Dalla comunicazione emotiva alla comunicazione razionale verso la comunicazione empatica
Elisa Manna
Si è tenuto domenica 19 febbraio 2017 a Bologna il secondo incontro del Ciclo “Abitare la terra. Abitare la città” promosso dalla Fraternità Francescana Frate Jacopa assieme alle Parrocchie di S. Maria Annunziata di Fossolo e di S. Rita. Dopo aver preso in considerazione il tema “Abitare la terra con fede: ottava opera di misericordia” con il Prof. Pierluigi Malavasi (Dir. ASA Università Catttolica di Brescia) a fine novembre 2016, l’attenzione è stata portata ora, con la riflessione della Dott.ssa Elisa Manna (Responsabile Centro Studi Caritas di Roma), all’abitare le relazioni in famiglia nella complessità del tempo presente. L’aver prospettato un percorso di cura della comunicazione in famiglia ha reso particolarmente interessante e partecipato l’incontro, di cui riportiamo qui i contenuti con l’andamento discorsivo proprio della trascrizione dalla viva voce.
Sono ben felice di essere qui con voi, per fare qualche riflessione con molta semplicità sul tema delle relazioni in famiglia. Premetto anche che mi farebbe molto piacere, forse probabilmente per deformazione professionale, che accanto alle mie riflessioni, ci fossero anche degli interventi da parte vostra perché è un modo per me per capire quello che veramente sentono le famiglie, le persone. È un feedback di cui vi sarei grata.
Questa mia breve riflessione ha un titolo: “Dalla comunicazione emotiva alla comunicazione razionale verso la comunicazione empatica”. Non sono soltanto belle parole che servono a costruire un titolo, significano qualcosa di molto concreto di cui parleremo alla fine della mia riflessione.
IN FAMIGLIA UNA COMUNICAZIONE AFFASCINANTE, NECESSARIA, DIFFICILE
Intanto partiamo dall’idea delle relazioni in famiglia. Concretamente, queste relazioni come sono oggi? Le relazioni sono purtroppo spesso relazioni estremamente conflittuali in cui si ha come la sensazione che non c’è proprio la benché minima possibilità di comunicare. In molte famiglie si getta la spugna, perché si ha la sensazione che “tanto è inutile”: ci abbiamo provato, non ci capiamo e quindi ognuno fa la sua vita.
Poi ci sono delle famiglie in cui si immagina che questa conflittualità faccia parte, in qualche modo, della normalità. Si litiga molto però si ritiene che questo sia normale. Attenzione, qui già si dovrebbe accendere una “lucetta”. Siamo in un’epoca in cui è considerato normale litigare in famiglia; ma è proprio normale? Sì, alziamo la voce, sì, bisticciamo, sì ogni tanto sembra che ci si voglia picchiare, però questo viene percepito da tutti o da alcuni componenti della famiglia come normale. Siamo talmente abituati a un tessuto di relazioni aggressive che lo consideriamo una cosa normale.
Poi ci sono le famiglie in cui si discute, ma con la sensazione di migliorare, di costruire qualcosa, quindi c’è un bel clima, costruttivo. In verità queste famiglie ci sono, ma non sono proprio tantissime.
E poi ci sono quelli fortunati che vivono come una squadra coesa, continuamente in interscambio, che si danno forza l’uno con l’altro: però questa è una situazione abbastanza privilegiata.
Facciamoci una domanda: da chi, da cosa dipende che ci siano queste relazioni così tanto conflittuali piuttosto che relazioni invece ottime, in cui c’è consenso, c’è collaborazione? Magari ci fosse una ricetta facile e si potesse dire: “dipende da questo”. Dipende da tante cose, dal vissuto di ognuno, dal fatto che per esempio il padre e la madre erano abituati a parlare in famiglia oppure non c’era comunicazione, e quindi con i loro figli si riportano quelle stesse modalità che hanno imparato quando erano piccoli. Dipende pure dalle tensioni della vita quotidiana, dal fatto che ci sono problemi da risolvere, questioni a cui trovare una soluzione, ad esempio il lavoro che non si trova.
