Elisa Manna

Elisa MannaAlcuni fatti di cronaca nera, come il recentissimo efferato assassinio dopo feroce tortura perpetrato a Roma per ‘vedere l’effetto che fa’, possiedono la capacità di metterci di fronte al male e alle nostre paure. E mentre psichiatria, sociologia e diritto si contendono il campo della lettura e interpretazione di simili eventi che provocano un misto di repulsione e di sgomento, accompagnato dalla volontà di sapere di più, si rinnova in tanti di noi un grande interrogativo, che ci inquieta, rispetto alle origini del male assoluto. Come è già avvenuto per altri casi (un esempio per tutti il delitto di Cogne) ci chiediamo con angoscia che cosa possa produrre tanta crudeltà, tanta violenza come, appunto, nell’ultimo fatto di sangue di Roma.
Tutti ci auguriamo di non dover assistere al profluvio di minuziose e morbose ricostruzioni, già peraltro ‘partite’. Ma tant’è, purtroppo è facile prevedere che la società dello spettacolo farà il suo corso. Però possiamo provare a guardare a questa terribile vicenda come se fosse una chiave di lettura e di critica del modello di ‘cultura’ in cui siamo immersi, un’occasione per prendere maggiore consapevolezza delle dinamiche che attraversano la società che ci circonda.
Un nodo cruciale che il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco ha ben racchiuso, lunedì scorso, in una piccola serie di notazioni e di interrogativi: «Quale tipo di educazione la società offre alle giovani generazioni? In questione ci sono loro ma anche, e molto, noi adulti. Non solo la famiglia e la scuola, ma la società intera: quali valori, quali ideali, quali capacità di raziocinio, di governo delle proprie emozioni, quale idea di libertà e di amore, quale valore delle regole e della legalità… stiamo presentando?».
Una prima considerazione riguarda la reazione dei padri degli assassini, che hanno sentito il dovere di affidare a canali mediatici – uno alla televisione, l’altro ai social – le loro ‘reazioni ufficiali’.
Quest’urgenza di una rappresentazione mediatica ci dice due cose: la prima è che per troppi l’esistenza passa ormai da quello che i media dicono di noi; la seconda è che questa è una società in cui non si riesce a tollerare di essere considerati perdenti, schiacciati dal destino, neanche quando il dolore ci dovrebbe chiudere la gola. Bisogna rivendicare subito il proprio medagliere, parlare di quanto siamo stati bravi anche quando sarebbe più naturale chiudersi in uno stuporoso silenzio o sciogliersi in lacrime liberatorie e di vicinanza alle vittime.
La società in cui viviamo sembra dirci che dobbiamo essere subito in grado di superare ogni dolore, ogni vergogna, perché altrimenti ci mostreremmo deboli, perdenti e verremmo ‘scartati’. E questo convincimento inconsapevole è talmente penetrato nelle fibre profonde della collettività che ha investito le coscienze di politici, banchieri, leader d’opinione. E così li vediamo, quando inquisiti o platealmente compromessi, sbruffoneggiare in tv, lo sguardo sfrontato, il sorriso finto. Sanno che debbono rialzarsi immediatamente, anzi, che bisogna negare di essere mai caduti…
Questa urgenza di mostrarsi sempre al meglio si intreccia però con un narcisismo ipertrofico, gonfio di sé. Il narcisismo di un’epoca disperata che ci lascia soli a lustrare un ego smisurato, nutrito di ‘like’ sui social dove esponiamo orgogliosi le nostre foto mentre dormiamo, mangiamo, sbadigliamo, ci tocchiamo un brufolo che minaccia il nostro bel faccino, mentre facciamo le boccacce vezzosi come pargoletti di due anni. Già, come pargoli: questo è un altro aspetto da sottolineare.
Viviamo in una società in cui ognuno vorrebbe essere blandito, ammirato, lusingato, come si fa con i bebé, meglio, come mamma pubblicità ci ripete: tu vali, tutti ti guarderanno, tutti ti applaudiranno basta usare il tal profumo o la tal macchina. Un mondo i cui abbiamo diritto (come ci ripete mamma pubblicità) ad avere sempre il meglio, a godere di attimi imperdibili, ad aspettarci consenso e approvazione dagli altri.
