Sintesi della lectio di S. Em. Card. Gianfranco Ravasi

Il 7 giugno u.s. nella Sala dei patti Lateranensi si è svolto il Convegno Missionario della Diocesi di Roma dal titolo: “Ciascuno li udiva parlare nella propria lingua” (Atti 2,6). L’Evangelii Gaudium e la missione di Roma verso il mondo”. Dopo il saluto di don Michele Caiafa del Centro Missionario diocesano, il Card. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della cultura, ha tenuto una lectio su: “Ciascuno li udiva parlare nella propria lingua” (Atti 2,6), mentre mons. Ambrogio Spreafico, Vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino e Presidente della Commissione Cei per l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra le Chiese, ha proposto una lettura missionaria dell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, nella quale Papa Francesco pone l’accento su di una Chiesa in uscita da sé verso il fratello, in particolare verso i poveri che costituiscono una categoria teologica, prima che culturale.
Per questo chi non si interessa dei poveri rischia la dissoluzione. Il Papa – ha aggiunto mons. Spreafico – chiede a tutti una conversione missionaria, poiché la missione non è un’appendice o un ornamento dell’esistenza, ma noi siamo nel mondo per essere missionari dell’amore di Dio. Dopo le intense testimonianze di Suor Paola Gabrielli, missionaria in Centro Africa, e di Francesca De Martino, laica missionaria per quattro anni a Taiwan, le conclusioni sono state affidate a mons. Matteo Zuppi, incaricato diocesano per la Cooperazione missionaria tra le Chiese, che ha sollecitato a cercare il legame tra le tante componenti della Chiesa di Roma, per favorirne l’unione e aiutarle ad aprirsi, superando l’identità chiusa che impoverisce e rende rozzi.

“Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?” (Atti, 2).

