Lucia Baldo

img142 (2)Il significato della parola “virtù” La parola “virtù” ha conosciuto un periodo di abbandono durante il quale è stata volutamente trascurata, in quanto il pensiero kantiano l’aveva inaridita riducendola a una serie di doveri fini a se stessi. Questo l’ha resa estranea, se non addirittura antipatica, e ha portato a identificarla con una forma di buonismo inteso negativamente, come ricerca del bene a tutti i costi, non esente da forme di rigidità e di presunzione, senza capacità di un valido criterio di giudizio.
Ma già a partire da Scheler negli anni ’30 del Novecento, la parola “virtù” è andata “rianimandosi” (R. Guardini, Virtù, Morcelliana, p. 11), cioè ha riacquistato una pregnanza di senso e un vigore nuovo che le derivano dal suo significato etimologico: da vir, la parola “virtù” indica “virilità, forza di corpo, cioè quanto adorna e nobilita l’uomo fisicamente e moralmente: quindi valentia, valore, forza” (O. Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana).
Ai nostri tempi si avverte l’esigenza di riscoprire l’importanza di un vocabolo che nella storia era stato valorizzato dai Greci (areté) quale “contrassegno dell’uomo nobilmente coltivato e plasmato” oppure dai Romani che la identificavano con la fermezza che caratterizza l’uomo nella realtà dello Stato e della vita (cf R. Guardini, ibidem).
In particolare famosa e ancor oggi attuale è la definizione della virtù quale “giusto mezzo” tra due vizi opposti, data da Aristotele. Ad esempio la fortezza trova il giusto mezzo tra la temerarietà e la timidezza.
Ricordiamo altresì la definizione data dallo stoico Cicerone, per il quale la virtù è: “abito dell’animo conforme all’ordine della natura e della ragione”, ovvero l’abitudine a compiere atti che rientrano nell’ordine dato dalla legge della natura e sono conformi alla ragione.
Il pensiero cristiano si innesta in questo pensiero, ma va oltre la pretesa autosufficienza della ragione, perché pone la virtù in rapporto all’amore.
In S. Agostino la virtù è definita “l’ordine dell’amore”, intendendo per “ordine” il modo giusto di amare proprio di chi è virtuoso e, perciò, ama bene ciò che si deve amare, e così vive anche bene (cf S. Agostino, La Città di Dio, XV, 22). Per esempio una mamma ama il figlio, ma se lo ama male, con un atteggiamento possessivo, il suo amore non è ordinato, cioè ama male ciò che deve amare, ma in un altro modo. La virtù indica il modo giusto di amare il bene.

La virtù nel pensiero francescano di S. Bonaventura
S. Bonaventura nella sua ultima opera, le Collationes in Hexaemeron, va oltre la definizione della virtù come “giusto mezzo” di Aristotele che vedeva la virtù sul piano orizzontale, tra due estremi contrari (uno per eccesso, l’altro per difetto) di cui si doveva cercare il “medio”, il giusto mezzo.
Invece S. Bonaventura pone Cristo come medio tra Dio e gli uomini, tra il Cielo e la terra, superando l’orizzonte della terrestrità, per fare salire il cristiano, attratto dalla grazia, verso l’alto, di virtù in virtù.
Riprendendo l’immagine della nube in cui Mosè rimase avvolto sul monte Sinai per quaranta giorni e quaranta notti, prima di ricevere da Dio le Tavole della legge (Es 24,18), il pensatore francescano interpreta il Cristo dell’Ascensione come colui che, nascosto in una nube che lo sottrae alla vista dei suoi discepoli (cf At 1,9), porta il cristiano, “lavato dalle acque battesimali”, verso l’alto dove “la caligine” della fede, lo avvolge “con il suo lume in enigma”.
Questa fede è “il fondamento in cui Cristo si stabilisce in noi” (S. Bonaventura, Collationes in Hexaemeron, I), cioè abita in noi, ma non senza ombre (“in enigma”) che si diraderanno via via in un cammino virtuoso senza termine. Se ci fosse un termine, non ci sarebbe più la virtù. Tuttavia questo cammino sarà graduale e non esente da problemi, da difficoltà. Dobbiamo perseverare e non avere paura dell’oscurità che ci può dare sconforto e abbattere, perché sappiamo che Lui è con noi e non ci abbandona, anche se i nostri sensi non lo possono percepire con l’immediatezza che noi vorremmo.
Facendo nostro lo sguardo di Cristo, tale ascesa illimitata di virtù in virtù, a partire dalle virtù politiche (ibidem),non si esaurisce nella pura razionalità, ma trae forza dalla fede, “fondamento di ogni virtù” (ibidem).
Tutte insieme le virtù per S. Bonaventura sono come le “colonne d’argento” di cui parla il Cantico dei Cantici (Ct 3,) “che danno stabilità all’anima” (ibidem, XXIII).
Il richiamo alle virtù ri-corda (riporta al cuore) il bellissimo canto-preghiera di S. Francesco “Saluto alle virtù” in cui il Santo esprime riverenza verso le virtù chiamate “sorelle” (come le creature del “Cantico di frate sole”) e ossequio, come si conviene da parte del cavaliere verso la sua dama.
Tra tutte le virtù S. Francesco privilegia, ponendola su un piano di superiorità, la “sapienza”, che chiama “regina” tra tutte; mentre le altre “sorelle” sono chiamate “signore”, come le sorelle di Chiara, le “dame” verso le quali egli mostra sempre profonda ammirazione e ossequio.
La spiritualità evangelica di S. Francesco ci aiuti a ricuperare il valore delle virtù e a liberarle da quell’alone di “antipatia” a cui l’aveva relegato il linguaggio del dovere morale per se stesso.