Luca Rolandi
A quasi cento anni muore ad Ivrea l’ultimo testimone del Vaticano II. Se solo si potesse descrivere in poche righe la vita, profonda, intensa, spirituale e incarnata di don Luigi Bettazzi si farebbe un grave peccato di presunzione. Mons. Bettazzi è stato un uomo, un prete, una persona di statura davvero straordinaria. Era l’ultimo vescovo italiano che partecipò al Concilio Vaticano II.
Classe 1923, si è spento nella serenità del giusto nella casa di Albiano, un castello nel quale condivideva con comunità di accoglienza, ong, famiglie in difficoltà quella cifra del cristiano che vive con e per gli altri. Uomo di dialogo, di dubbio, di ricerca, di coraggiosa denuncia ad intra e ad extra ecclesia, ma anche di obbedienza quando gli fu richiesto.
Era nato a Treviso da una famiglia in parte di origine piemontese e in parte emiliana. La sua vocazione era nata nel tempo difficile del fascismo e mentre il padre era un popolare, in famiglia non si poteva parlare di politica. Entra in seminario a Treviso ma poi la sua famiglia si trasferisce a Bologna dove prosegue gli studi e giunge dopo gli anni difficili della guerra e dell’occupazione e la lotta di Liberazione contro il nazifascismo riceve l’ordinazione sacerdotale il 4 agosto 1946. Tanto studio di teologia alla Gregoriana e di Filosofia all’Università di Bologna, intensa attività pastorale nella Fuci e negli organismi dell’associazionismo cattolico.
Il 10 agosto 1963 la nomina a vescovo ausiliare di Bologna da parte di Paolo VI cui seguì il 4 ottobre la consacrazione episcopale. Una settimana prima provò l’emozione del Concilio Vaticano II di cui prese parte, accanto al cardinale Giacomo Lercaro a tre sessioni, iniziando dalla seconda, il 29 settembre 1963. Il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio, scese con una quarantina di padri conciliari – principalmente latinoamericani – nelle Catacombe di Domitilla a Roma per celebrare una Eucaristia chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Al termine, tutti i vescovi firmarono il famoso Patto con cui esortavano i “fratelli nell’Episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una Chiesa “serva e povera”, come suggerito da Giovanni XXIII.
Quel momento storico, Mons. Bettazzi lo ricordava in una recente intervista con i media vaticani: “Fu un incontro occasionale, promosso dal collegio belga.
Nelle catacombe eravamo in 42, io ero l’unico italiano, ma poi ci siamo impegnati a far firmare ad altri e al Papa sono andate 500 firme di vescovi, e sarebbero state forse anche di più, se le avessimo cercate.
La cosa importante è l’attenzione ai poveri e si diceva che il vescovo dovesse vivere più semplicemente, nelle abitazioni e mezzi di trasporto. Ma deve essere vicino ai poveri e ai lavoratori manuali, a quelli che soffrono e che sono in difficoltà, contro la tendenza che abbiamo ad essere vicini ai ricchi e potenti, che poi ci garantiscono”.
Dopo il Concilio Bettazzi viene nominato vescovo di Ivrea, prendendo possesso della diocesi il 15 gennaio 1967. Per oltre trent’anni cerca di applicare il Vaticano II nella sua chiesa locale che diventa anche sede di incontri e laboratorio di idee e progetti. Il settimanale il “Risveglio Popolare” riporta le sue riflessioni ed è luogo aperto al confronto con tutti. Chiesa dei poveri, chiesa di pace, in una dimensione di universalità misericordiosa che è il cuore del messaggio di Cristo. Bettazzi è uomo di comunicazione, scrive libri, concede interviste, realizza documentari ed è protagonista del confronto culturale nella chiesa e fuori di essa negli anni del post- Concilio. Ha predicato e praticato la pace in ogni modo, senza paura delle polemiche, delle incomprensioni e persino delle minacce. Da presidente di Pax Christi organizzò una marcia perché la Nato e tutti i belligeranti smettessero di martoriare le terre della ex Jugoslavia.
Piovevano le bombe su Sarajevo e Belgrado. Don Bettazzi aveva il dono del pre-sentire il futuro, pŕevide un anno prima le dimissioni di Papa Benedetto; nella sua lettera a De Benedetti, che stava licenziando 4500 operai all’Olivetti, stigmatizzò la prevalenza del denaro sull’uomo e anticipò la mercificazione delle persone; nella famosa lettera a Berlinguer (il cattolico può essere comunista?) sdoganando il dialogo con il Pci. Poi scrive ai giovani chiedendo perché sentirsi ateo a 18 anni, e anche ad altri politici italiani Zaccagnini, imprenditori, uomini di cultura, economia e scienza. Insomma, un testimone che per tutti i sessant’anni post-conciliari ha continuato a ricordare quell’evento come il segno di un aggiornamento e un ritorno alle radici evangeliche alla Parola di Dio, incarnata nella Pasqua del mistero trinitario come, sine glossa, unico orizzonte di senso e di dialogo e ricerca.
Un grande vescovo, insomma, per il quale le mie poche, scarne parole, non rendono giustizia. Di più faranno le preghiere di chi crede. Di chi crede che il dialogo e la responsabilità siano il sale della terra, la benedizione di noi esuli in questa valle di lacrime. Perché Luigi Bettazzi è stato cristiano più ancora che cattolico, ed è forse uno dei pochi vescovi ad avere creduto nel ruolo voluto dal Concilio Vaticano II e proprio confrontandosi con l’ultimo viaggio aveva affermato e scritto “La morte… è un fatto biologico e naturale, ma io provo a dire per fede che cosa significa nella sua dimensione più tragica e gloriosa. Fuori dal peccato originale eravamo in uno stato edenico. Quando uno giunge al termine della vita dovrebbe affermare “me ne vado”. Il che non significa la distruzione totale, ma un arrivederci, in una dimensione diversa: “Io vado di là e poi arriverete anche voi”.
* Ricercatore in storia sociale e religiosa e storia del giornalismo nella fondazione Carlo Donat- Cattin. Ha scritto insieme a Michele Ruggiero “Ricordi, vita e pensiero in Luigi Bettazzi” (ed. araba Fenice).
Il Cantico
ISSN 1974-2339
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