Il pensiero contemporaneo è fortemente critico riguardo alla possibilità di far intuire col proprio linguaggio il mistero insondabile del nome di Dio.
Heidegger dice che nel nostro mondo senza senso siamo ridotti al punto che non possiamo neppure pronunciare la parola “Dio” con senso.
Per questo è importante rispondere a una domanda fondamentale che non è astratta, perché fa riferimento al proprio vissuto esistenziale e coinvolge una responsabilità nella persona. La domanda è: “Chi è Dio per me?”.
A questa domanda si può rispondere solo togliendo l’interrogativo e mettendo il positivo: Dio è per me.
Dio è l’unico che sia per me veramente.
Ma come faccio a sentire Dio? Come faccio a risvegliare in me questo sentire Dio? Dov’è Dio?
A questi interrogativi risponde in modo esauriente il Manzoni nel dialogo tra il cardinale Federigo Borromeo e l’innominato il quale dice: “Dio! Dio! Dio!Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”.
E il cardinale risponde prontamente penetrando nel guazzabuglio del suo cuore in preda a un grande sconvolgimento: “Voi me lo domandate? voi? e chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, lo imploriate?”.
E l’innominato riprende: “Oh, certo! ho qui qualche cosa che m’opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?”.
In queste parole si avverte prepotente la disperazione e la profonda solitudine di un uomo vissuto senza un Dio che fosse per lui. Si avverte altresì il senso di un’incommensurabile eccedenza della bontà di un Dio che si abbassi ad accogliere i peccatori, anche i più recidivi, come l’innominato.
Chi si sente peccatore, davanti alla sacralità che aleggia attorno al nome di Dio, si sente profano, pesante, lontanissimo, un nulla, un non senso e avverte la difficoltà di pronunciare il nome di Dio senza banalizzarlo.
S. Francesco non nomina mai Dio senza porlo nella sacralità: “Altissimo, Onnipotente”. Nei suoi Scritti è sempre presente il senso di un’infinita distanza da Lui, accompagnato da rispetto e riconoscenza.
E tuttavia, proprio per questa sua grandezza e profondità, Dio è il Tu che si abbassa fino a noi e si rivela facendoci fare l’esperienza di Lui.
S. Francesco ha fatto delle esperienze di Dio che difficilmente un altro uomo può fare. Ma ogni esperienza di Dio è un rapporto di un “io” a un “Tu”, è sempre un rapporto d’amore. Altrimenti non esiste un’esperienza di Dio.
Il cardinal Federigo “con amorevole violenza” afferra la mano riluttante dell’innominato che sente la misericordia di Dio di gran lunga eccedente rispetto ai suoi peccati: “È troppo! – disse, singhiozzando, l’innominato. – Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v’aspetta … e voi vi trattenete … con chi!”.
Come nell’esperienza dell’innominato, così in ogni esperienza di Dio non può mancare il coinvolgimento affettivo fino alle lacrime insieme al desiderio di cambiamento della propria vita, all’orizzonte del quale c’è la presenza di Dio.
L’uomo ha futuro se cambia, perché il futuro non è colonia del passato, ma è un progetto che trasforma e rende nuovi.
Nietszche ne “La gaia scienza” dice che l’uomo d’oggi ha ucciso Dio. Un pazzo con una lampada in mano chiede alla gente: “Dov’è Dio?”. Tutti lo prendono in giro dicendo che Dio si è addormentato o, forse, ha perso la direzione. Allora egli butta per terra la lampada e grida: “Voi l’avete ucciso! Come avete potuto farlo? Come avete potuto spegnere il sole? Non vi accorgete che il mondo diventa sempre più buio, sempre più freddo?”.
Questo discorso nella sua drammaticità si propone come espressione della situazione culturale odierna in cui il termine “Dio” è tolto dalla preoccupazione umana. Però in questa situazione la nostra civiltà non può sollevarsi dagli allarmi e dalle minacce che la attraversano.
Se, invece, io ritrovo l’esperienza di un “Dio che è per me”, allora sarò animato da un senso di profonda riconoscenza, come l’innominato che, dopo un vano tentativo di sottrarsi all’abbraccio del cardinale “cedette, come avvinto da quell’impeto di carità, … e abbandonò sull’omero di lui il suo volto tremante e mutato” purificato da un effluvio di lacrime risanatore che lo avrebbe portato a riparare tanti torti e offese.
Veramente da un “Dio che è per me” può nascere la forza di rinnovamento e di inizio di un futuro che sia progresso vero e salvezza vera degli uomini.

Lucia Baldo
(liberamente tratto da “Chi sono io? Per un nuovo umanesimo. Dialoghi con il francescano V. C. Bigi”, 2015
Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa).

Il Cantico
ISSN 1974-2339
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