Si è svolta giovedì 28 aprile presso la Sala Polivalente del Centro Civico Quartiere Savena, a Bologna, la conferenza “La custodia dei beni del creato: l’acqua bene comune”, organizzata dalla Fraternità Fracescana e Cooperativa Sociale “Frate Jacopa” in collaborazione con il Centro Poggeschi e il volontari della mensa Caritas. La serata aveva l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione sul prossimo referendum sull’acqua del 12 e 13 giugno. La serata è stata introdotta dal racconto dell’esperienza descritta dal documentario di Camilla Martini, “Tutta l’acqua del mondo” (visibile online sul sito www.vimeo.com) che racconta del tentativo di costruire in Cile cinque dighe sui principali corsi d’acqua della Patagonia per produrre energia elettrica. Un progetto portato avanti dalla società Hidroaysén da più parti contestato sia per l’enorme impatto ambientale che produrrebbe su uno dei maggiori serbatoi di acqua dolce del mondo sia per le conseguenze che potrebbe avere sulla popolazione indigena dei Mapuche che abita quelle terre.
Il video ha voluto introdurre due concetti fondamentali: gli enormi interessi economici che ruotano intorno a quello che non a caso viene spesso definitio “oro blu”, e i legami che la globalizzazione ha stretto tra popoli e regioni apparentemente distinte: infatti la Hidroaysen è una società controllata dall’Enel che a sua volta ha tra i suoi principali azionisti lo Stato Italiano. Quindi magari senza esserne consapevoli i cittadini italiani rischiano di diventare indirettamente complici di un’operazione di sfruttamento resa possibile dall’eredità neoliberista che Pinochet ha lasciato in Cile, dove la libertà d’impresa è praticamente assoluta e le operazioni di controllo gestite dallo stato a dir poco “opache.”
La serata è proseguita poi con l’intervento di Padre Giovanni Soddu, parroco della chiesa di Nostra Signora della Fiducia, il quale ha focalizzato il suo intervento sulla responsabilità che i cristiani hanno nei confronti del creato così come in più circostanze ribadito dal magistero della chiesa: è necessario saper leggere la grammatica della creazione per comprenderla e accoglierla come dono. Se è vero che la chiesa rifiuta un “panteismo neopagano ecocentrista” che svilisce il ruolo centrale dell’uomo, è altrettanto vero che tale ruolo comporta la responsabilità di custodire la terra, amministrarla e governarla. Don Tonino Bello ripeteva spesso che oggi il problema non è la moltiplicazione dei pani, ma semmai la condivisione. I frutti della terra sono di tutti, in un sistema di interdipendenze in cui la cupidigia individuale non può che condurre al dissesto ecologico. Un uomo che pensa di sostituirsi a Dio finisce per tiranneggiare la natura scatenandone la ribellione.
Riportando vari messaggi della dottrina cristiana, Soddu ha poi sottolineato che quando la chiesa invita a pensare al bene comune, lo fa anche pensando ad una solidarietà intergenerazionale, pensando agli uomini di domani. La proprietà individuale dei beni infatti non deve farci dimenticare la destinazione universale degli stessi, che devono servire il bene comune. Sul fatto poi che i beni collettivi debbano essere tutelati dallo stato anziché lasciati al libero mercato non ci possono essere dubbi: i beni non sono merci, come l’idolatria mercantile spesso lascia sottointendere. Figuriamoci poi se può diventare merce un bene come l’acqua che, anche simbolicamente, per tutte le religioni è sinonimo di vita, simbolo stesso dell’amore di Dio.
Il sacerdote ha concluso poi ricordando che il consumo d’acqua non è solo quello che serve a dissetarci: produrre un chilo di carne rossa richiede più di 15000 litri d’acqua e ne servono circa 10 mila per realizzare un paio di jeans. L’intervento del professor Rosario Lembo, presidente nazionale del Comitato per il Contratto Mondiale dell’Acqua, ha voluto evidenziare il processo culturale che, da una decina d’anni, ha portato alla privatizzazione dell’acqua. Il valore dell’acqua è andato perduto: le grandi civiltà sono state fondate vicino ai corsi d’acqua; gli antichi romani cominciavano le loro colonizzazioni portando gli acquedotti nelle terre conquistate. Giolitti, agli albori dello stato italiano, nazionalizzò acqua ed energia. Non è esagerato affermare che senza gli investimenti del pubblico nell’acqua non ci sarebbe stata l’industrializzazione, non ci sarebbe stata la Fiat, non ci sarebbe stata Milano così come la conosciamo oggi. I tassi di mortalità hanno cominciato a calare quando l’acqua corrente ha raggiunto tutta la popolazione. Eppure ad un certo punto l’acqua non è stata più considerata un diritto, ma un bisogno. La differenza è essenziale: il diritto è universale, il bisogno individuale, soggettivo.
