Lucia Baldo
Nel Ciclo “Testimoni di speranza” la Fraternità Francescana Frate Jacopa in collaborazione con la Parrocchia S. Maria Annunziata di Fossolo il 10 novembre ha proposto un incontro su “Donna Jacopa ‘frate’ di S. Francesco”. Frate Jacopa è la nobildonna romana che accolse S. Francesco pellegrino a Roma per incontrare il Papa. Essa condivise la via della penitenza evangelica in spirito di fraternità rimanendo nella sua condizione di persona impegnata nella vita famigliare e sociale. Invitata dal Santo al suo capezzale, S. Francesco dice ai suoi frati di lasciarla entrare perché “per Frate Jacopa non c’è clausura”.
L’incontro di Francesco e Jacopa assurge così a simbolo dell’incontro fecondo tra la spiritualità francescana e coloro che vivono nelle comuni occupazioni del mondo. Siamo stati guidati a cogliere questo messaggio da Lucia Baldo (referente formazione FFFJ) con l’integrazione di una presentazione per immagini ad opera di Amneris Marcucci (responsabile FFFJ dell’Umbria). Qui proponiamo la prima parte della riflessione mentre la seconda parte proposta da A. Marcucci sarà pubblicata nel prossimo Cantico.
JACOPA DONNA DEL XIII SECOLO
Di donna Jacopa dei Settesogli (o Settesoli) abbiamo poche notizie. Sappiamo che nacque circa nel 1189 (forse anche prima) e morì nel 1239, anche se questa data non convinse Paul Sabatier, biografo di S. Francesco, secondo il quale Jacopa morì anziana negli anni ‘70 del XIII secolo. Sappiamo che ella apparteneva alla famiglia dei Normanni di origine tedesca presente a Roma all’inizio del XIII secolo e già alleata, anche per via matrimoniale, dell’illustre famiglia dei Frangipani di alto lignaggio e ricca, a cui apparteneva il marito di Jacopa, Graziano Frangipane. Il nome di “Sette Sogli” le fu attribuito perché Cencio Frangipane, avo di suo marito Graziano, aveva acquistato nel 1145 il Septizonium, un edificio di sette piani sontuoso e monumentale fatto costruire nel 203 dall’imperatore Settimio Severo che lo ornò con portici e statue colossali in marmo. Il Septizonium e i terreni adiacenti entrarono in possesso della nobile Jacopa dopo che suo marito nel 1210, morendo in battaglia, la lasciò vedova in giovane età. I parenti avrebbero voluto che Jacopa si risposasse, ma ella preferì rimanere nello stato vedovile che le permise di diventare tutrice dei suoi due figli, Giovanni e Graziano (in alcuni documenti detto anche Giacomo), assumendone il compito di educatrice e di guida. Lo stato di vedovanza le consentì altresì di diventare amministratrice di tutti i beni che il marito le aveva lasciato. Jacopa avrebbe potuto evitare di assumere questo incarico gravoso che l’avrebbe esposta al rischio di ricevere in cambio del suo impegno l’opposizione dei parenti e dei benpensanti. Ma, piuttosto che lasciarsi andare all’inerzia di una passività comoda e rassicurante, preferì cogliere l’opportunità di svolgere un ruolo attivo come madre e come amministratrice dei cospicui patrimoni di cui era entrata in possesso, ruolo che solo un secolo prima, ovvero nel XII secolo, non sarebbe stato possibile esercitare. Seppe fare propria questa apertura ad agire nel mondo in un secolo in cui la virtù principale delle donne era considerata l’“immobilità” (M.G. Muzzarelli) all’interno delle affidabili pareti domestiche.
Un primo attestato dell’attività di Jacopa lo troviamo in un documento del 1217 dal quale risulta che ella rinunciò a tutti i processi o azioni che avrebbe potuto intentare contro il papa Onorio III, riguardo a ciò che sarebbe stato dovuto a suo marito sulla terra di Ninfa nella diocesi di Velletri. Ella rinunciò, cioè, a tutti gli interessi, le rendite, le annessioni e i diritti che avrebbe potuto esigere quale amministratrice dei beni di famiglia per la minorità dei suoi due figli. Inoltre decise di pagare ai nipoti del papa alcuni debiti contratti dal marito di cui, secondo la legge del tempo, avrebbe potuto non rispondere anche se questi fossero stati contratti dal marito col suo consenso. Ma fece di più, poiché promise che questa sua volontà sarebbe stata rispettata da tutti gli eredi sotto pena di un’ammenda pari al doppio del debito.
