Discernimento della società italiana e responsabilità della Chiesa
Dalla relazione di Mauro Magatti
Migliorando le condizioni materiali di vita di milioni di persone, rafforzando la democrazia, ampliando gli spazi di libertà personale, l’umanesimo moderno ha, nel corso del tempo, segnato importanti successi. Successi che vanno riconosciuti e apprezzati.
Eppure, mai come oggi possiamo vedere che, volendo costruire tutto a misura dell’uomo, ci ritroviamo in un mondo dove sembra prevalere la logica della potenza, dell’efficienza, dell’impersonalità. Con una libertà che rischia di perdersi nella fiera delle possibilità.
Un mondo in cui c’è “troppo uomo” finisce per non avere più posto per l’essere umano.
È questo il paradosso che sollecita oggi la Chiesa italiana a essere in prima linea nella ricerca di un nuovo umanesimo. Senza saccenza, ma con cordialità verso tutti e passione per l’umanità, nello spirito del Concilio Vaticano II che si chiudeva proprio 50anni fa. Con le parole usate allora da Paolo VI (Allocuzione dell’ultima sessione pubblica 7/12/1965): “l’umanesimo laico e profano alla fine è apparso nella sua terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio”.
La religione del Dio che si è fatto Uomo si è incontrata con la religione dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo”.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti. Le spinte, mai sopite, verso un “umanesimo esclusivo” – viziato da quello che Papa Francesco chiama “eccesso antropocentrico” – premono oggi per un “individualismo radicalizzato”: la società che alcuni immaginano dovrebbe essere fatta di atomi isolati, perfettamente autonomi e funzionanti, organizzati da sistemi estesi e performanti. Atomi che si incontrano occasionalmente e provvisoriamente per un godimento reciproco, nell’illusione di colmare il vuoto di una esistenza ricca di beni materiali ma povera di senso. Un mondo ben poco desiderabile!
Si tratta di una prospettiva tanto problematica quanto irrealistica: nella sua piegatura soggettivistica e materialistica, la pur apprezzabile affermazione della libertà individuale finisce per costruire un orizzonte asfittico nel quale ci si sente soffocare. Si corre molto, forse si “gode” (nell’istante singolo) di più. Ma si è più soli e svuotati di significato.
A cavallo del XX secolo, con la globalizzazione, l’umanità ha fatto un salto in avanti aumentando la propria integrazione. Per far questo, abbiamo però dovuto costruire sistemi sempre più grandi ed efficienti.
Divenuto capace di scomporre e ridurre tutto in frammenti, l’uomo contemporaneo ha svelato segreti che si pensavano inaccessibili. E, soprattutto, ha enormemente accresciuto la sua capacità di manipolazione della realtà.
Ma lungo questa via – che, come dice Benedetto XVI, comporta il progressivo restringimento della ragione – si va verso una crescente a-strazione (‘astrarre’ etimologicamente significa ‘distaccare’,’separare’): tutto viene arbitrariamente separato da parte di un uomo che si sente di poter fare tutto. Dimenticando, anzi in qualche caso addirittura negando, la natura costitutivamente relazionale della realtà.
Con la pretesa di costruire un mondo piatto, privo di identità religiose e culturali, indifferente rispetto alle domande di senso e di appartenenza, semplice palcoscenico per le infinite ed equivalenti possibilità d’azione individuali. Non più solo l’uomo al posto di Dio, ma persino la negazione del posto di Dio.
Ma così, mentre l’esperienza, schiacciata sull’istante e privata del giudizio, è ridotta a mero soggettivismo, ci mettiamo nelle mani di sistemi astratti e impersonali. Se ci pensiamo bene, la nostra stessa vita rischia di diventare un’astrazione sempre più frammentata e separata da ciò che la circonda; persino dagli affetti più intimi. Per il modo in cui le nostre giornate sono organizzate, l’esistenza di ciascuno è costantemente a rischio di andare in frantumi o perdere, un po’ alla volta, di consistenza. Mentre fantastichiamo di poter fare tutto, finiamo per diventare incapaci di affezione e di azione…
In questo convegno non siamo chiamati a formulare una teoria del nuovo umanesimo.
Siamo qui piuttosto per incontrarci e parlarci, riconoscendo che è proprio dando nome a questa mancanza e a questo desiderio – che condividiamo con tutti gli esseri umani – che possiamo rompere la logica dell’astrazione che ci intrappola fra disumano e transumano.
È possibile vivere l’altezza del desiderio che ci caratterizza come esseri umani senza distruggere il mondo, la vita, noi stessi?
