Meditazione a conclusione del ciclo “Seminare speranza nella città degli uomini”,
promosso dalla Fraternità Frate Jacopa
Don Stefano Culiersi
Dal Vangelo secondo Marco (4,26-29)
Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
1. Semina per la Speranza.
L’immagine della semina è un’immagine a cui il nostro vescovo è molto legato. L’ha posta anche nel suo motto episcopale, perché i nostri occhi si soffermino sui campi che biondeggiano piuttosto che su altro (Gv 4,35), ovvero sul frutto dell’evangelizzazione che Dio fa suscitare nel campo del mondo.
In questo anno quella della semina ci è sembrata una immagine molto rispondente al mistero della Speranza cristiana, che sappiamo Dio vuole far fiorire nella Città degli uomini, attraverso la parola del Vangelo.
Dio semina la sua Parola senza risparmiarsi, su ogni terreno, attendendo i frutti giusti nel cuore dell’uomo. E noi ci sentiamo da un lato spettatori dell’opera di Dio, dall’altro suoi collaboratori, ma anche destinatari di quella parola che genera speranza.
Questa molteplicità di riferimenti mi ha portato a proporre per questa mattina la parabola del seme caduto in terra, che porta frutto anche senza la consapevolezza dell’uomo, da cui il titolo un po’ paradossale: “Come, nemmeno lui lo sa” (Mc 4,27).
Davanti all’azione di Dio, al suo agire misterioso, ai suoi tempi così differenti dai nostri tempi, noi rimaniamo perplessi. Fatichiamo a comprendere come una via di debolezza e di nascondimento, tipica del seme, possa suscitare qualche fiducia. Ci sembra improbabile che ciò che muore possa essere capace di dare vita.
Come, non lo sappiamo.
Ma non solo non conosciamo le dinamiche del Regno di Dio, perché secondo un paradosso tipico della gloria di Dio, proprio di noi e della nostra ignoranza si serve il Signore nella diffusione della sua Speranza.
Non siamo solo inconsapevoli delle dinamiche del Regno, ma ne siamo ugualmente servitori e collaboratori, chiamati a diffondere una Speranza che non capiamo fino in fondo, con il rischio continuamente di smentire l’agire di Dio con un’azione che non corrisponda alla logica del Regno.
Ma il paradosso non sarebbe completo se noi, suoi servitori, non fossimo solo inconsapevoli del Regno, ma ne fossimo pure affamati e assetati, bramosi della stessa speranza che il Signore vuole portare anche agli altri.
È per questo che la parabola sul seme che cresce nella inconsapevolezza dell’uomo mi sembra particolarmente adatta per la nostra riflessione.
2. La parabola? Similitudine, meglio
Gli esperti direbbero che più di una parabola, qui abbiamo a che fare con un paragone, una similitudine del Regno, che non ha il bagaglio provocatorio e giudicante che è tipico delle parabole. Non siamo nell’ordine della narrazione espressa per non essere capiti, per svelare la lontananza del popolo da Dio e quindi la chiusura del cuore alla salvezza (Mc 4, 10-12).
La similitudine è una spiegazione per immagine, dove la logica presente in qualcosa di tipicamente umano è identica anche nel Regno, e ci aiuta a capire il modo di agire di Dio.
Questa similitudine ha come argomento non tanto la semina, quanto il mistero della crescita del Regno. È una parabola che solo Marco conosce, che non entra a far parte del bagaglio condiviso dei Sinottici, e che in fase redazionale deve essere stata avvicinata agli altri discorsi di Gesù che hanno a che fare con il seme, componendo questo lungo capitolo parabolico.
L’argomento specifico del brano, però non è la semina, quanto piuttosto il tempo della crescita. L’atto iniziale della semina è accennato rapidamente per poter descrivere invece il mistero di una crescita, che sfugge persino a colui che ha seminato. Durante questo tempo il terreno cambia volto: dalla zolla nuda si passa ad un primo germoglio, ad un verde prato, fino alla maturità del frutto che imbiondisce. Questo tempo di crescita, affidato alla virtù propria del seme e non all’abilità o alla frenesia del seminatore, ha poi un termine: viene il tempo di raccogliere, mettendo mano alla falce, con un gesto che certamente ha il sapore un po’ violento che ricorda anche la morte, ma con la coloritura lieta di una abbondanza.
