Scuola di Pace 20-22 aprile 2012
Mi è stato chiesto di parlarvi su “diritti umani, sostenibilità e bene comune”. Cercherò di mettere in evidenza che, per poter garantire la sostenibilità dell’ecosistema, è necessario rivedere l’antropologia che sta alla base del nostro modo di rapportarci con la natura e di capire i diritti umani e il bene comune. Di fatto, come afferma Benedetto XVI, nel mondo globalizzato,“la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica” (CV75).
1. La sfida etica della sostenibilità
La dignità umana porta con sé il diritto a un ambiente sano e a un bene comune rispettoso del bene di ogni singola persona. Non si può ridurre il bene comune a bene totale, macroeconomico, utilitarista, confondendo la crescita del prodotto lordo con lo sviluppo integrale di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. La concezione personalista del bene comune implica che i diritti umani non siano ridotti a barriere difensive, che ci allontanano dagli altri e dal creato; saranno piuttosto mezzi per potenziare l’intrinseca socialità umana nel suo vivere in armonia con Dio, con gli altri e con la natura. “Porre il bene dell’essere umano al centro dell’attenzione per l’ambiente è, in realtà, la maniera più sicura per salvaguardare la creazione”.
1.1. La presa di coscienza del problema della sostenibilità
Il Rapporto sui limiti dello sviluppo (Limits to Growth), pubblicato nel 1972, ebbe un influsso importante nella presa di coscienza sul problema della sostenibilità. In linea con alcune delle predizioni fatte da Thomas Malthus alla fine del Settecento, questo documento affermava che, se il modello di crescita dovesse continuare inalterato, in meno di cent’anni l’ecosistema sarebbe incapace di assorbire i rifiuti e di sostenere la continua domanda di risorse. Venti anni dopo, il documento Beyond the limits (1992) affermava che i limiti di cui parlava il documento del 1972 erano già superati, quindi risultava urgente un cambiamento sociale e di mentalità. Alcuni studi posteriori su questi informi, nel 2004 e nel 2008, affermarono che, a partire degli anni ’80, l’area biologicamente produttiva di mare e di terra non è più in grado né di garantire la necessaria rigenerazione delle risorse né di assorbire i rifiuti.
Anche se fortemente criticato da molti autori, il rapporto del 1972 ha avuto un influsso non indifferente. Di fatto, sono state vendute più di trenta milioni di copie del libro ed è stato tradotto in trenta lingue. Oggi continua a essere studiato e valorizzato da quelli che non accettano acriticamente la necessità di una corsa sfrenata all’aumento del prodotto lordo. Di fatto, oggi esiste una maggiore sensibilità su problemi ambientali che, in qualche modo, rientrerebbero in alcune delle previsioni fatte nel 1972, ad esempio l’assottigliamento dello strato di ozono stratosferico, che funge da filtro per le radiazioni ultraviolette, l’effetto serra, l’aumento delle sostanze tossiche nelle acque, la diminuzione della biodiversità e delle riserve di pesce, la deforestazione. La crescita senza fine del prodotto lordo non garantisce il benessere, mentre mette a rischio l’intero ecosistema.
1.2. Il Magistero della Chiesa e la sfida etica della sostenibilità
Abbiamo visto che la consapevolezza sul problema della sostenibilità si fa più chiara agli inizi degli anni settanta. Ai tempi del Concilio Vaticano II (1962-1965) non era ancora percepita come una sfida etica urgente. Questo spiega la mancanza di riferimenti diretti a essa nei testi conciliari. La Costituzione pastorale Gaudium et spes mostra ancora un grande ottimismo sulla capacità umana di venire incontro ai bisogni materiali di una popolazione in continua crescita. Comunque, già nel 1971, un anno prima del famoso rapporto sopra indicato, il papa Paolo VI afferma: “Un’altra trasformazione si avverte, conseguenza tanto drammatica quanto inattesa dell’attività umana. L’uomo ne prende coscienza bruscamente: attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, egli rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione. Non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più”. Da allora si sono succeduti i pronunciamenti del Magistero, che legano la gravità della crisi ecologica alla profondità della crisi morale. Siamo davanti ad un problema etico che esige rivedere la nostra concezione antropologica e il nostro stile di vita.