Oggi viviamo tempi anche abbastanza faticosi e stressanti, per cui per esempio in una grande città come Roma la gente perde 2 ore, 3 ore in mezzo al traffico, e quando finalmente si arriva a casa si scatta a ogni minima cosa. Quando il clima è teso, è facile che poi scatti la tensione. I motivi di conflittualità sorgono facilmente e sorgono per tanti motivi, non c’è un motivo solo, c’è il carattere, ci sono le persone che sono meno aggressive e persone che sono più aggressive, ci sono persone che non riescono a parlare se non con un atteggiamento di prevaricazione rispetto all’altro.
Ci sono fattori di personalità; ci sono fattori esterni: condizionamenti sociali, problematiche sociali. Ci sono fattori anche di vissuti pregressi: se uno per esempio prendeva botte dal padre e dalla madre quando cresce e diventa genitore difficilmente avrà un atteggiamento di serenità con i figli, gli riuscirà perlomeno difficile, anche se ci si vuole impegnare.
LA QUESTIONE DEI CODICI COMUNICATIVI E DELLE INTENZIONI
Mi è piaciuto molto quello che ha detto l’amica Argia Passoni quando nell’introduzione parlava del fatto che la famiglia è garante dei valori affettivi della società, perché la questione dei rapporti in famiglia non inizia e finisce dentro la famiglia (già sarebbe tanto); la famiglia è un allenamento a come ci si rapporta agli altri, alla società, agli amici, ai conoscenti, a quelli che si incontrano per strada (se incontri un povero per strada lo puoi trattare male oppure magari regalargli un sorriso che non costa niente); è il proprio modo di percepire la politica, la polis, il rapporto con gli altri, che può essere un rapporto di prevaricazione, oppure di coesione tra le persone.
Quindi la questione delle relazioni familiari è centrale non solo per la famiglia. Allora se uno la vuole interpretare in maniera costruttiva (e questa è una delle cose che mi preme sottolineare principalmente oggi con voi), deve uscire un po’ dal ruolo. Che cosa significa? Significa che quando stiamo in famiglia viviamo molto dentro i nostri ruoli. Io chi sono? Se io sono il padre cercherò di adeguarmi a quello che nel mio immaginario deve essere un padre: spesso parlerò non tanto perché voglio veramente perseguire un fine (cioè voglio che mio figlio, mia figlia stiano realmente bene, capiscano realmente delle cose) ma parlerò per sentirmi con la coscienza a posto.
Ma quello che è veramente importante non è tanto che io genitore mi sono messa la coscienza a posto e che ho detto quello che secondo me andava detto. Ciò che io mi devo porre come genitore è pensare se quello che sto dicendo, e soprattutto come lo sto dicendo, sarà effettivamente efficace.
C’è una teoria in psicologia che afferma che, se si ripete continuamente ad una persona che è una brutta persona lui si adeguerà a quel ruolo che gli stai offrendo, se tu gli dici continuamente “perché tu sei una persona egoista, perché tu non sai fare niente”, lui rafforzerà quelle caratteristiche; se invece sottolinei, valorizzi gli aspetti positivi che ha, lui o lei si identificheranno con quelle caratteristiche positive.
Quando noi comunichiamo abbiamo bisogno di comunicare stando attenti all’efficacia di quello che facciamo, cioè la nostra attenzione non deve essere concentrata sulla nostra missione. Io ho la missione di genitore che ti deve dire questa cosa. L’attenzione deve essere concentrata sull’ottenimento del risultato. Io voglio ottenere che mio figlio studi di più. Bene “come posso fare per farlo studiare di più?”. Su questo mi devo focalizzare, devo ragionare, riflettere su come posso ottenere questo risultato, non basta ripetere continuamente un concetto. Il figlio potrebbe rispondere: ho capito, lo so, me lo hai detto cento volte (questa cosa quanto pesa nelle relazioni!). Invece la verità è che bisogna ottenere un risultato. Uno va a goal non perché dice voglio fare goal, ma perché usa la strategia. Per ottenere un risultato bisogna usare una strategia.
