Maria Rosa Caire

“OGNI EVENTO HAIL SUO TEMPO SOTTO IL CIELO…” recita il Qohelet: è questo per noi, per il mondo intero. il tempo della “pandemia” che ci ha resi consapevoli dell’insensatezza delle nostre certezze, dell’ambivalenza delle cose, della loro indeterminatezza.
Costretti a cambiare le nostre abitudini, obbligati al “distanziamento sociale”, abbiamo però cercato di trovare anche dei modi alternativi di incontro, di colloquio, di presenza… sfruttando le possibilità di social, computer, media…
In una delle conversazioni diramate attraverso social ho potuto ascoltare Massimo Recalcati che ha presentato Noè: il personaggio biblico che ha vissuto l’esperienza planetaria della distruzione attraverso il diluvio.
Con la creazione dell’Arca, un nido di raccolta, sopravvive all’esperienza, condividendo e… portando alla salvezza l’umanità e la natura.
Quale il primo gesto di Noè appena posato a terra il piede?
Non è raccogliere dall’albero un frutto, ma… piantare la vigna.
Non è gesto/pensiero di attenersi al presente, vivere di rendita tramite i prodotti della natura, ma fare un progetto, ridare la possibilità di aprire al futuro.
Da qui si aprono tante mie riflessioni che voglio condividere con tutti voi.
A noi, ai nostri figli, il progetto di piantare una vigna è il dono più grande che possiamo dare/ricevere. Un progetto che non attiene soltanto alla materia, ma parte dallo spirito: chiede di innalzare e di fondare, di “edificare”, per la comunione con gli altri e con Dio, che fin da principio chiese agli uomini,Adamo ed Eva, di gestire la propria esistenza attraverso il lavoro, attraverso progetti orientati al futuro, un futuro che avrebbe presentato momenti generatori di bene, come pure di male.
Generatori di vita per l’umanità tutta, dovettero certamente impostare rapporti di solidarietà, nell’amore reciproco, nella crescita di se stessi e di ogni persona del progetto a venire.
Nel tempo della pandemia, oggi, per noi, il coraggio di piantare la vigna e di non distruggere con espropriazioni, incendi, consumismo esasperato, produzione e vendita di armi,… è quello di preparare progetti di futuro per la salvaguardia della natura, la cura condivisa e porli in atto partecipando al progetto di Dio.
Pur nell’indeterminatezza del momento testimoniare che la vita non si ferma, non indossare l’abito della vittima, nè lasciarci avvolgere dalla paura: non è solo la sopravvivenza individuale che dobbiamo garantirci, ma andare oltre, curare le relazioni, curare lo spirito, un’esperienza che possa essere partecipata a chi sta attorno a noi, attraverso azioni di solidarietà, di testimonianze positive.
Voglio portare come esempio il comportamento del personale sanitario in cui PAURA e CORAGGIO non si contrappongono, ma si fondono nel senso di com-passione, di comprensione senza cercare spiegazioni al comportamento umano, di rispetto per la propria professione, nel significato più completo della parola CURA.
Vorrei poter un giorno raccontare l’esperienza vissuta in ricovero per COVID nell’ospedale torinese Mauriziano, dove la parola FRATERNITÀ è vissuta ogni attimo del giorno e della notte, e coinvolge tanto il personale tutto dell’ospedale quanto ogni “paziente”.
In verità nessuno è “paziente”, non esistono numeri, tabella a fondo del letto, ognuno è una PERSONA, ognuno è “Cefa”, il NOME.
Persona a cui gli operatori sanitari portano attenzione attraverso la cura del corpo, di ogni poro della pelle, che deve respirare, essere deterso in ogni sua più minuscola piega… sottoseno, ascelle, inguine, incavi tra le dita dei piedi… essere deterso interiormente attraverso evacuazioni programmate…, essere progressivamente portato fuori dall’infiammazione attraverso le vene…, essere rinfrancato nel respiro con il dono di ossigeno, attentamente dosato nell’erogazione…
Intanto infermieri e medici si prodigano nelle cure e dosaggi opportuni, e contemporaneamente sanno che è altrettanto importante essere rincuorati, tirare fuori le paure: paura dell’intrusione di uno straniero penetrato dentro di noi.
Si cerca sollievo in un sorriso, nei discorsi approfonditi rispetto al COVID, anche se nessuno può dare certezze.
I nostri corpi fragili ci insegnano che contemporaneamente possiamo essere OGGETTO DI CURAe DONARE LA CURA.
Il nostro corpo ha ora un significato fluttuante, ci obbliga a riconsiderare l’idea di libertà, di liberazione, a farci carico della propria parte interiore, ferita allo stesso modo di quella corporale, che nelle notti insonni e piagate ci fa gridare le parole del Salmo: “Può Dio aver dimenticato la misericordia? Aver chiuso nell’ira il suo cuore?”
Finché capisci che è il tuo cuore chiuso nell’ira, in te stesso, che devi scendere dal piedistallo, non cercare un nemico da combattere per poter ritornare alle tue sicurezze.
E allora capisci veramente di essere nulla al di fuori della relazione, che senza l’esistenza della vita dell’altro la tua vita è nulla.
Tutti quanti, impediti a vivere la relazione, ne abbiamo compreso la necessità vitale.
Ed ecco ciò che da sempre noi dichiariamo: FRATERNITÀ.
Oggi la viviamo declinata attraverso l’uso di tutti i mezzi di comunicazione, le piattaforme, i social… ma vogliamo avviarci ad un progetto futuro che tutto ingloberà al calore della presenza, del gesto condiviso, del sorriso senza mascherina.
Un grande poeta, Fernando Pessoa, ha saputo condensare tutti questi discorsi in pochi versi:
“DOBBIAMO FARE:
DELL’INTERRUZIONE, UN NUOVO CAMMINO
DELLA CADUTA, UN PASSO DI DANZA,
DELLA PAURA, UNA SCALA,
DEL SOGNO, UN PONTE
DEL BISOGNO, UN INCONTRO”.

China colorata di Maria Rosa Caire

Il Cantico
ISSN 1974-2339
Pubblicazione riservata