Infatti, “se manca il senso del valore della persona e della vita umana, ci si disinteressa degli altri e della terra”. L’ecologia fisica è inseparabile dall’ecologia umana. Giovanni Paolo II fa un appello alla responsabilità di tutti. Non possiamo più continuare con “la corsa sfrenata alla crescita economica” che porta ad abusare impunemente delle risorse naturali come se fossero inesauribili. Questo modello di sviluppo degrada la qualità di vita attuale e futura. Infatti, “l’irragionevole distruzione della natura” è un peccato sociale che grida al cielo. Abbiamo bisogno di “interventi appropriati e sistemi di protezione ideati innanzitutto nell’ottica del bene comune” in modo tale che sia possibile “provvedere ai bisogni fondamentali delle generazioni presenti e future”. Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in Veritate evidenzia la relazione che esiste tra ambiente naturale e ambiente sociale, ecologia fisica ed ecologia umana, difesa del biosistema e difesa della vita. “Il libro della natura è uno e indivisibile […]. I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona […]. Le modalità con cui l’uomo tratta l’ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e, viceversa” (51).
1.3. Il sogno della felicità attraverso il consumo programmato
La modernità ha incoraggiato la guerra di interessi, perché considera che questo modo di procedere sarebbe connaturale all’essere umano e, inoltre, necessario per stimolare la crescita economica. Ognuno cerca di sottomettere tutto al proprio capriccio, senza preoccuparsi delle conseguenze che possano derivare per la società e per l’ecosistema. L’etica del risparmio è stata sostituita dall’imperativo “morale” del consumismo. Spesso si compra per il divertimento, non per venire incontro a una reale necessità. Si direbbe che ha trionfato l’homo faber, quello che, secondo Marcuse, tutto subordina alla tecnologia, al guadagno economico e al consumismo. L’idolatria del mercato ha slegato la razionalità economica da qualunque considerazione etica. Tutto quanto la tecnologia permette di fare, si fa e basta. Non c’è tempo da perdere con questioni etiche o eventuali conseguenze ecologiche. Qualunque riferimento ad altre dimensioni, come la solidarietà o la comunione, è considerato un freno al progresso, un ritorno all’inefficacia dei tempi passati. Già nell’incipiente società mercantile del secolo XVIII, Pocock aveva identificato l’ideologia Court, che faceva a meno della virtù e metteva al primo posto l’auto-soddisfazione. Le passioni e gli interessi di ognuno erano considerate le forze decisive per la costruzione della società, mentre la moralità era relegata nell’ambito privato. Incomincia così un cambiamento di valori sociali che porterà a considerare come naturale la ricerca spudorata del proprio interesse, del guadagno senza limiti e del consumismo.
Questa sarebbe la via più rapida per raggiungere la felicità personale e il progresso della società. Il macchinario capitalista ha bisogno di consumatori voraci che garantiscano il continuo incremento dei benefici imprenditoriali. Per ottenere ciò, si creano nuove necessità e si presenta come virtù sociale quello che prima era visto come uno spreco da evitare. Lo “sperperatore” irrefrenabile è ora presentato come un cittadino esemplare che spinge la buona marcia dell’economia (“vizi privati, pubbliche virtù”). L’etica del risparmio è stata sostituita dall’imperativo “morale” del consumismo. Si lasciano da parte i valori della moderazione e della sobrietà, perché tutto si presenta come necessità basilare, impellente, imprescindibile. Nel 1927, Cowdrick parlava del nuovo “vangelo economico del consumo” che induce l’insoddisfazione come base dello sviluppo. Oggi si presenta come virtù sociale ciò che prima era disprezzato come spreco. “Comprare non è spendere, è condividere”, proclamava il governo regionale dell’Andalusia, in Spagna, appena scoppiata l’attuale crisi economica. Un esempio tipico è stato la trasformazione della Coca-cola, che da essere un semplice sciroppo medicinale è diventata una bibita comune, perché è più facile venderla come rimedio per la sete invece di attendere che qualcuno abbia emicranie. Nel 1961, il gruppo farmaceutico Merck regalò cinquantamila volumi di un libro che aiutava a identificare la depressione. Ottenne così un enorme incremento delle vendite di amitriptyline, un anti depressivo appena uscito.
