione di rianimare la speranza: la parola di Dio ci aiuti a trovare le ragioni! Lasciamoci condurre!
La nostra ricerca di felicità è inadeguata.
L’apostolo Paolo scrive ai Romani e chiede loro quale felicità attendano e desiderino. Non un’allegria passeggera, effimera che, una volta raggiunta, chiede sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Siamo abituati a volere tutto e subito in un mondo in cui la fretta rende difficile anche alle famiglie incontrarsi per parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano infatti l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita che generano insoddisfazione e chiusura.
In internet, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal qui e ora, la pazienza non è di casa. Se fossimo ancora capaci di guardare con stupore al creato, potremmo comprendere quanto la pazienza sia decisiva.
Per portare la speranza nel mondo, il papa individua otto segni dei tempi che chiamano la speranza, otto condizioni di desertificazione dove manca il futuro, la speranza. Ve le elenco per capire il clima in cui siamo immersi.
Innanzitutto la pace. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla mortalità e dalla violenza. Che cosa manca a questi popoli che già non abbiano subito? Come è possibile che il loro grido disperato di aiuto non spinga i responsabili delle nazioni a voler porre fine ai troppi conflitti regionali, consapevoli delle conseguenze che ne possono derivare a livello mondiale? È troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte?
Secondo segno di speranza che chiede intervento: dare la vita. Guardare il futuro con speranza equivale ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere. Purtroppo dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere la vita a causa dei ritmi frenetici di vita, dei timori riguardo al futuro, della mancanza di garanzie lavorative, di tutele sociali adeguate, di modelli sociali a cui dettare l’agenda. Si ricerca il profitto anziché la cura delle relazioni. Si assiste in vari paesi a un calo della natalità. Al contrario in altri contesti incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni è il modo per non affrontare il problema. Uno dei tratti più evidenti della mancanza di speranza e di futuro è che non abbiamo generazioni davanti a noi.
Terzo segno di deserto è la condizione nelle carceri. Noi siamo afflitti continuamente da notizie di suicidi e di altre situazioni drammatiche anche nelle nostre carceri. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto.
Quarto segno: i malati. Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza delle persone che li visitano e nell’affetto che ricevono. Le opere di misericordia sono anche opere di speranza. Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale! La cura per loro è un inno alla vita umana, un canto di speranza che richiede la partecipazione della società intera.
Quinto segno: le nuove generazioni. I giovani vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli. Sul loro entusiasmo si fonda l’avvenire. È triste vedere i giovani privi di speranza.
D’altronde quando il futuro è incerto e impermeabile ai sogni, quando lo studio non offre sbocchi e la mancanza di un lavoro sufficientemente stabile rischiano di azzerare i desideri, è inevitabile che il presente sia vissuto nella malinconia e nella noia.
L’illusione delle droghe, il rischio della trasgressione, la ricerca dell’effimero creano in loro, più che in altri, confusione e nascondono la bellezza e il senso della vita, facendoli scivolare in antri oscuri, spingendoli a compiere gesti autodistruttivi.
Sesto segno: ai tanti migranti, esuli, profughi e rifugiati che le controverse vicende internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze, discriminazioni, siano garantiti la sicurezza e l’accesso al lavoro e all’istruzione, strumenti necessari per il loro inserimento nel nuovo contesto sociale!
Abbiamo notizie del disastro della Siria dove già da anni metà della popolazione vive nei campi profughi, per non parlare degli altri teatri internazionali!
Settimo segno: gli anziani che spesso sperimentano solitudine e abbandono. Anche loro sono individuati come quei deserti di speranza nei quali sarebbe prezioso nell’anno del Giubileo indicare dei segni diversi.
Ottavo segno: poveri che spesso mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e di rassegnarsi.
È scandaloso che in un mondo dotato di enormi risorse, destinate in larga parte agli armamenti, i poveri siano la maggior parte. Essi sono menzionati nei dibattiti politici, economici, internazionali, ma sembra che i loro problemi si pongano come un appendice, come una questione che si aggiunge quasi per obbligo o in maniera periferica. Di fatto rimangono all’ultimo posto.