Se consideriamo che Jacopa aveva incontrato S. Francesco a Roma già nel 1212, come attesta il cronista Mariano da Firenze, non possiamo non pensare che questa sua coraggiosa presa di posizione fosse dovuta oltre che alla sua forza d’animo e di volontà, anche agli insegnamenti del Santo di Assisi di cui ascoltò il monito a compiere opere di pace e di riconciliazione, come leggiamo nella prima forma di vita per i penitenti francescani “Memoriale Propositi” del 1228: “Si riconcilino con i prossimi e restituiscano le cose altrui”. Questo punto sarà poi ripreso dalla Regola di Nicolò IV del 1289, dove al capo XVII è scritto: “I fratelli e le sorelle schivino, per quanto possono, i litigi fra loro, sedandoli sollecitamente, se mai fossero stati sollecitati” (L. Baldo, Jacopa dei Settesoli e Giovanna d’Arco: la forza della pietà, in «Il carisma materno di Francesco d’Assisi» Porziuncola 1996, p. 127).
Inoltre se consideriamo che la famiglia dei Frangipani era alleata di quella dei Normanni a favore dell’imperatore contro il papa, non possiamo non ammirare il coraggio di Jacopa che non temette di risolvere la controversia aperta dal marito con il papa risolvendola a favore di quest’ultimo. Che poi questo documento sia stato inserito nella colossale e celebre opera di Ludovico Antonio Muratori “Antiquitates Italicae Medii a Evi” sta a significare il prestigio di cui godette la famiglia dei Frangipani.
Un’altra data importante nella vita di Jacopa e di suo figlio Giovanni, è il 1237 quando, secondo E. D’Alençon, essi decisero, come è attestato in un documento, di conservare tutte le “buone consuetudini” vigenti nella città di Marino di cui i Frangipani erano signori. Giovanni, ormai maggiorenne, avrebbe potuto agire indipendentemente dalla volontà materna, invece si dimostrò in comune accordo con lei, rivelando una profonda intesa e una comunione sincera di intenti con la santa madre. Il documento non ci rivela quali fossero le “buone consuetudini” da conservare, ma indica una disponibilità da parte di Giovanni a non opprimere i suoi sudditi, bensì a favorire un governo liberale più in linea con i dettami del santo Vangelo.
G. Tommassetti preferisce anticipare la data di questo documento al 1227. Se così fosse sarebbe ancora più facile collegare la buona legislazione di Giovanni, chiamato “padre” dai marinesi, all’insegnamento di S. Francesco morto solo un anno prima nel 1226, quando Jacopa insieme al figlio Giovanni e forse anche a Graziano, fu ricevuta al capezzale di S. Francesco morente, come narrano le Fonti Francrescane.
Dopo Jacopa e Giovanni altri signori feudali, grazie al loro esempio, seguirono vie di pace e di riconciliazione, ma prevalentemente nella seconda metà del XIII secolo quando questi patti divennero una prassi ricorrente, anche in conseguenza dell’intervento del Comune di Roma per far cessare la prepotenza baronale a danno dei vassalli.
Inoltre Giovanni seguì l’invito di S. Francesco a non lasciare nessun bene intestato. Per questo egli stabilì che alla morte dei suoi due figli, privi di discendenza, i suoi beni andassero oltre che ai monasteri di S. Saba a Roma e di S. Maria di Grottaferrata, anche ai poveri di Marino. Adempì così il monito di S. Francesco contenuto nel Memoriale Propositi: “Tutti quelli che possono di diritto, entro tre mesi dalla promessa, facciano testamento e dispongano dei loro averi, affinché nessuno di essi deceda intestato”.
LETTERA DI S. FRANCESCO A FRATE JACOPA
A donna Jacopa, serva dell’Altissimo, frate Francesco poverello di Cristo, augura salute nel Signore e la comunione dello Spirito Santo. Sappi, carissima, che Cristo benedetto, per sua grazia, mi ha rivelato che la fine della mia vita è ormai prossima. Perciò, se vuoi trovarmi vivo, vista questa lettera, affrettati a venire a Santa Maria degli Angeli, poiché se non verrai prima di tale giorno, non mi potrai trovare vivo. E porta con te un panno di cilicio in cui tu possa avvolgere il mio corpo e la cera per la sepoltura. Ti prego ancora di portarmi di quei dolci, che eri solita darmi quando mi trovavo ammalato a Roma (FF 253-255).