1.4. L’obsolescenza pianificata
Con molteplici prodotti e messaggi pubblicitari, oggi si offre una felicità immediata, ininterrotta, mondana. Secondo Bauman, la nostra sarebbe la prima società nella storia umana che offre, qui ed ora, una felicità terrena, in ogni momento, senza fine. Per poter creare quest’illusione, si ricorre alla pubblicità, all’obsolescenza programmata e al credito facile. I prodotti sono presentati nel modo più accattivante possibile, puntando molto sull’apparenza e sul design. Inoltre, devono scadere o smettere di funzionare in poco tempo, affinché la persona continui a lasciarsi illudere da nuovi richiami. Allo stesso tempo, si facilita il credito immediato, lo spreco e quindi l’indebitamento cronico. L’obsolescenza pianificata alimenta questa sete ansiosa di consumismo e promuove una crescita che è fine a se stessa. L’obiettivo direttamente cercato non è la soddisfazione delle necessità reali della gente, bensì il crescere per crescere, indefinitamente. Accecati dalla cupidigia, non si vuol vedere che questo modo di procedere ci sta portando inesorabilmente al disastro, giacché le risorse naturali sono limitate. Nel 1840, Alexis di Tocqueville si stupiva del fatto che in America i prodotti fossero pianificati affinché non durassero a lungo. Questa tendenza crebbe a partire dagli anni venti. Nel 1928, si affermava già apertamente che “un articolo che non scade presto è una tragedia per il commercio”.
I paesi del blocco comunista, tuttavia, avendo un’economia statalizzata e poco efficiente, continuarono a fabbricare prodotti che avrebbero dovuto garantire una lunga durata. In Occidente, si approfittò della crisi del 1929 e del successo della produzione di massa per imporre l’obsolescenza su vasta scala. Ad esempio, il cartello Phoebus, costituito nel 1924, decise subito di costringere tutti i fabbricanti a ridurre del 60 percento la durata delle lampadine. Nel 1940, i creatori della fibra di nailon furono obbligati a farla più fragile, perché, come intitolò una rivista, la sua lunga durata sarebbe più dannosa per l’economia che un attacco di marziani. Più recentemente, nel 2004, Apple fu accusato di aver ridotto volutamente la durata delle batterie dell’iPod e di non facilitare la loro sostituzione. Adesso, molti prodotti elettronici smettono di funzionare semplicemente perché hanno completato il numero di usi previsto dal fabbricante. Questo colossale “usa e getta” sta trasformando il nostro mondo in un letamaio, soprattutto nei paesi più poveri, dove vanno a finire molti dei prodotti scartati. Diceva Gandhi che “il mondo contiene risorse a sufficienza per soddisfare i bisogni di ciascuno, ma non abbastanza per la cupidigia di tutti”. L’obsolescenza pianificata forma già parte del nostro modo di valutare noi stessi e la realtà. Si creano stelle dello spettacolo perché abbiano un successo tanto clamoroso quanto fugace.
Attraverso i Media, si impongono temi di attualità, gusti e mode, tutto di breve durata. Perfino l’essere umano è trattato come un prodotto eliminabile (aborto, eutanasia), mentre nelle reti sociali (Facebook, Twitter, etc.) migliaia di “amici” sorgono e spariscono. Ci sono perfino coppie che si promettono amore eterno davanti all’altare dopo aver già lasciato tutto pronto per poter ottenere facilmente l’annullamento del matrimonio se le cose dovessero andare male. Ce ne sono pure tanti altri esempi che puntano in altra direzione. Ad esempio, una coppia americana, che compiva sessantacinque anni di matrimonio, è stata intervistata da un giornalista che loro chiese quale era il segreto di una relazione così lunga. Essi risposero: all’epoca in cui noi siamo stati educati, quando le cose si guastavano, erano riparate…
2. Alle radici del problema ecologico
La modernità riduce la natura a pura materia neutra, cioè a un insieme di oggetti che l’uomo deve modellare a suo capriccio, perché non riconosce loro entità né senso intrinseco. Il liberalismo non ha alcun rispetto per il creato e quindi lo utilizza senza scrupoli, in funzione degli interessi del momento. In modo simile, Marx afferma che la natura ha bisogno del lavoro umano per poter raggiungere la propria finalità, cioè, per essere umanizzata. Non sembrano esserci dei limiti al dominio dispotico e capriccioso dell’uomo sul creato. Questa mentalità sta cambiando negli ultimi decenni, di fronte all’evidenza di un grave deterioramento ambientale, ma gli interessi economici continuano a prevalere sulla protezione dell’ecosistema. All’estremo contrario, si situano certe tendenze neo-pagane o panteiste che tendono a “considerare la natura un tabù intoccabile” (VS 48).