In tutte queste situazioni la Chiesa sente il bisogno di annunciare la speranza cristiana. Il papa in queste otto situazioni chiede di intuire i segni dei tempi e di porre dei segni adeguati che manifestino la speranza e non assecondino una mancanza di futuro, una disperazione legata a queste condizioni specifiche. Ma al di là di questa carrellata sulla situazione che stiamo vivendo, la Chiesa ha uno specifico da annunciare, ha un dono di speranza da condividere con questa umanità.
Per poter accogliere che cos’è la speranza, il papa si fa illuminare dalla Lettera ai Romani al capitolo 5 in cui S. Paolo racconta perché ha sperato. Dalla sua esperienza deriva il senso della virtù della speranza cristiana e anche il senso forte del Giubileo, un evento religioso dal quale ci si aspetta anche delle conseguenze sociali.
Paolo dice: “Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione” (Rm 5,1-11).
Paolo dice che Gesù è morto sulla croce per un’umanità ostile: il sommo sacerdote, il sinedrio, i giudei, Pilato, i romani, i discepoli, i passanti, le generazioni precedenti, quelle successive. Tutta l’umanità è ostile, non lo ama, non lo cerca, lo travisa. Prova ad approfittarsi di lui, ma nella maggior parte dei casi lo tiene a distanza, come Adamo ed Eva, per crearsi una vita contrapposta a quella di Dio. Questo dare la vita per un’umanità empia, nemica e peccatrice è segno di un amore grandioso. Eravamo empi. Poi il Vangelo ci ha spiegato che Gesù Cristo è stato mandato dal Padre per la nostra salvezza e ci ha amato sulla croce. Ed ecco il ragionamento potentissimo di Paolo, prezioso per capire il valore religioso della speranza e quindi anche tutto quello che ne consegue: se quando eravamo nemici lui ha dato la vita per noi, adesso che siamo in pace, che cosa farà? Molto di più!
Eravamo nemici e ci ha voluto bene. Siamo riconciliati, in pace, giustificati, perdonati, siamo in una condizione diversa da quella in cui eravamo prima, conosciamo lui, la gravità del peccato, conosciamo la profondità della misericordia di Dio. Adesso si spalanca tutto il resto. Eravamo in una buca e siamo stati tirati fuori, senza che lo meritassimo, e ora che siamo stati pacificati abbiamo una vita da vivere con lui e possiamo metterci a tavola con lui.
Ora possiamo vivere in una condizione straordinariamente più grande e più bella nella condivisione della vita con Lui. Possiamo ambire al cielo per condividere la gloria di Dio. Possiamo sperare in un futuro che vinca perfino la morte, perché Lui ci ha amato quando non lo meritavamo. A maggior ragione ci amerà nell’ulteriorità! La speranza nasce dall’amore e scaturisce dal cuore di Gesù trafitto sulla croce.
La sua vita si manifesta nella nostra vita di fede che inizia col Battesimo, si sviluppa nella docilità alla grazia ed è animata dalla speranza sempre rinnovata e resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo che, con la sua presenza perenne nella Chiesa, irradia nei credenti la luce della speranza.
E la tiene accesa come una fiaccola che non si spegne, per dare sostegno alla nostra vita.
La speranza cristiana non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che mai nessuno potrà separarci dall’amore di Dio. Come dice S. Paolo: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? da quell’amore che è sceso dai cieli per salvare noi che gli eravamo ostili?
Se cogliamo l’amore di Dio per noi, nulla ci spaventa. Non abbiamo paura delle ostilità, perché colui che ci ha amato quando non lo meritavamo, è fondamento di una realizzazione infinitamente più grande. La solitudine, la guerra, la povertà… non ci spaventano, dal momento che Lui ci ama. Se manca questo aspetto religioso, cioè se non abbiamo fede nell’amore di Cristo, se non facciamo esperienza del suo amore allora ci illudiamo di avere speranza. Possiamo trovare tante ragioni per avere speranza, ma nessuna di esse sarà determinante, resistente, universale. Saranno motivazioni per avere determinati benefici che ci illudiamo di chiamare speranza.
La speranza produce pazienza che è l’attesa del bene, in vista del quale sopportiamo anche il male. Sicuramente il bene si realizzerà poiché Lui ci ama.
Lo attendiamo nonostante tutto, con la pazienza dell’agricoltore che aspetta di poter raccogliere il frutto a suo tempo, per la potenza di quel seme che è stato seminato.
Il momentaneo leggero peso della tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria.