Noi crediamo che la famiglia sia il luogo della totale spontaneità: la nostra spontaneità non sempre è positiva nella costruzione delle relazioni. Per esempio: a noi donne dentro casa viene voglia di metterci coi bigodini in testa, le pantofole, la vestaglia più vecchia perché in quel momento stiamo comode così, ma alla lunga questa cosa potrebbe non essere proprio positiva. E lo stesso vale per il marito, per i figli. Il figlio che segue il suo impulso spontaneo e dice “papà io voglio fare questo, voglio fare quello, voglio uscire, voglio tornare alle tre di notte tutte le sere” non sta costruendo i presupposti per una comunicazione positiva, sta costruendo i presupposti per un conflitto perenne.
C’è una parola cui fare attenzione: la parola è “mediazione”. La verità è che la famiglia è sì il luogo delle relazioni spontanee, ma è anche il luogo della mediazione perché la verità è che dentro la famiglia si confrontano un uomo, una donna, un giovane, una persona di una certa età, cioè persone che si possono pure voler bene, ma che sono diversissime. Che ci può stare in comune tra una donna di 60 anni e una di 25? Sono persone che hanno oggettivamente facoltà, capacità, carismi, competenze, esperienze proprio diverse, quindi è vero che bisogna essere spontanei, però bisogna metterci un pizzichino di mediazione, di intelligenza.
Mi piace sempre ripetere questo fatto: sì Dio è estrema bontà però è anche estrema intelligenza. La bontà da sola non ce la fa. Per quanto uno possa essere buono, se è solo buono non riesce nel suo intento, ha bisogno del sostegno forte dell’intelligenza. Che vuol dire intelligenza? Che uno deve essere uno studioso? No, che ci mette quell’attenzione a uscire da se stesso e a capire l’altro. In questi casi diventano importantissime delle figure, che alcune famiglie hanno la fortuna di avere e altre no. Queste persone sono i “mediatori”. Torna il termine mediazione. Sono i mediatori culturali. Chi sono i mediatori culturali? Sono quelle persone che per loro istinto, per loro natura, escono facilmente da se stessi e riescono a mediare tra gli altri componenti della famiglia: “guarda che quello voleva dire… ma guarda che vi siete capiti male… guarda che state dicendo la stessa cosa”.
Ecco un carattere, una natura, una personalità che in alcune famiglie c’è, in altre famiglie non c’è, però ci si può esercitare, si può provare a diventare così. Può essere una bella sfida dire a se stessi: “Lo voglio fare io il mediatore in famiglia, voglio diventare io il mediatore di questa famiglia, cioè loro parlano linguaggi che non dialogano tra loro, la voglio fare io questa traduzione”. È come essere un interprete, uno parla italiano e l’altro parla inglese e un terzo vuol fare l’interprete. Il mediatore è uno che riesce a mediare tra due linguaggi che sono completamente diversi.
Oggi è frequente che tra una persona giovane di 20 anni e una persona che magari ne ha 60 ci voglia proprio l’interprete perché i linguaggi sono talmente tanto diversi: uno vive solo con lo smartphone in mano, l’altro non sa neanche usare lo smartphone. La distanza diventa proprio abissale, ci vuole qualcuno che riesca a mediare.
Però per fare questo esercizio di mediazione è necessario un processo che tecnicamente noi chiameremo delocalizzazione. Che cos’è la delocalizzazione? È quando uno esce da sé, dalla propria natura, dalla propria posizione, dal proprio ruolo, direi dalla propria vita. Esce da sé e guarda le cose dall’esterno, le guarda come fosse un osservatore esterno.
Qui comincia la prima parte del titolo della mia breve riflessione: passare da una comunicazione emotiva a una comunicazione più razionale, per essere razionali. Qualcuno potrebbe chiedersi come si fa a non vivere la passionalità di certi rapporti in famiglia, a non farsi scaldare troppo dalle proprie emozioni.