Questa lettera dettata da S. Francesco ai frati perché la inviassero a donna Jacopa affinché venisse urgentemente a trovarlo, poiché sapeva che la sua morte era prossima, in realtà non fu mai recapitata, perché la nobildonna romana prevenne la richiesta del Santo mettendosi di sua iniziativa in viaggio da Roma a S. Maria degli Angeli, per giungere in tempo a dare al Santo l’estremo saluto. È proprio di chi vive nella comunione dello spirito anticipare i desideri dell’altro, come attesta Dante nella Divina Commedia, a proposito di Maria nei confronti di coloro che la invocano: “La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate al dimandar precorre” (Par. XXIII,18).
Per sapere quale fosse il rapporto tra S. Francesco e donna Jacopa dobbiamo soffermarci sulle prime due righe della lettera, poiché comprendere il significato e il senso di esse significa intendere la portata di tutta la lettera.
Innanzitutto colpisce il tono dell’incipit che non è apologetico o agiografico e nemmeno disperato, ma improntato a realismo e allaconsapevolezza della gravità della situazione. Non che il Santo non avesse conosciuto mai la disperazione. Infatti due anni prima, nel 1224, in preda alle malattie e alle tribolazioni, era stato colto da una crisi profonda di sconforto per il timore di avere fallito nella sua vita, peccando di orgoglio per avere cercato di seguire da vicino le orme di Cristo. Allora si rivolse al Signore invocando il suo aiuto: “Signore, vieni in soccorso alle mie infermità…” (FF 1614). E il Signore gli rispose promettendogli la salvezza e chiamandolo “fratello”. Questa consapevolezza di essere salvato non lo abbandonò più. Di qui la perfetta letizia che impronta l’incontro di Jacopa col Santo. Egli è morente e sofferente, eppure è pacificato per la comunione di spirito che, in Cristo, lo unisce a Jacopa.
Jacopa è “serva dell’Altissimo” e S. Francesco è “poverello di Cristo”. Entrambi sono rimando all’Altro, non rimandano a se stessi, non sono autoreferenziali, sono simbolici dell’Alterità, sono “immagine e similitudine del Signore” (cf Gn 1,27). Se l’uomo è autoreferenziale diventa dio di se stesso, come voleva Lucifero: “sareste come Dio” (Gn 3,5). Invece Jacopa è “serva dell’Altissimo”, non nel senso terreno di soggezione forzata che toglie la libertà. Il servizio del cristiano è riconoscere di avere ricevuto dei doni da Dio.
E poiché il nome dello Spirito Santo per S. Francesco è Dono, servire vuol dire ascoltare la voce dello Spirito ed essere responsabili, ovvero dare delle risposte al Signore che interpella.
La vita di S. Francesco è stata tutta ascolto e risposta alla voce dello Spirito che chiama. Anche la lettera dettata da S. Francesco è animata dal dinamismo dello Spirito che incoraggia Jacopa ad affrontare un lungo e (per l’epoca) pericoloso viaggio da Roma a S. Maria degli Angeli, ed è lo stesso Spirito che suggerisce a S. Francesco di farla venire, mosso dalla premura accorata di porgerle l’estremo saluto. Tutto nella lettera ha l’impronta del dono: Jacopa dona a Francesco il necessario per le esequie e i dolci preparati da lei; Francesco dona a se stesso la gioia di un incontro festoso con la cara amica e dona a Jacopa il privilegio di vivere in comunione con lui gli ultimi istanti della sua vita. Tutto è visto nella prospettiva soprannaturale del dono dello Spirito di Dio che ispira tutti i presenti a vivere l’ultimo atto della vita di S. Francesco, nella speranza e nell’attesa della beatitudine eterna.
”Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito (Gv 3,8); animata dallo Spirito è Jacopa, “serva dell’Altissimo” e come lei tutti i cristiani che sono chiamati a lasciare che lo Spirito agisca in loro, cioè a intendere il servizio non come qualcosa di statico, ma come un impegno continuo a moltiplicare i doni ricevuti che non devono rimanere nascosti.