2.1. Visione antropologica erronea
Oggi prevale una concezione antropologica negativa che contraddice la visione cristiana dell’uomo. Per poter giustificare l’avidità predatrice dei più sagaci, si alimenta una profonda sfiducia nell’essere umano, che sarebbe sempre mosso dall’istinto egoista di autoconservazione. “L’uomo è un lupo per l’uomo” ripetono quelli che considerano inevitabile la competitività più spietata. Tanto il pessimismo come l’esagerato ottimismo antropologico finiscono per isolare l’uomo dagli altri e dal proprio ambiente vitale. L’individuo non è rispettato né rispetta l’altro, non si sente incoraggiato all’altruismo né ad aver cura del creato. In una dialettica di perenne conflitto, si ricorre alla morte affinché avanzi la vita, alla guerra per assicurarsi la pace (“si vis pacem para bellum”), all’omogeneizzazione per liberarsi di un’alterità scomoda.
L’eliminazione dell’altro sarebbe una potatura necessaria affinché l’albero sociale si rivitalizzi e cresca. È stata privilegiata pure una visione conflittuale della natura. In essa ci sarebbe una lotta implacabile a tutti i livelli: tra le specie animali (Darwin), tra i micro organismi (Pasteur), ecc. Conseguentemente, la medicina ha abbandonato i trattamenti olistici per favorire la lotta contro agenti nocivi ben definiti, ricorrendo a puntuali vaccinazioni e antibiotici mentre, al contempo, un’esagerata specializzazione medica tende a perdere di vista la complessità di fattori che provocano la malattia, innanzitutto quelli di tipo relazionale. Volendo curare l’organo, si dimentica il malato.
2.2. La sostenibilità come espressione del Bene comune
La concezione antropologica negativa e conflittuale ha portato a dare la priorità al capitale sulla persona. Il bene comune è stato ridotto a bene totale, cioè a una semplice somma utilitarista, senza preoccuparsi delle vittime. Il ben-essere è ridotto al ben-avere. In questo modo, l’ansia irrefrenabile per aumentare la ricchezza macroeconomica (bene totale) ha provocato insoddisfazione, ha rotto i legami sociali e ha danneggiato l’ecosistema. Il bene comune, invece, è frutto di una visione positiva dell’essere umano. Si tratta di un principio etico che non si limita ad aumentare il prodotto lordo, ma cerca lo sviluppo integrale di ogni essere umano. Il Concilio Vaticano II lo definisce come “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente” L’efficienza nel produrre beni economici non è lo scopo principale della società.
Infatti,“la condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l’autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore”(CV 9). Pertanto, il bene comune è la finalità che orienta e dà senso allo sviluppo. In questa prospettiva, ognuno considera il prossimo e il creato come parte di se stesso e, pertanto, si sente responsabile del prossimo presente e futuro. La prospettiva dovrà essere universale, abbracciando tutti gli uomini e tutto il creato. Non ci sarà progresso integrale senza le relazioni gratuite, fraterne. Sarà pure aperto alla dimensione escatologica, che relativizza il tempo presente e lo apre a un futuro di speranza e pienezza.
