La Rete è ambiente
Oggi si sente sempre più parlare di internet come di una questione antropologica, in quanto la tecnologia della Rete prevede un nuovo modo di fare esperienza di sé e del mondo.
In passato si diceva che la tecnologia è semplicemente un mezzo nelle nostre mani e, come tale, è suscettibile di un uso buono o cattivo. Il soggetto utente era concepito come autonomo dalle tecnologie che si riteneva fossero in suo dominio, perché egli ne potesse disporre secondo finalità da lui impresse a proprio piacimento e revocabili in qualsiasi momento. La tecnica aveva un significato antropologico fondamentale: realizzare il sogno umano di signoria e di autonomia nei confronti della natura.
L’uomo della tecnica tradizionale, pur riconoscendosi immerso nel suo ambiente naturale, si era sempre concepito distinto da esso. Questa consapevolezza è stata la caratteristica fondamentale dell’umanesimo occidentale.
Oggi la tecnologia domina in modo inedito l’ambiente naturale. Tuttavia questo dominio sulla natura, pur essendo indirettamente prodotto dall’uomo, finisce per imporsi sull’uomo.
La tecnologia informatica approfondisce vertiginosamente questo processo, poiché in essa il soggetto si sente quasi in simbiosi con l’apparato tecnologico; tende addirittura a vedere se stesso come una “protesi” di esso. In questo modo la tecnologia è sempre meno medium, cioè è sempre meno mediazione tra soggetto e realtà ed è sempre più una nuova realtà sostitutiva di quella naturale.
Oggi è aumentata la consapevolezza che “la tecnologia prefigura comportamenti” (F. Casetti). Si sta, cioè, prendendo atto sempre più che le tecnologie attuali, rispetto alla tecnica tradizionale, sono ambiente non naturale che coinvolge, plasma, precede ed eccede il soggetto e le sue stesse individuali intenzioni.
Possiamo dire che le nuove tecnologie non sono di per sé ambiti di libertà, ma “dispositivi che disabilitano mentre abilitano e che dispongono di noi e ci dispongono, mentre noi disponiamo di loro” (D. Pompili). Ciò non significa che questi ambienti debbano essere demonizzati, ma che solo se sono “abitati” consapevolmente, relazionalmente, sulla base di un senso, sono in grado di indicarci un nuovo sguardo sul mondo, di risvegliare il nostro desiderio di conoscenza, di sollecitare una nuova intelligenza delle relazioni e della realtà.
Altrimenti saranno essi a disporre di noi e non il contrario, poiché la tecnologia è sempre meno settoriale e sempre più un amplissimo sistema di dispositivi che, con la sua pervasività, dà forma a gran parte del contesto vitale e dell’orientamento mentale dell’uomo contemporaneo, costituendo il suo ambiente.
È necessario contribuire a costruire un “controambiente” (D. Pompili) che aiuti a rimanere vigili (difficilmente, soprattutto oggi, si può farlo da soli) e a trasformare così i media da qualcosa di dato per scontato, e quindi potente, in un’occasione per una rigenerata capacità relazionale e una nuova intelligenza del mondo e persino della fede.
Vigilare è la condizione della libertà, mentre lasciarsi portare dalla corrente toglie la libertà. Occorre vigilare affinché la tecnologia manifesti la ricchezza della realtà e diventi più umana. Questo è un compito impegnativo, poiché è certo che una modalità positiva, umanistica della tecnologia oggi non è assolutamente un fatto culturalmente spontaneo.
Fare esperienza umana
Che cosa significa fare esperienza nel nostro mondo tecnologizzato, mantenendo l’impronta caratteristica dell’umano che non si lascia ridurre e imprigionare dal mondo virtuale?
Per rispondere a questa domanda, non dobbiamo lasciarci prendere da pregiudizi che inducono a vedere il progresso solo come portatore di malefici, ma nemmeno dobbiamo pensare che le nuove tecnologie siano materia inerte e neutrale, pronta a farsi plasmare dall’uso che ne vorremo fare.
Se le tecnologie sono ambiente e, quindi, sono coinvolgenti e pervasive, il nostro compito è chiederci se la nostra identità umana possa mantenere la sua specificità distinta dall’ambiente circostante o se debba inesorabilmente essere omologata ad esso. Si tratta di chiarire a noi stessi che cosa significhi fare esperienza umana.
In una visione personalistica dell’uomo c’è esperienza umana nella misura in cui il soggetto diventa consapevole di sé come un’identità originaria, non scambiabile.
Tale identità diventa capace di discernere il vero e il falso, il buono e il cattivo e sviluppa un’affettività vissuta non come emozione egocentrica, reattiva, ma come risposta, adesione, vincolo consapevolmente assunto anche attraverso la ragione.
Solo l’unità di affettività e ragione rende possibile l’esperienza umana come tale.
Ma oggi manca l’idea che l’esperienza umana parta dall’unità tra affettività e ragione, poiché è in atto una schizofrenia tra ciò che è razionale (tecnicità, calcolo, potere) e ciò che è irrazionale (identificato con l’emozione). La razionalità è concepita come freddo potere analitico e organizzatore, l’affettività (vissuta sempre più a livello emotivo: sentire e sentirsi) è avvertita come la relazione calda con gli altri e con il mondo, ma al di fuori dell’orizzonte della ragione.
Una piena esperienza umana è ben più di un’emozione! Essa riguarda tutte le facoltà umane.
L’emozionalità oggi è la caratteristica antropologica emergente. Lo vediamo facendo esperienza del mondo virtuale che è una “protesi di potenziamento primariamente ed essenzialmente del livello sensitivo- immaginativo-emozionale dell’esperienza” (F. Botturi).
Se acquisiamo la consapevolezza della ricchezza dell’esperienza umana in quanto unità di affettività e di ragione non calcolante, e non ci lasciamo plasmare dalla realtà artificiale dell’ambiente che ci circonda, potremo imparare ad “abitare” la Rete, formando una comunità di uomini e donne che si rigenerano reciprocamente nella ricerca insopprimibile di un nuovo umanesimo.
Lucia Baldo