La similitudine del regno, svela all’uomo un’azione divina che ha tempi e tappe successive, che non dipendono da lui. Altre parabole hanno riferimenti ai tempi del regno, come la parabola della zizzania, che invitano alla pazienza e alla fiducia nell’efficacia dell’azione divina.
A partire da questa immagine mi piace fare alcune sottolineature sul nostro rapporto con l’opera di Dio, con la costruzione di quel Regno che a volte ci vede rassegnati e a volte irrequieti. La virtù della Speranza cristiana si inserisce proprio in questo tempo di crescita, poggia sulla fiducia nella bontà del seme divino, nella fedeltà di Dio alle sue promesse, e non dubita, pur nei tempi lunghi, nella riuscita del disegno di Dio.
La nostra Speranza e la nostra capacità di trasmettere speranza agli uomini è in realtà mantenimento della speranza nei tempi lunghi, è perseveranza e continuità.
Da questo annuncio evangelico vorrei far emergere tre riflessioni:
la prima, una visione del tempo dell’uomo e del tempo di Dio;
la seconda, una visione dei protagonisti che agiscono nel tempo storico;
la terza sul tempo ultimo, il passaggio tra i tempo storico e quello di Dio.
3. Tempi di Dio, tempo dell’uomo.
La similitudine del Regno ci parla di due dimensioni del tempo. Quella dell’uomo, che dorme o veglia, alterna il giorno alla notte e quella del seme, che invece cresce progressivamente.
La sapienza di Qoelet ci dice che il tempo umano, storico, è fatto proprio così: c’è un tempo per fare e un tempo per disfare (Cfr Qo 3,1-9). L’esito finale dello scorrere del tempo è l’azzeramento, perché ogni cosa annulla la precedente. Nel suo affannarsi sotto il sole, l’uomo non ha alcun vantaggio, perché il suo agire, come il soffio del vento, gira e rigira sui suoi cammini, finendo per annullare sempre se stesso (Qo 1,6).
Di giorno o di notte, che si agiti o che riposi, l’uomo nel suo tempo storico non costruisce nulla, che non verrà poi il tempo di distruggere.
Il tempo allora appartiene a Dio, non all’uomo. E se l’uomo non lo vive nella corrispondenza con Dio, lo disperde. L’uomo è soffio, è vanitas, e la sua capacità di incidere sul mondo è pari al soffio, al vento. Diverso invece è l’agire di Dio nel tempo storico.
“Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine. Ho capito che per essi non c’è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio. Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso” (Qo 3,10-15).
La dimensione frenetica del tempo vive il dispiegarsi dei giorni come una condanna, con la presunzione di poter dire o fare la cosa definitiva… cosa che puntualmente si smentisce.
Ma Dio invece è per sempre, e anche la sua opera è per sempre: essa sfugge alle logiche del tempo storico, lo attraversa per tendere direttamente all’escaton.
Ci può servire riascoltare le parole di papa Francesco nell’Evangelii gaudium, che ci invita ad assumere la logica divina del tempo e non la percezione umana, limitata e locale.
“Il tempo è superiore allo spazio. Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza,senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo” (EG 222-223).
Assumere la pazienza di Dio, significa lasciare che il seme della parola lavori nascostamente, germogli timidamente e si proponga ancora immaturo, fino al tempo finale, che appartiene a Dio e non agli uomini.
4. I protagonisti:
La similitudine ci parla di diversi protagonisti. Indiscusso protagonista è il seme, che è vitale da se stesso, e capace di dare vita, pur sembrando piccolo e inerme.
È Dio il principio vitale di ogni crescita, e quindi anche la qualità del seme, perché Dio genera la vita, è amante della vita, ama che intorno a sé le cose si animino e si rigenerino.