E ancora: cosa ci dice la reazione immediata del padre di uno degli assassini pronto a giustificare, anzi a definire ‘modello’ questo figlio scellerato, se non che siamo in presenza dell’acuzie, dell’estremizzazione patologica di un comportamento che ormai avvelena le giornate di troppi professori a scuola, con i genitori sempre pronti a giustificare, difendere i propri figli da ogni critica, da ogni punizione quasi fosse un’offesa personale? Che non si rendono conto che la disapprovazione di un’insegnante può aiutare il ragazzo a crescere così come lo fa la sua approvazione, se sono comportamenti coerenti. Pronti a schierarsi a difendere il proprio figlio/a da ogni critica, ma poi forse non così pronti ad ascoltarli a intercettare i loro cambiamenti emotivi, i loro vuoti.
Già, i vuoti. Ed è questa la parola che più spaventa. La vicenda dei tre giovani di Roma ci racconta che c’è una fascia (certamente, speriamo, minoritaria) di giovani ormai adulti, che non studia e non lavora la cui pressocché unica occupazione (quando le spalle sono coperte) è di riempire le giornate di passatempi per sconfiggere il vuoto, la noia. E che inanella parentesi di godimento, a volte innocenti, a volte meno.
Questi ‘lavori forzati’ del godimento (un po’ tristi per la verità, come un interminabile carnevale) conducono spesso a una noia al quadrato; che viene combattuta rilanciando la temperatura dell’emozione e aprendo in realtà sempre più quella diabolica voragine. Una voragine in cui si può insinuare di tutto: droga, alcool, dipendenze di ogni genere che possono ghermire le tante fragili personalità che famiglie distratte, scuole a volte impotenti, media troppo spesso complici contribuiscono a costruire.
Perché ciò non avvenga è necessaria una solida barriera di anticorpi, che hanno nomi familiari a tutti: educazione, senso di responsabilità verso se stessi e verso gli altri, e poi merito, competenza, costruzione paziente del proprio futuro, conoscenza, attenzione ai bisogni degli altri.
La rappresentazione mediatica dominante martella, invece, sulla spettacolarizzazione pornografica del dolore e della sofferenza in tutte le salse, ci inchioda di fronte alla quotidiana ‘banalità del male’: nei film, negli spettacoli, nei notiziari, nei videogiochi dove si accumulano punti se si abbatte il maggior numero di persone, nei pericolosi video che passano on demand che grondano sadismi, e che la stessa legge definisce ‘gravemente nocivi’. Di queste cose si nutrono le fragili menti di troppi ragazzi, se non hanno la fortuna di avere genitori attenti e insegnanti preparati.
E se è vero che i media non sono gli unici responsabili (altre agenzie educative sono andate in crisi strutturale) è però vero che i media una responsabilità grande la portano tutta da soli: quella di aver legittimato, nelle tranquille prime serate televisive come nei pomeriggi un tempo in fascia protetta (e che tali, in base a quanto è stato promesso, torneranno a essere almeno in Rai), un’aggressività sguaiata, una violenza sfrenata, un conflitto intergenerazionale sommerso e un po’ perfido, un consumismo ossessivo. Il nero più fondo e spesso incompreso della cronaca nera.
Si dice che certa realtà mediatica riflette la realtà, ma è anche e soprattutto vero che ha contribuito grandemente a crearla, lontana anni luce dalle regole solide di una ‘vita buona’. Una vita buona che richiede un’intenzionale e organizzata inversione di rotta antropologica, mettendo in campo strategie educative coraggiose e di massa.
Una vita che cerchi l’empatia, la comunione e lo scambio con gli altri, che coltivi il gusto dell’ascolto, che sappia guardare con ammirazione allo spettacolo della natura e dell’arte, alla passione per la conoscenza, una vita in cui rispettare i talenti di ciascuno. Una vita attraversata dalla consapevolezza che siamo creature dotate di una inestinguibile tensione alla speranza, che va alimentata, sostenuta, nutrita in famiglia, a scuola, nei media senza aver paura di praticare una coraggiosa ‘pedagogia del bene’.

(Da Avvenire, 17 marzo 2016)