Non c’è timore se oggi le cose sono rallentate, bloccate, impedite. Il Signore realizzerà la sua salvezza, perché non lo ha fermato nemmeno il fatto che noi gli eravamo ostili prima di essere liberati dal peccato. Adesso siamo in pace e sediamo alla sua tavola, perciò siamo ancora più motivati e fondati nella speranza.
La speranza è una virtù, cioè è forza, è potenza. È un’energia che mette in moto le cose in vista di realizzare un obiettivo. È una virtù teologale, cioè viene da Dio. Il suo fondamento è credere che Gesù ci ha voluto bene. Come dice la Lettera agli Ebrei, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede.
La speranza, la fede, la carità formano il trittico delle virtù teologali che esprimono l’essenza della vita cristiana.
La speranza imprime un orientamento, indica la direzione e la finalità dell’esistenza concreta, perciò l’apostolo Paolo invita ad essere “lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera”.
Abbiamo bisogno di abbondare nella speranza per testimoniare la fede che portiamo nel cuore.
Il fondamento della speranza è la vita eterna, l’orizzonte ultimo. Noi abbiamo la certezza che la storia dell’umanità e di ciascuno di noi non corre verso un punto cieco. È orientata verso il Signore della gloria. Viviamo nell’attesa del suo ritorno nella speranza di vivere per sempre in Lui.
Davanti alla morte, dove tutto sembra finire, si riceve la certezza che, grazie a Cristo e alla sua grazia che ci è stata comunicata nel Battesimo, la vita non è tolta, ma trasformata per sempre.
Abbiamo speranza della gloria.
Nella Bolla il Papa fa un riferimento all’architettura dei battisteri che sono costruiti con forme diverse, ma prevale l’intuizione (vedi S. Ambrogio a Milano) di rappresentarli come monumenti funebri, poiché i catecumeni vi entravano come in una tomba da cui uscivano lavati. Poi venivano rivestiti di bianco, profumati, illuminati con un cero e andavano a celebrare l’Eucaristia nella veglia di Pasqua. Il Battesimo porta con sé una speranza di eternità, di gloria, di felicità per sempre col Signore, che diventa il fondamento del nostro agire.
Perché non dobbiamo arrenderci di fronte al male? Noi abbiamo l’orizzonte della vita eterna nel quale la nostra felicità è compiuta. La felicità è la vocazione dell’essere umano!
Per questo vale la pena insistere, ricominciare, annunciare i segni della speranza nel deserto della nostra condizione.
Il punto fondamentale ruota intorno all’esperienza dell’essere amati da Cristo. Se ci accorgiamo di essere amati da Lui, se crediamo al Vangelo, se ci lasciamo raggiungere dal dono del suo sacrificio sulla croce allora usciamo dalla buca del peccato e possiamo sperare di salire alla gloria e di raggiungere quella felicità. Possiamo avere speranza anche nell’esercizio delle cose di questo mondo.
Vera icona del Giubileo della speranza è il pellegrinaggio. Infatti il pellegrino cerca di raggiungere la meta che è la vita eterna.
Dobbiamo vivere la dimensione del pellegrinaggio non solo andando a Roma, ma anche nelle chiese giubilari della nostra diocesi. Le sedi significative attendono il nostro lasciarci attirare dall’amore del Signore per rianimare le nostre speranze.
Ancora più importante è il pellegrinaggio interiore fatto attraverso il sacramento della riconciliazione con il dono dell’indulgenza. È un’esperienza sacramentale speciale amplissima di che cosa è l’amore di Dio per noi. Così possiamo rinnovare l’esperienza di un Dio fedele che non ha mai smesso di volerci bene. E non vede l’ora di ridircelo, purché glielo permettiamo! Nella pace, nella comunione con Lui abbiamo ancora speranza, nonostante le nostre fragilità. La fedeltà dell’amore di Dio è più grande della nostra insistenza nel peccato.
Il dono dell’indulgenza diventa un ampliamento della speranza che ci fa sentire tutti partecipi della stessa famiglia, della mediazione ecclesiale. Nella Chiesa c’è un tesoro di grazia che essa ha esercitato in tutti i suoi figli al quale possiamo attingere per rimediare al male che abbiamo fatto. Possiamo immettere nel mondo qualcosa di bene, di salvifico al di là dell’interruzione di grazia che abbiamo provocato.
* Direttore Ufficio Liturgico Diocesi di Bologna
Il Cantico
ISSN 1974-2339
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