Se Jacopa è “serva dell’Altissimo”, Francesco è “poverello (“pauperculus”) di Cristo”. Nelle Fonti Francescane solo qui il Santo viene chiamato poverello. Altrove è più facile trovare l’appellativo “piccolino” (“parvulus”).
Questo dimostra che la lettera è stata molto letta e divulgata, poiché quando si parla del Poverello tutti intendono S. Francesco, grazie a questa lettera. Il diminutivo poi indica la letizia di Francesco uomo salvato e per questo beato e pacificato.
Il seguito della lettera riporta le richieste che S. Francesco vuol fare a Jacopa: “Porta con te un panno di cilicio”. Sembra che solo lei debba prendersi cura del suo corpo dopo la morte: “in cui tu possa avvolgere il mio corpo”. La tenerezza di queste parole fanno pensare alla pietà con cui Maria tiene fra le braccia il corpo di Gesù crocifisso come in un porto sicuro di approdo dopo tanta sofferenza. La pietas è il cuore della fraternità intesa come il soccorso più grande che ci sia alla fragilità della corporeità umana. “La fraternità vuol dire avvertire continuamente la croce del corpo dell’uomo in cui si feconda o si moltiplica la spiritualità stessa” (L. Baldo, Jacopa dei Settesoli e Giovanna d’Arco: la forza della pietà” in «Il carisma materno di Francesco d’Assisi, Porziuncola, p.133).
Grande è la pietas di chi accoglie tra le braccia chi non si può più difendere e che è in balia di tutti, come accade al corpo di un defunto! La parola “uomo” secondo G. B. Vico deriva da humus (terra) in quanto la dignità dell’uomo trova la sua origine nella cura e nella custodia dei defunti, attraverso il rito dell’inumazione.
Poi il Santo chiede a Jacopa la cera per la sepoltura. Se il panno indica il lutto, la cera da cui i frati avrebbero dovuto ricavare le candele, indica la bellezza della luce. Nel Cantico delle creature dove c’è luce (luna, stelle, sole, fuoco) c’è bellezza, c’è letizia, c’è vita che non muore, c’è risurrezione.
Infine S. Francesco le chiede “quei dolci” che era solita dargli quando si trovava ammalato a Roma. Prevale la dolcezza rispetto all’amarezza del lutto raffigurato nel panno color della cenere. Prevale la luce al buio della morte. Prevale la gioia dell’incontro al dolore per il distacco imminente e definitivo. Dalla lettera sembra che Jacopa sia indispensabile per le esequie. In realtà i frati avrebbero potuto da soli provvedere a tutto il necessario per il rito funebre. Eppure qui l’attenzione ricade tutta su Jacopa che il Santo designa come sua erede spirituale, dimostrando il coraggio di includere tra i suoi affetti e i suoi eredi spirituali una donna, espressione del carisma laicale e materno che la spiritualità francescana non può disattendere (cf Il carisma materno di Francesco d’Assisi I e II, Porziuncola). Ella è al centro dei pensieri di S. Francesco come se ci fosse solo lei, quasi a dimostrare che, come dice R. Manselli, “se fosse mancata un’incidenza femminile nel Francescanesimo, dovremmo limitare il significato storico stesso di Francesco d’Assisi”.
S. Francesco è sempre in questa disponibilità alla pienezza del dono di sé a ogni fratello e a ogni sorella in Cristo.
Pensiamo al corteo funebre di S. Francesco quando egli per sua volontà viene portato a S. Damiano per l’ultimo saluto a Chiara. In quel momento Chiara vive il privilegio del compianto concesso solo a lei e alle sue sorelle come solo a Jacopa viene concesso il privilegio dell’incontro negli ultimi istanti della vita del Santo.
Ma anche fra Bernardo gode del privilegio di essere chiamato dal Santo a condividere i gustosi dolci cucinati a S. Maria degli Angeli da Jacopa. Bernardo per S. Francesco era il primo frate che portò a compimento la perfezione del Vangelo. Perciò il Santo si sente “tenuto ad amarlo più di ogni altro frate della Religione. Voglio perciò e comando, per quanto io posso, che chiunque sia ministro generale lo ami e lo onori come farebbe con me…” (FF 1555).