ravasijpegLa Chiesa delle origini era ramificata culturalmente, etnicamente, socialmente al suo interno, ma l’annuncio di Cristo era unico, se pur espresso nella molteplicità delle lingue. In questo senso si può parlare di un universalismo della fede, che mantiene un legame stretto con le proprie radici culturali.
In “Calma spavalda” del poeta Borges, che Papa Francesco ha conosciuto personalmente, leggiamo: “Parlano di umanità. La mia umanità sta nel sentire che siamo tutti voci di una comune indigenza”. Credenti e non credenti sono uniti da una comune richiesta di aiuto, che i non credenti lasciano vagare nell’aria.
Il primo punto cardinale dell’universalismo, risale ad Adamo. Siamo tutti figli di Adamo, nell’orizzonte del nostro limite, della nostra indigenza. Siamo tutti fratelli a questo livello di base. Nei racconti del Genesi (Gen 2.3) il ritratto di Adamo ha come punto di partenza il colore ocra dell’argilla, che fa riferimento alla nostra materialità; ma, oltre a questo, siamo accomunati dall’essere tutti capaci di tre relazioni fondamentali:
1) verso Dio da cui riceviamo il respiro, la coscienza;
2) verso il basso, gli animali, la terra;
3) verso l’altro, il mio simile, la donna che mi sta di fronte. È la relazione interpersonale, gli occhi negli occhi in cui si trasfondono la gioia, il dolore, le attese, le lacrime. Questa relazione dà luogo a una piena ominizzazione.
Siamo tutti della razza di Adamo, ma pur con questa identità comune siamo paradossalmente tutti diversi.
Nell’Antico Testamento abbiamo una letteratura sapienziale simile a un arcobaleno. Al suo interno è riproposta l’adamicità, perché il soggetto non è l’ebreo, ma è l’uomo. Giobbe, protoarabo, è protagonista di un messaggio sul male. I Proverbi rievocano la sapienza egizia, pagana. Il Libro della Sapienza respira il clima della cultura greca, ellenistica. È una trasfusione di culture, espressione dell’adamicità.
Il secondo punto cardinale dell’universalismo è quello ebraico che risale ad Abramo: “… in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). Abramo è il destinatario di una benedizione specifica. Egli è il benedetto per eccellenza.
Ma come è possibile parlare dell’universalismo dell’elezione? Non è una contraddizione?
Il momento nativo di Israele come popolo è il Sinai: “Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,5-7).
L’elezione non è un privilegio, è una missione. Come i Leviti sono sacerdoti che portano a Dio il respiro del popolo, così Israele è un regno di sacerdoti che portano a Dio tutta l’umanità e le sofferenze dei popoli.
L’elezione è un compito: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” (Is 49,6).
L’elezione è un rischio, perché l’uomo è fragile e peccatore. L’ebreo, nel periodo di Esdra e Neemia, diventa etnocentrico. Ma perfino all’interno della legislazione sinaitica c’è un’apertura: “Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero, che è domiciliato in mezzo a voi” (Es 12,49), oppure: “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio” (Lev 19,33-34).
Il terzo punto cardinale è l’universalismo dei profeti. I profeti ci insegnano la modalità con cui vivere l’apertura. Gerusalemme è come un faro di luce, mentre sul pianeta si distendono le tenebre. Processioni di popoli convergono verso questa luce e lasciano cadere le armi che vengono forgiate in aratri. Il mondo ostile è invitato, attraverso il comune ascolto della Parola di Dio, a trasformare gli strumenti bellici in strumenti di pace: “Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri»… Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non eserciteranno più nell’arte della guerra” (Is 2, 3-4).
Nel Libro del profeta Isaia il Signore si rivolge all’Egitto, all’Assiria e a Israele, le superpotenze di allora, chiamandole suo popolo:
“Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità” (Is 19, 25).
Qualsiasi popolo può far parte del Regno di Dio (cfr Is 56). “Allora io darò ai popoli un labbro puro perché invochino tutti il nome del Signore e lo servano tutti sotto lo stesso giogo (letteralmente “spalla a spalla”)” (Sof 3,9).
Il libro di Giona termina con una domanda, che è come un dito puntato contro il lettore: “…e io non dovrei avere pietà di Ninive…?”. È la celebrazione dell’amore di Dio verso tutti i popoli.
Il quarto punto cardinale è l’universalismo cristianoecclesiale di cui gli Atti degli Apostoli sono la rappresentazione visiva.
Cristo è ebreo, respira il mondo concreto in cui è inserito e deve vivere l’esperienza faticosa dell’accettazione dell’altro come identico all’ebreo per il quale l’elezione è un privilegio. Invece la salvezza di Cristo è per tutti. C’è un’apertura verso gli ultimi della terra, i rigettati della società. Questo universalismo richiede il superamento della propria carnalità, della propria spontanea autoidentificazione.
La Chiesa delle origini non è esente da problemi (come quello dei giudeo- cristiani). La Chiesa fa fatica a realizzare questo universalismo, ma non va condannata, bensì aiutata.
Quando Pietro va dal centurione Cornelio, gli dice: “Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (Atti 10,34).
Questo significa che il Regno di Dio è molto più largo della Chiesa cattolica.
S. Paolo ci ha lasciato almeno due sintesi ideali dell’universalismo cristiano: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28) e: “Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o in circoncisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11).
È la rappresentazione dell’abbraccio di Cristo che non è proprietà solo dei cristiani, ma di tutta l’umanità: “Egli è infatti la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo…” (Ef 2, 14-15).
L’iniziativa del “cortile dei gentili” è un tentativo di dialogo su valori comuni a credenti e non credenti. Il cortile dei gentili era un atrio in cui potevano accedere i pagani. C’era un parapetto divisorio. A chi varcava questo muro era comminata la pena di morte. Forse Paolo fa riferimento a questo “muro di separazione”, quando parla dell’inimicizia.
Concludendo possiamo affermare che l’unità e la molteplicità costituiscono il filo conduttore delle Sacre Scritture. Esistono distinzioni culturali e sociali, ma tutti sono invitati a costruire un mondo diverso.
Le pagine integraliste, violente dell’Antico Testamento rimangono un problema aperto. Questo sta a indicare che il cammino è lento e faticoso, perché, come dice Mafalda, il personaggio dei fumetti inventato dall’argentino Quino: “Amare l’umanità non è una gran fatica. Invece è faticoso amare il vicino della porta accanto”.

A cura di Lucia Baldo