Se il bene comune diventa un bisogno, allora può diventare una merce ciò che soddisfa questo bisogno. I 50 litri d’acqua al giorno necessari per vivere non sono più un diritto, ma un bene da acquistare arricchendo le casse dei gestori. D’altronde è sotto gli occhi di tutti la scomparsa delle fontane, per esempio nelle stazioni, sostituite da distributori di acqua imbottigliata. Senza dimenticare che spessissimo gli amministratori pubblici (specie quelli che non vengono rieletti) ricoprono ruoli rilevanti nelle società municipalizzate trasformate in società per azioni. Seguendo questa logica se l’acqua è una merce non può essere gestita da un ente pubblico che fa profitti, ma deve essere gestita da società aventi fini di lucro che devono remunerare gli azionisti. Invadendo l’opinione pubblica di messaggi sulla presunta inefficienza dello Stato nella gestione dell’acqua (mentre è dimostrato che dove la gestione è passata ai privati i costi sono saliti ma la qualità è peggiorata e non si sono affatto ridotte le perdite) si è veicolato il messaggio che l’acqua debba essere gestita dai privati.
C’è chi teme che l’ingresso delle multinazionali francesi in questo settore, invogliate dai profitti garantiti del 7%, possa portare al triplicare del costo dell’acqua del rubinetto. Ma il vero rischio che il Comitato per l’Acqua denuncia è che nel lungo periodo l’acqua del rubinetto gestita dai privati perda progressivamente di qualità a tutto vantaggio dei produttori di acqua minerale. Si consideri che oggi a regolare il mercato delle acque minerali è un regio decreto sull’estrazione mineraria per cui chi vende acqua minerale paga una concessione non in base a quanta acqua estrae, ma in base alle dimensioni della sorgente. Con il risultato che costa di più all’ente pubblico smaltire le bottiglie di plastica di quanto non incassi dalle concessioni. Chi accusa i referendari di non avere proposte alternative dimentica che c’è una legge di iniziativa popolare, depositata dai comitati nel 2007, che non è mai stata discussa da un parlamento che evidentemente ha altro a cui pensare.
In seguito il professor Lembo si è concentrato più da vicino sul referendum. I quesiti referendari sono due: il primo chiede di abrogare il famigerato articolo 23 della legge finanziaria 2008. Questo articolo – da notare che il legislatore non perde occasione di intervenire su aspetti fondamentali della nostra vita non con disegni di legge corposi, ma con articoli nascosti nel grande polverone della legge finanziaria, che grazie alla fiducia si approva sempre – stabilisce che le modalità ordinarie di gestione del servizio idrico devono comprendere l’affidamento a soggetti privati attraverso gara o l’affidamento a società a capitale misto pubblico-privato, all’interno delle quali il privato sia stato scelto attraverso una gara e detenga almeno il 40%. Insomma un articolo che consegna al mercato la gestione dei servizi idrici. Il secondo articolo da abrograre è il 154 del codice dell’ambiente del 2006, che dispone che la tariffa per il servizio idrico è determinata tenendo conto dell’“adeguatezza della remunerazione del capitale investito”. Tale normativa ha consentito al gestore di ottenere profitti garantiti sulla tariffa, caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza alcun collegamento a qualsiasi logica di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio. Abrogando questa parte dell’articolo si vuole insomma impedire di fare profitti sull’acqua. La corte costituzionale ha invece ritenuto inammissibile un terzo quesito, quello che avrebbe eliminato la norma che impone di affidare la gestione del servizio idrico con gara, consentendo tuttavia, l’affidamento diretto a società totalmente pubbliche se partecipate da Comuni ed enti locali.
È evidente che sul referendum sull’acqua i mezzi di comunicazione si stiano occupando molto poco: le ragioni sono da rinvenirsi nel fatto che tali referendum sono osteggiati sia dalla maggioranza del governo, sia da parte corposa dell’opposizione (tanto per cambiare il partito democratico si è spaccato di fronte al referendum, visto che una parte sostiene la privatizzazione dei servizi pubblici).
Carmine Caputo