Per S. Francesco ogni persona ha il valore della totalità e della pienezza che sono proprie di chi vive la vita come dono. Senza lo Spirito Santo noi non potremmo donare, perché è Lui la fonte del nostro farci dono.
JACOPA NEL “TRATTATO DEI MIRACOLI DI SAN FRANCESCO”
Le Fonti francescane più vicine al tempo della vita del Santo di Assisi (Vita I e Vita II di Tommaso da Celano) non riportano la notizia dell’ultimo incontro di Jacopa con S. Francesco. La stessa cosa si può dire della “Legenda Maior”, la biografia ufficiale del Santo scritta da S. Bonaventura e presentata nel 1263 al Capitolo generale di Pisa, la quale avrebbe dovuto sostituire tutte le biografie precedenti di cui nel 1266 fu decretata la distruzione, per dare unità alle testimonianze raccolte fino allora sulla vita del Santo. Ma per fortuna questo comando venne eseguito solo in parte.
Se dell’episodio dell’ultimo incontro di Jacopa con S. Francesco non troviamo traccia né nella Legenda Maior di S. Bonaventura né nelle due Vite del Celano, probabilmente è perché era imbarazzante per i frati raccontare che S. Francesco in punto di morte avesse ammesso una donna al suo capezzale, violando la regola della clausura, prevista dalla Regola.
Troviamo però testimonianza di questo incontro nel “Trattato dei miracoli di San Francesco”, la terza biografia scritta dal Celano agli inizi degli anni ’50 del XIII secolo, per ordine del ministro generale Giovanni da Parma che voleva fossero aggiunti altri miracoli oltre a quelli già inclusi nelle precedenti biografie, allo scopo di dimostrare la santità di Francesco e dei suoi frati in un momento in cui l’Ordine era guardato con diffidenza dall’Università di Parigi, dal clero secolare e dai vescovi perché il ministro generale era sospettato di simpatizzare per le idee gioachimite condannate dal papa. Di qui il tono apologetico dell’opera che è contraddistinta dall’enfasi sulla santità di Francesco, l’“uomo nuovo” equiparato a Cristo (F. Uribe, Introduzione alle fonti agiografiche di san Francesco e santa Chiara d’Assisi, secc. XIII-XIV, Porziuncola, p.124).
Celano è l’unico tra i biografi del Santo che nel “Trattato dei miracoli” chiama Jacopa “fratello”.
Questa denominazione ha avuto tanto successo da essere rimasta strettamente congiunta al nome di Jacopa, quasi fosse un secondo nome. Il Celano scrive: “Aprite le porte, esclama [S. Francesco], e fatela entrare, perché per fratello Giacoma non c’è da osservare il decreto relativo alle donne!” (FF 860).
Dalla prima Vita del Celano sappiamo che Francesco conosceva solo due volti di donna, che non potevano essere che quello di Chiara e di Jacopa. Infatti egli era molto selettivo nel suo rapporto con le donne che vagliava con severità. Ma quei due volti indicavano una comunione di spirito rara e di origine soprannaturale. Nel “Trattato dei miracoli” il carattere soprannaturale del rapporto fra Jacopa e S. Francesco viene accentuato attraverso l’esaltazione delle stigmate del Santo di Assisi che Jacopa scopre e che grazie a lei vengono esposte all’attenzione del popolo come un tesoro prezioso da non tenere nascosto, come invece sarebbe stato desiderio di lui: “[Jacopa] ammira quelle cesellature, degne dell’ammirazione di tutto il mondo, che la mano dell’Onnipotente aveva scolpito; e così d’un tratto piena di insolita letizia, si rianima tutta alla vista dell’amico morto. Subito suggerisce che … lo si mostri agli occhi di tutti. Accorrono perciò tutti a gara a tale spettacolo…”. “Le ferite di Francesco a contatto con le ferite di Cristo diventano segno di un amore donato e sono trasformate in grazia di bellezza e di amore” (Suor Lorella Mattioli).
Infine il Celano, nel “Trattato dei miracoli”, qualifica Jacopa come una “pellegrina” che aveva ricevuto il “privilegio di tanta grazia…” (FF 862). Se ci soffermiamo sulle parole con cui il Celano descrive l’arrivo di Jacopa non possiamo non renderci conto del prestigio sociale di cui godeva “fratello Giacoma”: “All’improvviso si udì alla porta un calpestio di cavalli, uno strepito di soldati e il rumore d’una comitiva… ” (FF 860).
