Relazione presentata al Convegno Pastorale: “Educare alla vita buona del Vangelo…
Verso Firenze 2015″ (Diocesi di Massa Carrara-Pontremoli, 21/9/2013)-1ª parte
La crisi dell’educazione e la sfida della fede
Si dice che viviamo in un’era secolarizzata. Ma affermare che la fede oggi è in crisi non significa pensare che in passato fosse in auge. Ritenere che la sfida della fede sia una questione da collocare solo in epoca moderna è un errore strategico oltre che storico, che induce ad atteggiamenti nostalgici verso un passato mitizzato e a comportamenti paralizzanti per quel che riguarda il presente, ritenuto ingestibile1.
L’atteggiamento da riscoprire oggi è quello dell’educare che non pone nel passato l’età dell’oro, ma nel futuro lo spazio della possibilità. Tipica del cristianesimo è questa lettura proiettata in avanti anziché ripiegata sul passato. E tutta la cultura moderna, senza saperlo, se ne è fatta interprete rispetto alla cultura antica e pagana.
Prendiamo per esempio la scienza, che tradizionalmente viene contrapposta alla fede. In realtà questa segue uno schema cristiano senza saperlo: il passato è ignoranza, il presente ricerca, il futuro progresso. Ma anche il pensiero di Marx ha questo presupposto cristiano: il passato è ingiustizia, il presente rivoluzione, il futuro giustizia. Lo stesso per Freud: nel passato si colloca il trauma, cioè l’origine della nevrosi, nel presente l’analisi, nel futuro la guarigione.
La modernità, con la sua valorizzazione del singolo, della sua libertà, della sua capacità di azione e di cambiamento è pienamente figlia del pensiero cristiano, anche se vuole rinnegare le radici.
Se questo è vero occorre ritrovare l’audacia di educare tenendo conto di alcuni caratteri – questi sì, innegabili – che descrivono la condizione dei nostri tempi.
Mi limito ad enumerare alcuni aspetti che fanno l’uomo e la donna di oggi:
• L’ipoteca di un io debole e sfilacciato
• L’ipoteca della scomparsa del padre
• L’ipoteca di una velocità che si fa fugacità
• L’ipoteca di una flessibilità che si trasforma in precarietà.
L’io debole e frantumato è la prima condizione da non sottovalutare. Da Piero della Francesca a Picasso potrebbe essere il percorso dell’uomo moderno che passa da una forte e quasi ostentata unità prospettica a un io frantumato, moltiplicato, scomposto in una molteplicità di punti di vista giustapposti ed equivalenti, disperso.
Nell’incontro con Dio, come in ogni incontro, l’io è essenziale. Se manca diventa tutto più difficile. L’arte di risvegliare l’io è il primo esercizio richiesto oggi a un uomo che fatica a trovare se stesso prima ancora che Dio. La fede è la forma più alta di libertà. Ma proprio questa paradossalmente sembra negata da un vissuto che sembra preordinato e orchestrato fin nei dettagli. Come fare?
La perdita del padre è parte di quel processo di ridefinizione dei sessi che pone al centro la questione della generatività prima che quella del genere. Ha scritto di recente sul tema M. Recalcati in Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo la morte del padre. Edipo e Narciso sono due personaggi centrali del teatro freudiano. Il figlio-Edipo è quello che conosce il conflitto con il padre e l’impatto beneficamente traumatico della Legge sulla vita umana. Il figlio-Narciso resta invece fissato sterilmente alla propria immagine, in un mondo che sembra non ospitare più la differenza tra le generazioni. Le nuove generazioni appaiono sperdute tanto quanto i loro genitori. Questi non vogliono smettere di essere giovani, mentre i loro figli annaspano in un tempo senza orizzonte. Telemaco, il figlio di Ulisse, attende il ritorno del padre; prega affinché sia ristabilita nella sua casa invasa dai Proci la Legge della parola. In primo piano una domanda inedita di padre, una invocazione, una richiesta di testimonianza che mostri come si possa vivere con slancio e vitalità su questa terra. Come interpretare questo desiderio di ereditare rispetto alla sterilità di figure adulte spesso in cerca di autore ben oltre la propria età biografica? La generatività è la questione che si innesta in quella dell’educazione. Se mancano figure che diano la possibilità di ereditare con una presenza autorevole, reciproca e asimmetrica diventa difficile superare l’afasia della vita e del credere.
La velocità cui è sottoposta la condizione umana nell’epoca del web sta modificando forma mentis, relazioni e perfino la stessa esperienza credente. Se correre è diventato un modo per l’uomo di oggi di superare la barriera del suono della finitezza, ciò nondimeno c’è un prezzo molto alto da pagare. Velocità significa pure fugacità. Ne segue un senso di incertezza e di instabilità che taglia alla radice qualsiasi possibilità di dare continuità alla nostra vita. In questo contesto si comprende come scelte di vita definitive, impegni duraturi e coinvolgimenti per sempre sono sempre più difficili da assumere. La stessa fede rischia di essere una stagione soggetta alle variazioni di umore e di stile di vita.
La precarietà in ambito lavorativo, come effetto della transizione ad una società post-industriale è un altro tratto del vivere oggi. Se diventa difficile conservare il posto di lavoro, che come scriveva Simone Weil è una fondamentale fonte di radicamento, ciò significa che non ci si identifica più con quel che si va facendo e scatta una sorta di riserva mentale rispetto a quello che temporaneamente si sta operando. La flessibilità richiesta dalla precarietà, unita ai ritmi sempre più frenetici del mondo del lavoro, finisce per instillare un senso di relatività e un deficit di concentrazione che riduce il proprio lavoro a una variabile ininfluente e dunque non degna.
Viviamo “tempi duri” per la fede, non vi è dubbio. Ma solo per la fede o anche per la vita? Se è vero che viviamo “vite che non possiamo più permetterci” (Z. Bauman), la fede non è però un lusso insostenibile. Resta una possibilità alla portata della libertà umana. Dipende anzi da essa la qualità umana del nostro oggi e soprattutto del domani.
Domenico Pompili
1 Cfr. A Spadaro, Intervista a Papa Francesco, in CivCatt 2013 III, 468: “C’è infatti la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio ‘concreto’, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele non ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo ‘barbaro’ finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi”.