Accanto al seme così efficace c’è il seminatore, che decide il gesto generoso e rischioso della semina. Gesto che si priva del pane perché scommette su un pasto più abbondante in futuro. Per quanto gli sfugga la potenza del seme, egli la crede fermamente. La similitudine però ce lo rende paradossale, rispetto alla inquietudine e alla frenesia del mondo. Egli attende l’efficacia del seme.
È poi sempre lui a mettere mano alla falce, quando giudica maturo il tempo, quando la pazienza ha compiuto la sua attesa ed è ora di raccogliere.
Anche questo soggetto ha i connotati divini, di colui che gestisce la semina e conosce i tempi della mietiture.
Interessante per noi il riferimento alla terra, altro soggetto, perché, lascia intendere la similitudine, è la terra che genera. Possiamo richiamarci ad un principio generativo che ha analogie con la sessualità, con un seme divino e una terra-grembo.
Secondo la mentalità antica, che non conosce la genetica, la fecondazione è maschile, ma la generazione è femminile: è il grembo che porta la gestazione, fino alla sua maturità, quando il frutto del grembo è pronto e lo si può “tagliare” via.
Il testo evangelico dice che è la terra a generare dapprima il germoglio, lo stelo e poi la spiga.
Circa l’importanza del terreno, già la prima parabola del seminatore aveva riconosciuto che la qualità del terreno fa la differenza, può accompagnare la generazione oppure portare al fallimento, per la durezza del terreno, per la presenza di un terreno poco profondo, per il soffocamento generato da altra vegetazione.
Questo soggetto terreno assomiglia molto a noi, più che il seminatore. In noi il Signore con abbondanza e con pazienza semina la sua parola.
Noi siamo generati da Dio attraverso la Parola di Dio (Gv 1,12-13).
Questa generazione ha fatto di ciascuno di noi dei figli, o meglio degli interlocutori della parola. La Parola di Dio è risuonata in noi, una parola che ha il potere di svegliare i morti (Gv 7;11). Essa ha svegliato il nostro spirito e ci ha provocato alla risposta. Da estranei e dispersi, ci ha fatto sentire cercati e amati, e continuamente provoca una risposta in noi.
Noi siamo rinati, il giorno che abbiamo ascoltato la Paola di Dio, il Verbo della vita, perché siamo diventati interlocutori del dialogo divino, e abbiamo assunto una identità, una vita nuova. Questa Parola ha avuto bisogno di tempo (ha ancora bisogno di tempo), e ci sospinge continuamente a perseverare in questo dialogo, tratteggiando in noi una identità sempre nuova e sempre più matura, quella del Figlio Unigenito.
Sia la 1Gv che la 1Pt parlano, seppure con accenni diversi, di questa generazione: la prima per dire che c’è una condizione definitiva da parte di Dio in questo atto generativo; la seconda per indicare il ruolo di Cristo, che a prezzo del suo sangue ci ha generati.
Mi piace allora pensare che noi siamo il terreno, come diceva la prima parabola del Seminatore, ma anche che la comunità cristiana sia il terreno, dove spuntano i credenti, gli interlocutori di Dio, e che devono poter trovare un terreno che accompagni la loro gestazione, la loro crescita fino al tempo escatologico della mietitura.
Una comunità si trova allora circondata di persone che in tempi diversi hanno sentito la Parola e continueranno ad esser svegliati da questa per diventare figli di Dio. La tentazione di non assumere la gestione del tempo nella pazienza di Dio è sempre forte. Eppure, sebbene in tempi differenti, ciascuno è chiamato/generato dal Verbo fatto carne e affidato al grembo materno della Chiesa perché giunga al compimento la sua vita.
In questo ruolo generativo nella fede, la comunità non è affatto un indifferente luogo ospitante, dove ognuno decide la sua relazione con Dio, ma è un luogo rilevante, che aiuterà a connotare e a determinare la forma della propria vita cristiana, proprio come un terreno è in grado di qualificare diversamente la pianta che vi cresce.