E poco prima per presentarla scrive: “Non sta a me ripetere, a lode di lei, l’illustre casato, la nobiltà della famiglia, le ampie ricchezze…” (ibidem).
Dopo questa presentazione non possiamo non de rilevanza sociale e politica, mentre diano risalto all’accertamento delle stigmate fatto da un certo “messere Geronimo”, uomo dotto e “incredulo come Tommaso” di cui parla solo S. Bonaventura nella sua biografia (FF 1249).
Giotto, terziario francescano, non poteva esimersi dal compito assegnatogli dalla committenza, di ispirarsi, nell’esecuzione degli affreschi, alla biografia ufficiale della Chiesa, scritta da S. Bonaventura. Rimangono comunque le perplessità suggerite dall’appassionata ricercatrice di S. Francesco Angela Maria Serracchioli, prima traduttrice nel 2006 del libro di É. D’Alençon “Frate Jacopa l’amica di Francesco”, la quale, nell’Introduzione al libro del D’Alençon edito dalle Edizioni Francescane Italiane nel 2024 (p. 20), si chiede: “Perché un «celebre dottore e letterato» avrebbe dovuto divenire il garante dell’autenticità delle stigmate…? In più nel dipinto questa figura stende la mano verso la ferita del costato di Francesco impugnando un fazzolettino, il fazzoletto nuziale di cui parla D’Alençon che si conserva fra le reliquie di Francesco in Basilica? E poi si vede bene che le trecce sono state cancellate e spuntano solo dalla mantellina” (ibidem). Come si vede c’è ancora molto da scoprire del personaggio frate Jacopa, affascinante e misterioso a un tempo.
JACOPA NEI “FIORETTI” E NELLA “COMPILATIO ASSISIENSIS”
I “Fioretti” sono un’opera tardiva, della fine del XIV secolo, probabilmente scritta da Ugolino da Montegiorgio appartenente al gruppo dei frati Zelanti che volevano seguire le parole del Santo sine glossa, cioè senza modificare né attenuare la radicalità di vita proposta da Francesco. Nei “Fioretti” Ugolino e i suoi collaboratori raccolgono tradizioni scritte e orali trasmesse dai primi compagni del Santo.
I “Fioretti” sono un’opera vivace, gradevole, ma che, non essendo un’opera storica, richiede l’esercizio di una critica attenta che sappia interpretare il messaggio contenuto nei suoi racconti caratterizzati dal primato dei miracoli e delle visioni.
Delle stigmate di Francesco che Jacopa scopre nel suo ultimo incontro con lui, i Fioretti dicono: “…questa madonna s’inginocchiò ai piedi di S. Francesco e prendé quei santissimi piedi segnati e ornati delle piaghe di Cristo; e con sì grande eccesso di divozione gli baciava e gli bagnava di lagrime i piedi, che ai Frati che stavano d’intorno, parea vedere propriamente la Maddalena a’ piedi di Gesù Cristo; e per nessuno modo la ne poteano spiccare” (FF 1947).
Qui il tema ritenuto fondamentale è quello della conformità di Francesco a Cristo. Tutto quello che S. Francesco dice e compie rimanda sempre agli atti e alle parole di Cristo, così come la figura di Jacopa rimanda alla Maddalena. Tutto richiama il Vangelo.
La “Compilatio Assisiensis”, invece, non parla di Jacopa in preghiera davanti alle stigmate di Francesco, ma preferisce caratterizzare con forza gli aspetti dell’umanità povera e umile del Santo, lasciando minor spazio al sensazionale (che pure non manca del tutto). Forse proprio per mettere in risalto l’umiltà e la discrezione di Francesco, questa fonte francescana dice che il Santo non pretese che Jacopa facesse un viaggio lungo e pericoloso per venire da lui ad Assisi (come dicono le altre Fonti), ma chiese solo che gli mandasse dei doni. Inoltre la“Compilatio Assisiensis” caratterizzata da un certo realismo, preferisce introdurre alcuni dettagli come quello della richiesta da parte di S. Francesco “del panno grezzo color cenere del tipo di quello tessuto dai monaci cistercensi nei paesi d’oltremare” e di quel dolce che lei era solita preparargli quando soggiornava a Roma.