Guardiamo le cose un po’ dall’esterno, uscendo da noi, dalla nostra posizione, dal nostro ruolo. Il vero male, il vero nemico è Narciso, il Narciso che abita il padre, il Narciso che abita la madre, il Narciso che abita il figlio o la figlia. Il Narciso che è il grande nemico della serenità e della pace in famiglia e fuori dalla famiglia, questo Io così ingombrante per cui tutto ruota intorno a me, al mio benessere, al fatto che io sia soddisfatto, al fatto che le cose vadano come voglio. Siamo così sicuri delle nostre idee che non ci mettiamo neanche in gioco. È difficile farlo, perché tutti siamo molto affezionati alle nostre idee, siamo affezionati a quello che crediamo importante.
Facciamo un esempio: la fede. Quante volte noi abbiamo fede e i nostri figli non ce l’hanno. Spesso noi partiamo da un contrasto: “ma perché non vai a Messa, ma perché non vai in parrocchia, ma perché non vai all’oratorio” e quelli ci guardano come se parlassimo arabo. Allora anche su questo facciamo una riflessione: proviamo a costruire un ponte con intelligenza, cioè proviamo a capire che cos’è che può unire il loro mondo con il nostro e non semplicemente indirizzarli ad andare a Messa. Per una persona che è non credente, sentirsi ripetere: “perché non vai a Messa” è una cosa che non ha senso, serve solo a produrre una reazione uguale e contraria, di resistenza, mentre può essere utile cercare di invogliare a certi discorsi di maggiore profondità rispetto alla propria vita, rispetto al proprio modo di vedere le cose, rispetto alla curiosità anche di farsi certe domande.
Si possono costruire veramente dei ponti, che possono passare anche banalmente ad es. da film visti insieme. Certo le occasioni di comunione, di condivisione tra le generazioni oggi non sono moltissime. Però occorre cercare di utilizzare queste occasioni, quelle poche che ci sono, per trovare degli argomenti comuni, (argomenti che riguardino anche “come intendi costruire la tua vita, come intendi porti rispetto al futuro”) sapendo che loro hanno già le loro ansie. I figli hanno già tante ansie, perché non sono stupidi, sanno benissimo che ci sono molti problemi e che quindi per loro costruire una vita appagante, una vita serena sarà comunque complicato.
Quindi può essere per noi estremamente difficile costruire questo ponte, però al tempo stesso per favorire la comunicazione, per avere una comunicazione dentro la famiglia, non c’è tanta scelta. Li dobbiamo trovare per forza questi ponti perché altrimenti si alzano i muri: “Tu hai il tuo mondo, tu sei nel tuo mondo, sei di 50 anni fa, all’epoca tua non esisteva neanche il telefonino; voi non avete avuto queste difficoltà, voi avrete la pensione noi non ce l’avremo”.
I giovani oggi di questo parlano, il loro assillo è questo, quindi è necessario impegnarsi per trovare dei luoghi, dei modi per comunicare veramente dei concetti, per comunicare delle esperienze. Scambiare esperienze non è facile, però credo che ci si possa provare in tanti modi, magari raccontando parte della propria giovinezza, parte delle proprie difficoltà, raccontando loro le nostre esperienze di difficoltà, per dire che poi le cose si aggiustano, si possono aggiustare, si possono trovare dei percorsi.
Una cosa da non fare, che invece spesso in famiglia si fa, è il contrattualismo: “se tu fai questo, allora io…”. Si comincia da quando sono piccoli: “se tu fai i compiti io poi dopo ti faccio vedere… io ti faccio giocare 4 ore con la playstation”. È un errore grandissimo! Così si abitua il bambino a vivere “relazioni commerciali”, non relazioni affettive.
LA FAMIGLIA È UN LUOGO DI COSTRUZIONE Tutto questo accade anche perché noi stessi vogliamo ritagliarci degli spazi di tempo tutti nostri. La famiglia non può crescere su una giustapposizione di spazi: “io mi prendo i miei spazi, tu ti prendi i tuoi”. Anche per esempio l’abitudine di vedere la televisione ognuno col suo televisore, ognuno nella sua stanza, come perfetti sconosciuti. Certo non abbiamo tutti lo stesso gusto, è normale, la sera uno vuol vedere lo show, un altro lo considera una stupidaggine, ecc. Non è facile, ma si può mediare. In questo la ricetta non ce l’ha nessuno perché stiamo parlando della coabitazione affettiva, della condivisione di uno spazio tra persone che, ripeto, sono necessariamente diverse.