Etimologicamente ‘concretezza’ significa ‘cum crescere’,‘ crescere insieme’. Dunque, essa ha a che fare con il rimettere insieme – cioè, in dialogo – ciò che abbiamo imparato a separare. In una visione integrale e integrante della realtà. Ne va dell’umano che, come scrive R. Guardini, è “un concreto vivente”.
Concretezza è il contrario di ‘separazione’ (astrazione). Non si tratta infatti di rifiutare l’astrazione che costituisce uno degli aspetti precipui dell’umano nella sua conoscenza del reale.
Si tratta piuttosto di aprirci alla logica della concretezza, intesa come pratica di affezione (amore) aperta alla trascendenza. Così da riqualificare il rapporto tra la nostra persona e la realtà che ci circonda, ricomponendo ciò che è oggi frammentato (l’esistenza, la famiglia, la città, il lavoro, il senso) e recuperando la relazione tra ragione e affezione, tra particolare e universale.
Da qui derivano conseguenze molto “concrete”.
Un’economia astratta è un’economia puramente finanziaria, dimentica del fatto che il suo stesso futuro si fonda sul lavoro, l’educazione, lo sviluppo sociale.
Una politica astratta è quella che riduce i cittadini a elettori da cui estrarre un consenso, dimenticandosi di essere al servizio della comunità. Soprattutto di chi ne ha più bisogno.
Una città astratta è quella pensata per le automobili, i telefonini, gli uffici, e non per le persone, le famiglie, gli anziani, i bambini, i poveri. Dove non c’è spazio per la natura.
Nella misura in cui rimane aperta alla vita e alle sue istanze, la concretezza – al contrario del particolare chiuso, che è mortifero – è generativa. Nel senso che, sentendosene parte, la ama e la accompagna. Nella serena consapevolezza che la vita va oltre ciascuno di noi.
Una generatività che si esprime nei movimenti del desiderare, mettere al mondo (non solo in senso biologico), prendersi cura, lasciare andare. Viene da pensare che sia questa la via per riaprire l’orizzonte chiuso e disumanizzante in cui rischia di finire l’umanesimo esclusivo: un nuovo umanesimo della concretezza che, guardando a Gesù Cristo, torni a essere capace di quella postura relazionale, aperta, dinamica, affettiva, generativa, verso cui ci sospinge continuamente Papa Francesco con l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium e l’enciclica Laudato sìi.
Essere concreti significa non disgiungere i mezzi e le possibilità dalle obbligazioni e responsabilità verso la rete di rapporti in cui siamo immersi e di cui siamo fatti. Nella consapevolezza che ‘tutto è connesso’: l’essere umano con gli altri esseri viventi, la natura, il cosmo, Dio.
Significa saper rimanere attaccati alla realtà particolare senza perdere la prospettiva dell’universale. Perché la vita sta, in un certo senso, sempre dentro e fuori da se stessa: nel qui-e-ora e nell’apertura, nell’aspirazione, nell’attesa, nella domanda di giustizia insoddisfatta. Non c’è solo un agire concreto. Ci sono anche uno spirito e un intelletto ‘concreti’.
Essere concreti significa non dimenticare che, al di là degli apparati funzionali, si può crescere solo con le persone e per le persone. Tutto ciò che di grande gli esseri umani possono fare, finisce per diventare disumano se nega la fragilità della nostra comune esistenza. Una crescita che, ridotta a mero aumento quantitativo e a innovazione compulsiva, comporta la distruzione della famiglia, della comunità, della natura va considerata inadeguata.
La “via relazionale” è l’unica in grado di allargare la nostra ragione, al di là della tecnica e del calcolo economico. Di liberarci dalla prigione dell’io autoreferenziale, dalle catene dei nostri sistemi ad esso speculari e da esso rafforzati.
Restituendoci la capacità di affezionarci creativamente. E per questa via l’umanità che rischiamo di perdere.
Giunti a questo punto possiamo fare un passo più in là: non è forse proprio questa postura e capacità relazionale intrisa di affezione e aperta all’ulteriorità ciò che costituisce il tratto più tipico del nostro essere italiani? Non è forse proprio questo fondo relazionale aperto alla bellezza, all’infinito, all’eccedenza, all’universale, l’origine di ciò che gli stranieri ci invidiano? E non è forse proprio questa concretezza generativa il tratto che distingue l’Italia nel mondo? Il ‘Made in Italy’, il volontariato, le cento città, l’artigianato, l’arte, la cura e la carità, le tante forme di sussidiarietà ed economia civile, la famiglia sono le espressioni, già presenti nella realtà, di quell’”umanesimo della concretezza” che è in qualche modo una nostra prerogativa, una preziosa eredità che possiamo contribuire a rendere viva per riconsegnarla, arricchita, a chi viene dopo di noi…
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