“Si tratta del dolce che i romani chiamano mostacciolo, ed è fatto con mandorle, zucchero o miele e altri ingredienti” (FF 1548). Nessun’altra Fonte è così precisa e ricca di particolari. Infatti il “Trattato dei miracoli” e i “Fioretti” parlano genericamente di un panno color della cenere e chiamano i mostaccioli in modo generico: “un certo piatto” (ferculum quoddam) nel “Trattato dei miracoli” (FF 860) o “quelle cose da mangiare” (de illis commestilibus”) nei “Fioretti” (FF 1946), quasi a non voler ‘sminuire’ la grande santità di lui attribuendogli il desiderio di partecipare a un semplice gesto di piacevole convivialità. In realtà la “Compilatio Assisiensis” attribuisce a quei dolci un significato simbolico di affettività, di consolazione e di riconoscenza verso Jacopa, senza perdere il realismo tipico di questa fonte. Infatti dice: “Ma egli lo assaggiò appena, poiché per la gravissima malattia le sue forze venivano meno inesorabilmente…” (ibidem), mentre i “Fioretti” dicono: “Mangiato che egli ebbe, e molto confortatosi, questa madonna Jacopa s’inginocchiò a’ piedi di San Francesco…
Sappiamo che il Santo amava accompagnare ed esprimere i moti dell’animo attraverso i sensi fisici, come quello del gusto. Pensiamo a quando pronunciava il nome di Betlemme e sulle labbra gli sembrava di sentire la dolcezza del miele! I sensi fisici accompagnavano e davano risalto allo spirito di perfetta beatitudine di S. Francesco, diventando sensi spirituali.
Il linguaggio di Jacopa e di S. Francesco è spirituale. Infatti nella “Compilatio Assisiensis” Jacopa ai frati presi dallo stupore perché lei era stata in grado di prevenire le richieste del santo, dice: “Fratelli, mentre stavo pregando, mi fu detto in spirito: «Va’ e visita il tuo padre Francesco»” (FF 1548). Anzi in aggiunta ai doni richiesti, Jacopa per ispirazione divina porta anche l’incenso, segno di santità.
Anche nel “Trattato dei miracoli” Jacopa mostra una generosità eccedente rispetto alle richieste del Santo.
Infatti porta una “sindone per il volto” e un “cuscino per il capo”. Invece “I Fioretti” sono la fonte più essenziale, poiché essi, come gli “Actus Beati Francisci” (XVIII) da cui sembrano derivare, si limitano ad inserire la lettera a Jacopa, anziché riportarne una sintesi fatta dall’autore (come fanno le altre Fonti), introducendo così una nota di vivacità e di immediatezza che contraddistingue questa fonte, anche se in essa si attenua l’intimità espressa nella lettera dalle parole: “… tu possa avvolgere il mio corpo”, trasformandola in un più generico e impersonale: “si rinvolga il corpo mio”.
Nella “Compilatio Assisiensis” il riferimento di Jacopa alla figura della Maddalena, tratta dal Vangelo, si arricchisce del riferimento ai Magi che portano doni a Gesù Bambino. In questo modo si mette in evidenza che Jacopa, come i Magi, porta incenso (segno di sacralità), oro (come i dolci segno di dolcezza e di letizia) e mirra (amara come il lutto segnalato dal “panno grezzo color cenere)”. E come i Magi indicano l’apertura del messaggio cristiano a tutti i popoli e a tutte le culture del mondo, così Jacopa indica l’apertura di S. Francesco a tutti gli uomini e a tutte le donne del mondo.
L’EPISODIO DELL’INCONTRO DI S. FRANCESCO E JACOPA NEI BIOGRAFI MODERNI
Prima della Rivoluzione francese S. Francesco non ha inciso fino alle fibre profonde della civiltà occidentale, ma è rimasto relegato nel mondo ecclesiale, pur essendo annoverato tra i santi di grande rilievo. Sono stati soprattutto i laici non cattolici a ricuperarne la portata storica nello spirito di liberté, egalité e fraternité della Rivoluzione francese da cui ebbe origine il Romanticismo. Ricordiamo lo storico Jules Michelet romantico e anticattolico che, nella sua “Storia di Francia”, cita S. Francesco dicendo che, col suo amore infiammato, scuote gli uomini e fa loro ricuperare la propria libertà umana e creatività personale nel campo religioso, sottraendolo alla tutela livellatrice della Chiesa e facendolo così diventare promotore della civiltà nuova che ha segnato il passaggio dal Medio Evo al Rinascimento. Ma anche nella corrente romantica dei cattolici (Chateaubriand) si è cominciato a vedere in S. Francesco una ricchezza della civiltà occidentale e della storia del mondo, oltre che della storia della Chiesa.
