cibo di guerraMilano, 11 settembre 2015 – “Cibo di guerra” è il nuovo rapporto di ricerca sui conflitti dimenticati, pubblicato da Caritas Italiana in collaborazione con Famiglia Cristiana e Il Regno ed edito da Il Mulino. Fame, aiuti alimentari, terreni accaparrati, giochi di borsa: sono cause o effetti delle guerre?
Si approfondiscono risposte e piste d’indagine, in un quadro di crescente influsso delle guerre contemporanee, che sempre più spesso ci toccano da vicino, se non altro tramite le vicende e i racconti di ondate di profughi. Cibo di guerra non si limita al problema del ciclo perverso che conduce alla disperazione chi si trova coinvolto in una guerra. Indaga anche i legami inversi, che dalla povertà estrema portano alla conflittualità violenta. E studia le dinamiche che strumentalizzano le persone e i loro bisogni primari nella costruzione della violenza, rendendoli di fatto “cibo di guerra”.
Dopo anni di segno positivo, gli indicatori che misurano il grado di “pacificità” del pianeta iniziano infatti a puntare verso il basso. L’intensità di buona parte dei conflitti intra-statali combattuti a diverse latitudini del pianeta sta infatti aumentando di livello, con un significativo coinvolgimento della popolazione civile e un crescente ricorso all’impiego di tattiche tipiche dell’azione terroristica.
Si stima che le vittime di attacchi terroristici jihadisti siano quintuplicate negli ultimi quindici anni, concentrandosi per il 95% per cento in paesi non Ocse (ovvero in via di sviluppo). La gran parte degli attacchi, negli ultimi anni, ha avuto luogo in cinque paesi: Iraq, Siria, Afghanistan, Pakistan e Nigeria, coinvolgendo sempre di più scuole e università, giovani studenti, civili inermi e innocenti.
Più in generale nei vari conflitti, nell’ultimo decennio, si è passati da una media di 21 mila a 38 mila morti annui. Africa e Asia sono i continenti maggiormente instabili a livello globale. In essi la mancanza di cibo e le guerre si intersecano in un mix letale, con l’inevitabile riflesso migratorio su scala planetaria.
Le guerre di “massima intensità” nel mondo sono tutte a carattere intrastatale e coinvolgono un numero crescente di paesi (fa eccezione il conflitto tra India e Pakistan, relativo alla situazione nel Kashmir). Si tratta però in realtà della punta di un iceberg, se si considerano anche i numerosi conflitti di “media” e “bassa intensità”.
In ogni caso le guerre hanno comunque sempre “maschere”, che spesso vengono confuse con le cause del conflitto stesso. Attualmente ad esempio prevale quella religiosa. La quinta ricerca sui conflitti dimenticati smonta tali tesi, rilanciando l’importanza di un rinnovato sforzo culturale, di un ruolo formativo ed educativo da esercitarsi a ogni livello per decostruire ogni prefabbricato ideologico, basato su fondamenta tanto fragili quanto irreali. Un tale ruolo va associato a un serio impegno di lobby e advocacy, in primo luogo nei confronti della comunità internazionale, affinché non si faccia abbagliare da derive demagogiche e populiste. E va completato con l’ampio rilancio di ogni azione volta a stringere legami di cooperazione e solidarietà internazionale, aperti all’accoglienza di nuove ondate di profughi, anch’essi “cibo di guerra”, strumentalizzati per fare pressione a distanza su leader miopi e opinioni pubbliche labili e manipolate.
Nella seconda parte del volume vengono presentati i principali risultati di due rilevazioni sul campo. La prima riguarda uno studio sulla presenza e le storie di vita delle persone in fuga dalla guerra, accolte nelle chiese locali, grazie anche al circuito delle Caritas. La sezione quantitativa è stata realizzata su un campione di centri di ascolto in 50 diocesi, mentre la sezione qualitativa si basa su 25 storie di persone prese in carico nelle diocesi di Bari, Lodi, Mazara del Vallo, Roma e Udine.
La seconda rilevazione ha come tema l’uso dei “video di guerra” nei canali tematici di Youtube. Si tratta del primo studio su tale aspetto condotto dall’osservatorio sui conflitti dimenticati, che ha sempre dedicato grande attenzione alla dimensione della comunicazione sociale: la carta stampata, quotidiana e periodica, i social network, Facebook e Twitter in primis, ma anche televisione e radio.
La conclusione dello studio è che nel nuovo scenario liquido dell’informazione si avverte un forte bisogno di contestualizzazione e mediazione giornalistica. L’utente che arriva su YouTube da un social network spesso non si chiede su quale canale è arrivato, qual è la sua agenda politica, da chi è finanziato: preme play, commenta e condivide il video senza farsi troppe domande. Invece, ora più che mai, è richiesta a tutti grande attenzione. Altrimenti è vero che saremo tutti più informati, ma diventeremo anche più manipolabili