2.3. Sostenibilità e diritti umani nel contesto del bene comune
I diritti ambientali formano parte della terza generazione dei diritti umani (=DU) e si basano su una solidarietà che va oltre il concetto chiuso di sovranità nazionale. Mentre quelli delle due prime generazioni erano diritti del singolo, i diritti della terza generazione tendono a comprendere tutti gli uomini, considerati non solo come singoli, ma anche come membri della famiglia umana o di un determinato gruppo. Il presupposto è che tutti gli Stati della terra sono partecipi di un unico patto sociale, in pari dignità. Nel caso concreto dei diritti ambientali, tutti gli Stati devono impegnarsi nel mantenimento delle risorse e dell’equilibrio ambientale in modo tale da soddisfare le esigenze presenti senza compromettere quelle delle generazioni future.Tutti gli uomini, in quanto membri dell’unica famiglia umana universale, hanno il dovere di associarsi (azione popolare) per difendere questi diritti.
La dignità della persona fonda i diritti umani. Essi, oltre ad essere categorie del diritto positivo, sono anche categorie etiche, in quanto esprimono valori basilari della persona e della convivenza. Purtroppo, il modo di presentare il diritto ambientale riflette ancora una prevalente impostazione individualista, sganciata dal bene comune. Sembrerebbe che il problema ecologico è soltanto una questione di tecnica gestionale, dimenticando che bisogna superare la mentalità utilitarista che lo ha provocato. Di fatto, la crisi ambientale mette in dubbio tutto il sistema economico e i fondamenti antropologici sui quali era stato costruito. Si parla di diritto all’ambiente, ma si parla meno dei doveri che esso comporta per lo Stato, le corporazioni e per ogni singolo cittadino.
3. In cerca di una soluzione
Nella visione cristiana, la creazione è una benedizione, un dono divino e, pertanto, è preziosa in se stessa, indipendentemente dall’utilità che se ne possa ricavare, perché in essa è presente il progetto divino di amore nella verità.
3.1. Un nuovo modo di rapportarsi con il creato
Dio crea gratuitamente e gioisce per la creazione. Ogni creatura è stata chiamata da Dio all’esistenza, ordinata in un “cosmo” ed orientata verso la nuova creazione. L’uomo è chiamato a collaborare a questo piano divino, perché la natura ha bisogno di lui per poter sviluppare le proprie potenzialità, ma deve farlo in conformità con il piano divino. Il lavoro, la perfeziona e questa, a sua volta, si dona all’uomo. Pertanto, la contemplazione e l’ascolto sostituiscono il dominio dispotico. La materia non è soltanto materiale per noi. Niente del creato è superficiale o accessorio, perché Dio tutto conosce, tutto ama nella sua singolarità e, in Cristo, tutto ha predestinato all’unione con sé.
Le creature fanno parte di quel dialogo che ha nella Trinità la sua origine, il suo fondamento e il suo destino ultimo. Pertanto, il “soggiogate la terra” (Gen 1,28) non è sinonimo di abuso capriccioso, conoscenza possessiva o manipolazione senza scrupoli. La creazione ha un valore sacramentale perché, in Cristo, il Padre vive nel mondo e lo vivifica per mezzo del suo Spirito, facendo di essa un’epifania dell’Amore trinitario. Nel Liber naturae, l’uomo scopre la voce di Dio e, a sua volta, in quanto capax Dei, catalizza l’anelito cosmico di unirsi amorevolmente al suo Creatore (Rm 8,22-23). La protezione dell’ecosistema non è solo una questione estetica, bensì un imperativo morale. Lo sviluppo deve essere attento all’equilibrio ecologico, “alla rinnovabilità delle risorse e alle conseguenze di una industrializzazione disordinata”. Quando l’uomo ignora le “leggi non solo biologiche, ma anche morali”, “allora la natura gli si ribella e non lo riconosce più come «signore»”.