5. L’escaton.
La mietitura è una immagine cara all’apocalittica, perché parla di una fine… e quanto è vero che tutte le cose hanno bisogno di scadenze, di un termine.
Ma il termine non è deciso dall’uomo. Il seminatore della similitudine, i pescatori con i pesci, i contadini con la zizzania, tutti sono allegoria per indicare un soggetto ultraterreno, angelico per lo più, incaricato di compiere quella separazione che agli uomini non può competere.
Il termine c’è, ma non è terreno; c’è ma non è umano. È il tempo di Dio, ovvero è la fine della gestione storica delle cose e insieme ingresso nel tempo ulteriore. La mietitura, se da un lato richiama l’elemento drammatico e violento dello sfalcio, dall’altro ha il sapore dell’abbondanza, del frutto atteso e sperato, del senso ultimo per cui si è pazientato e fatto crescere. È il finale che dà senso a tutto quello che c’è stato prima.
Nel nostro caso, potremmo dire che la maturità della nostra generazione sarà solo quando saremo simili al Figlio di Dio, capaci di dialogare perfettamente con Dio, e quindi di vederlo faccia a faccia, come Mosè che faccia a faccia aveva il privilegio di parlare con Dio.
A questo tende il seme divino che ci ha generati, e per questo esito fruttifero lavora sulla terra, non per alcun esito minore e più scarso.
Nel dispiegarsi del tempo storico, la comunità cristiana si rallegra di quello che spunta, non si dispera perché il frutto ancora manca all’appello… perché non è di quaggiù.
“Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. […] Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti o incompiuti. […] Infine, la comunità evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione” (EG 24).
6. Conclusione
Mi piace concludere con l’ironia del card. Biffi, che già nel 1970 prendeva in giro l’atteggiamento inquieto e frenetico di alcuni nella Chiesa, richiamando invece la fiducia nella potenza dell’opera di Dio.
«Il Regno di Dio è simile a un uomo che avendo seminato nel suo campo non si dà più pace, non dorme di notte, non sta fermo di giorno, e non si rassegna ad aspettare fino al tempo del raccolto». (Quinto Evangelo)
Questa parabola è rivolta a scuotere dalla sonnolenza i pacifisti del Regno di Dio, quelli che, col pretesto della fiducia nella Provvidenza e nella forza interiore della Parola e dei sacramenti, cercano di sottrarsi all’angoscia e all’inquietudine, sentimenti caratteristici del vero cristiano. In un mondo che è diventato in tutto problematico, la ricerca della serenità di spirito costituisce un peccato di egoismo. In un tempo che scandisce le sue ore all’insegna della frenesia, dove tutto è affanno, agitazione, apprensione, cruccio, irrequietezza, tormento, travaglio, parlare di pace interiore significa colpevolmente separarsi dalla condizione umana e perfino irriderla senza sensibilità.
Anzi il cristianesimo aggiunge altri e più sottili motivi di malessere e di rodimento a quelli che gli uomini possiedono in conto proprio e, se ci è consentito usare questo linguaggio, ne sublima ed esaspera la drammaticità. La parabola è poi un correttivo mirabile a quella deformazione teologica che è l’“escatologismo”, cioè la facilità con cui ci si perde nella contemplazione della fine del mondo e ci si dispensa – in vista dell’immancabile venuta del Regno di Dio – dalla ricerca del successo immediato. Se questo stato d’animo prevalesse, allora necessariamente l’angoscia – questa fondamentale virtù cristiana, questo regalo del cielo a una terra troppo tranquilla – non riuscirebbe a sostenersi e si piomberebbe in una placidità indegna di un discepolo di colui che ha detto: “Io sono venuto a portare non la pace ma la spada”.
Per fortuna questa malattia non è ora troppo diffusa: sono, grazie al cielo, molto numerosi gli apostoli che non concedendo tregua né a sé né agli altri, né di giorno né di notte, si costituiscono candidati per l’esaurimento e per l’infarto, autentiche e meritorie forme di martirio della vita moderna.
(Giacomo Biffi, Il quinto evangelo, fr,14).