Però se una famiglia vuole crescere, se una famiglia vuole reggere l’impatto degli anni che passano… Perché tante famiglie si sfasciano? Perché si vive questa dimensione della totale spontaneità, cioè non si capisce che la famiglia è un luogo di costruzione. Si potrebbe dire: ma cosa bisogna costruire? Non posso essere spontaneo neanche in famiglia? La spontaneità assoluta va bene per i primi anni in cui si sta insieme, poi entra molto in ballo l’intelligenza, la razionalità, la voglia di costruire, la voglia di conservare un rapporto affettivo. Se si vuole conservare un rapporto con un figlio magari bisogna essere in grado di far finta di non aver sentito quella sua battuta cretina e di andare avanti e mantenere il legame, mantenere il dialogo aperto.
La mamma o il papà intelligente lì per lì non sta a puntualizzare, dice facciamo finta di niente, però il figlio lo mantengo in dialogo. I nostri sguardi ancora si incontrano. Se gli sguardi si incontrano, il rapporto viene ripreso, magari quel giorno no, il giorno dopo si ritrova un meccanismo di sintonia. Ma se ognuno è preda della sua emotività non si costruisce.
Perché superare la comunicazione emotiva?
Perché la comunicazione attraverso l’emotività porta soltanto al conflitto, alla prevaricazione, alla rabbia, alla delusione, al “tu mi hai trattato male”. È impossibile essere così bravi da non trattare mai male l’altro. Lo facciamo magari non volendo, ma inevitabilmente deludiamo l’altro, se non altro perché un giorno siamo stanchi, siamo distratti, abbiamo mal di testa. Non siamo superman o superwoman sempre perfetti, abbiamo diecimila fragilità, ognuno di noi ha una qualche forma di fragilità, di stanchezza, di noia, di fastidio, vorrebbe stare da un’altra parte.
Quando parliamo con l’altro inevitabilmente possiamo essere deludenti, delusivi e dare all’altro la sensazione che non siamo sintonici con lui, ma se ognuno reagisce sulla base di questa dimensione emotiva il rapporto va a rompersi perché si sedimenta delusione su delusione, delusione porta a conflitto, conflitto porta a delusione e diventa una torta a strati negativi. Se invece uno ogni tanto lascia correre, non obbedisce al Narciso che è in sé…
Narciso mi dice guarda che quello ti ha trattato male, tuo figlio non ti ha risposto bene, e non gliela devi far passare liscia, allora pure io lancio la mia freccia.
Così ci si diventa antipatici l’uno con l’altro, e se si diventa antipatici è la fine.
Arriviamo al terzo concetto del mio titolo: empatica, che è il contrario di antipatico. È necessario arrivare attraverso la ragione a una comunicazione empatica, cioè riuscire a metterci nei panni dell’altro, riuscire a capire che nostro figlio o nostra figlia, che noi vorremmo che stessero a casa ad aiutarci a fare il tal lavoro, magari quel giorno hanno bisogno di uscire per fatti loro. E loro riescono a capire che noi siamo troppo stanchi quel giorno per preparare la cena per gli amici, che non ci devono portare gli amici a casa? Oppure, ad aiutarli a fare i compiti per qualche prova particolare che gli sta a cuore?
È necessario ritrovare il gusto della sintonia, che non si trova a parole. Si trova facendo qualcosa insieme, cucinando, zappettando, facendo non so una potatura a un alberello che abbiamo in giardino, guardando una partita. Così ricostruiamo il tessuto, ricostruiamo un margine di affinità, ricostruiamo un dialogo, che ci possa portare a una conoscenza più approfondita, a una conoscenza più vera dell’altro, del figlio, della figlia. Sto parlando sempre di padre, madre, figli e figlie, ci stiamo dimenticando dei nonni, ci stiamo dimenticando della figura importantissima dei nonni.