3.2. L’esempio di Francesco d’Assisi
Imitando la kenosis di Cristo, Francesco abbandona ogni pretesa di dominio utilitarista sugli uomini e perfino sulle stesse cose. Invece di dominare, Francesco contempla, ammira, si sente in affettuosa comunione con tutti ed “estende la sua carità non solo agli uomini provati dal bisogno, ma anche agli animali senza favella, ai rettili, agli uccelli, a tutte le creature sensibili e insensibili”. (1Cel 77). Francesco si sente intimamente unito a tutti gli esseri e a tutti vuole ubbidire. Perciò afferma che “la santa obbedienza […] rende l’uomo soggetto a tutti gli uomini di questo mondo e non soltanto agli uomini ma anche agli animali, alle fiere, così che possono fare di lui quello che vogliono, in quanto sarà loro permesso dal Signore”. (SalVir 17).
La creazione non è un gradino che Francesco “utilizza” per arrivare a Dio, ma il posto dove lo scopre presente, operante. Non usa le cose per trovare un significato, ma accoglie l’amore divino che in esse si manifesta. Francesco contempla in tutte le creature “la bontà di Dio” (EP 113); perciò le chiama “sorelle” (1Cel 81) ed esse rispondono al suo affetto. Nel Cantico delle creature, Francesco non accenna ai benefici che le cose procurano all’uomo, bensì al fatto che esse sono una manifestazione dell’amore di Dio, che raggiunge la sua massima espressione nell’incarnazione del Verbo. Pertanto, la lode e la gratitudine devono rimpiazzare qualunque tentativo di appropriazione o dominio. In questo modo, Francesco ritrova la bontà radicale di tutta la creazione e contraddice le tendenze manichee di allora (catari, albigesi), che difendevano la posizioneopposta.
La bellezza della natura non soltanto rimanda a Dio, ma lo fa pure vedere, perché tutto è un vestigio del Creatore. Le cose sono sorelle, degne di essere amate per loro stesse, perché sono frutto dell’amore divino che crea e sostiene. Francesco vede la natura dalla prospettiva di Dio, perciò l’ama fraternamente. Non la utilizza come signore dispotico, neppure si lascia catturare da essa. Situandosi “in mezzo”alle cose, Francesco loda e celebra la presenza del Creatore. Più che proiettare sulla natura i suoi sentimenti, Francesco ascolta, accoglie e si unisce alla sinfonia di tutto il cosmo. Il mondo non è espressione di potenza, bensì espressione di bontà: è un dono. Ogni creatura è una manifestazione dell’amore divino che supera la nostra capacità di raziocinio. Tutti gli esseri sono espressione dell’amore gratuito, libero, incommensurabile del Creatore.
L’ospitalità assoluta verso tutti gli esseri non è per il beneficio che ci procurano, bensì perché tutti sono frutto dell’amore divino e, pertanto, buoni in se stessi. Tutti gli esseri sono in intima relazione nella carità, perché fanno parte di un unico progetto di amore, ognuno con la sua propria dignità ed il proprio obiettivo specifico. Siamo chiamati, con Francesco, a contemplare, meravigliati, il mistero del mondo e ad amministrare responsabilmente tutto quanto Dio ci ha affidato. Il volontarismo francescano permette una visione integrativa, ospitale, della materia e del proprio corpo, che non si presentano come qualcosa di estraneo o pericoloso. La natura non è né inospitale né ostile, non è qualcosa che l’uomo deve sottomettere, bensì una casa, una stanza accogliente.
Bonaventura afferma che le cose sono parole di Dio che, insieme, formano un libro, “un bel poema ordinato”, la cui dignità e bellezza globale è captata solo dal contemplativo. Duns Scoto difende l’univocità dell’essere, stabilendo così una connessione fondamentale, non solo analogica, tra gli esseri di questo mondo e lo stesso Dio. Tutta la creazione tende a Dio in Cristo; la salvezza comprende tutto il cosmo. Allo stesso tempo, Scoto afferma l’autonomia delle creature. Niente è superficiale o accessorio, perché Dio tutto conosce e tutto ama nella sua singolarità. Accentuando questa linea, Ockham difende l’ontologia del concreto. Tutti gli esseri, fino al più irrilevante, riflettono la Trinità e, pertanto, hanno una dignità che deve essere rispettata. Uniti ad essi, aspettiamo la salvezza definitiva.
Martin Carbajo Núñez
Docente di Teologia morale e Vice Rettore Pontificia Università Antonianum