Paul Sabatier è stato fondamentale per porre le basi della moderna biografia francescana col suo celebre libro “Vita di San Francesco d’Assisi” la cui prima pubblicazione risale al 1886 e che in meno di vent’anni (fino al 1904) ha avuto ben trentadue edizioni in varie lingue ed è ancor oggi di grande attualità. L’incontro con S. Francesco cambiò totalmente la sua vita facendo nascere in lui nuovi interessi. Infatti si dedicò allo studio critico delle Fonti Francescane, in particolare dello “Speculum Perfectionis”. A parte lo spirito antipapale che attraversa il suo libro su S. Francesco, bisogna riconoscere che esso è animato da grande spiritualità e profondità. Il limite di questo autore risiede nell’aver voluto privilegiare una Fonte come lo “Speculum Perfectionis” che egli con ostinazione considerò del 1227, mentre tutti i critici sono concordi nel privilegiare la data del 1318, quando l’Ordine francescano era animato da una polemica interna che Sabatier fa propria e che vedeva contrapposti i Frati Spirituali ai Conventuali. Nonostante ciò, preso da questo fervore di studi delle Fonti francescane e dalla profondità della spiritualità francescana, egli lasciò il suo incarico di pastore calvinista e andò a trascorrere ad Assisi gli ultimi anni della sua vita. Per questo i calvinisti lo radiarono, mentre i cattolici lo emarginarono, perché non mancavano in lui punte polemiche nei confronti della Chiesa che accusò di avere tradito la valorizzazione del carisma laicale promossa da S. Francesco.
Degna di interesse è anche la biografia scritta da Giovanni Joergensen, poeta luterano, intitolata “San Francesco d’Assisi” (1907). Anche questo autore si stabilì ad Assisi dopo essersi convertito alla fede cattolica. Di Sabatier affermò: “Quest’unico uomo seppe risvegliare l’interesse di tutta l’Europa per S. Francesco d’Assisi”.
Tutte le biografie successive sono in questo polo magico: Sabatier e Joergensen. Entrambi hanno valorizzato il personaggio di Jacopa e l’ultimo incontro con S. Francesco.
Per il francescanista p. C. Bigi più che di Ordine francescano bisogna parlare di “popolo francescano in movimento”, in perenne tensione tra l’aspetto esperienziale o dei semplici e l’aspetto culturale o concettuale di S. Bonaventura e di Giovanni Duns Scoto.
S. Francesco ha posto alla radice del suo movimento di popolo il rinnovamento dello spirito evangelico aperto a tutti. Egli ha accolto tutti (anche i briganti): quelli provenienti dalle varie classi sociali, i dotti e gli indotti, gli uomini e le donne, i laici e i chierici.
S. Francesco ha fatto da ponte perché ha unito il popolo alla gerarchia, il Medio Evo al Rinascimento.
In questo spirito di rinnovato interesse per gli studi francescani, ha trovato spazio e interesse la figura di Jacopa che Joergensen al termine del suo libro immagina inginocchiata nella cappelletta della Porziuncola che, dopo la morte del Santo “le sarà parsa tanto triste e deserta, avrà pensato, piangendo, a colui… che mai più chiamerebbe lei dolcemente “frate Jacopa”.
Pare che Jacopa abbia trascorso gli ultimi anni della sua vita ad Assisi dove trovò sepoltura prima nella Basilica inferiore di S. Francesco e poi nel 1932, accompagnata da un corteo trionfale per le strade di Assisi, insieme ai resti dei più intimi compagni di S. Francesco (Masseo, Rufino, Leone e Angelo), fu trasferita nella cripta della stessa Basilica in posizione frontale rispetto a S. Francesco, quasi a voler indicare il corrispettivo laicale e femminile della spiritualità del Santo di Assisi.
Il Cantico
ISSN 1974-2339
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