Gli anziani che possono dare tanto, che spesso viviamo invece soprattutto come una fatica, perché non ci sentono più tanto, perché certe volte si scordano le cose, perché magari devo andare a comprare la medicina… Ma sapete che, per esempio, in Caritas capita tanta gente che vive da sola, abbandonata, in realtà non è sola, avrebbe la famiglia, ma la famiglia li ha un po’ mollati. Io la considero davvero una cosa pesantissima dei nostri giorni, è veramente il sintomo di una disgregazione delle relazioni affettive fortissima.
UNA NUOVA PRIMAVERA: RICONOSCERSI FRATELLI
Proviamo a immaginare una primavera nuova della famiglia, a un ritrovarsi al di là dei propri ruoli, un ritrovarsi fratelli, un ritrovarsi esseri umani, persone, che hanno i loro problemi, che hanno le loro difficoltà, hanno tutto quello che un essere umano può avere, ma che però vogliono ricostruire un rapporto affettivo, provare a rilanciare la dimensione affettiva in famiglia.
Vorrei concludere soffermandomi su due o tre concetti. Il primo è lasciare spazio allo stupore, alla sorpresa. Io magari immaginavo che mio figlio facesse l’ingegnere, ho fatto di tutto per farlo laureare, l’ho stimolato e lui è arrivato alla laurea in ingegneria. Poi un giorno si sveglia, viene da me e mi dice: “io l’ingegnere non lo voglio fare perché mi sono accorto che è troppo complicato, oppure non me la sento”. Noi che reazione avremmo di fronte a una situazione di questo genere? Probabilmente ci arrabbieremmo, saremmo delusissimi, saremmo estremamente frustrati, però proviamo a lasciare spazio alla sorpresa.
Che ne sappiamo? Magari lui o lei hanno capito meglio di noi, che questa laurea in ingegneria in effetti non gli apre grandi porte e magari con i suoi amici stanno per prendere un franchising per una gelateria e, facendo quella scelta, sono più felici che non facendo l’ingegnere. Certo non è facile, dopo un percorso di studio impegnativo e tanti sacrifici, però al tempo stesso può essere un’apertura a una nuova vita, in cui c’è più soddisfazione, c’è più serenità. Magari quel figlio, quella figlia non ce la fa a reggere psicologicamente lo stress di quella professione.
Chiediamocelo, può essere che quello che da bambino aveva scelto di fare quegli studi, quella professione, perché era il suo sogno, nel corso degli anni abbia maturato un’altra consapevolezza. Può essere che abbia capito che non ce la può fare, ma non perché sia debole o perché valga di meno, semplicemente perché non è quello che gli interessa nella vita. Allora lasciamo aperto lo spazio alla sorpresa.
Secondo concetto. Nelle famiglie si cambia: i mariti, le mogli cambiano, così come cambiano i figli. Cambia il modo di essere. Partiamo dall’idea che la vita di una famiglia è fatta di tempo e quindi di cambiamenti. È inutile, per esempio nelle famiglie dire: “Ma tu eri”… Era un’altra epoca, era un’altra era geologica e quindi l’intelligenza (guardate che l’affetto se non è intelligente non ce la fa) consiste nel capire che c’è il tempo e che c’è il cambiamento. “Tu guidavi come un bolide adesso hai paura e guidi come una formichina a 40 all’ora”: è cambiato il tempo, prima quello aveva 30 anni e ora ne ha 60, ci vede di meno e quindi guida in maniera più fragile.
Questo rimpiangere continuamente il mito fondativo…! Tutti rimpiangiamo la nostra giovinezza, quando eravamo forti, gagliardi, ecc. Adesso siamo un uomo e una donna, siamo due persone che si costruiscono giorno per giorno. Se io prima avevo 10 decimi e adesso ho 5 decimi, è chiaro che mi comporterò in un modo diverso, non perché sono cattivo o perché ti voglio meno bene, ma perché ho 5 decimi… Si vive tutta la vita con il rimpianto, anche un po’ infantile, dell’epoca in cui si era fidanzati, allo stato nascente, innamoratissimi!
E poi esiste la vita, esistono le trasformazioni, i cambiamenti, esiste la maturazione, le responsabilità,le stanchezze, le esperienze fatte. E questo in una vita normale, poi se capita qualche incidente di percorso, qualche malattia seria, allora le cose si fanno pure più complicate. C’è il cambiamento, però abituiamoci a pensare: sei cambiato, sei cambiata, anche rispetto ai figli, anche rispetto ai nostri genitori, i famosi nonni, però forse in meglio.
Proviamo a inserire come un tassello: forse in meglio. Questo cambiamento nel tempo non è detto che necessariamente sia un cambiamento a sottrarre, forse è un cambiamento ad aggiungere e il nonno e la nonna che adesso ci sembrano un po’ svaniti ecc., forse hanno una saggezza di vita, di capacità di comprensione di quello che è l’esistenza che magari prima non avevano e forse ci possono dare tanto da questo punto di vista.
Un ultimo concetto. Lo chiamerei: dal bruco alla farfalla. Capire, perdonare, evolvere. Quante coppie vanno a carte quarantotto oggi perché non sanno capire e perdonare, con un sacco di disastri. Capire e perdonare che vuol dire? Una volta, 20 anni fa, 30 anni fa, non l’avrei mai detta una frase del genere. Capire, perdonare, ma allora la famiglia che cos’è? Una cosa in cui si viene continuamente delusi e però ci si deve perdonare?
Mi sembrava un concetto molto impoverente. No, capire e perdonare significa: capisco che tu nel cambiamento della tua vita sei stato cose diverse, può darsi che in quella fase tu sia stato distante da me, è possibile che tu sia stato diverso da come io mi immaginavo, ma si può evolvere, si può andare avanti, si può crescere insieme, perché la costruzione di una famiglia è una cosa molto importante, ma non a chiacchiere o perché ce lo ripetono gli anziani. È molto importante perché la vita è lunga.
Di conseguenza una famiglia può essere una risorsa straordinaria se ha un’intensità e una verità di affetti, anche se tu ad es. sarai sempre disordinato e non riuscirai mai a non esserlo. Occorre sminuire i difetti degli altri, anziché arrabbiarsi, irritarsi, prendersela tantissimo per quel difetto, metterlo in conto perché fa parte della natura di quella persona.
Allora, quando parlo di comunicazione empatica che cosa intendo? La comunicazione empatica è di più della comunicazione intelligente. Fin’ora io ho parlato del concetto di intelligenza; bisogna superare la comunicazione emotiva e andare verso una comunicazione di testa, intelligente. L’empatia è un passaggio più avanti, dove non c’è neanche più bisogno di quello sforzo di intelligenza. È maturare un qualcosa di più profondo, dove veramente le persone si conoscono, si capiscono e si amano con una consapevolezza piena di tutti i difetti dell’altro, che nessuno può eliminare. Ci sono quelli che ti vogliono cambiare a tutti i costi dentro la famiglia. Terribile! Noi possiamo fare delle mediazioni, noi ci possiamo aspettare delle mediazioni. Il disordinato, se proprio ce la mette tutta, può essere un po’ meno disordinato, ma sempre disordinato è. Non gli puoi cambiare la testa, la natura, la personalità, e, se ci si vuole veramente bene, non bisogna volerlo cambiare.
Bisogna amare la persona con i suoi difetti, con la sua natura. Naturalmente non è che ognuno rimanga fermo, però non aspettiamoci di cambiare una persona completamente e che questa persona cambi per amore nostro.
Concludo con questo invito a cercare di andare verso una famiglia empatica. Poniamocelo come un orizzonte, non una cosa che può succedere domani, o dopodomani; un orizzonte azzurro in fondo, luminoso, molto lontano. Immaginiamoci una famiglia in cui non ci sarà neanche bisogno di parlare tanto. A volte ci sono troppe parole, quando basterebbe uno sguardo.
Questa è la comunicazione empatica, quando tu senti l’altro come se lo toccassi e senti il suo stato d’animo e dici: “io avrei bisogno di fare questa cosa, ma non importa, la posso rimandare”.
Vi vorrei lasciare con questo augurio di guardare a una comunicazione empatica.
Elisa Manna
Resp. Centro Studi Caritas Roma