Bellamonte, 20-23 agosto 2018

Sintesi dei lavori

Il Meeting di Fraternità a Bellamonte (Tn) nello splendido scenario delle Dolomiti ha visto al centro il Convegno “Incontrare la pace”, promosso dalla Fraternità Francescana Frate Jacopa col Patrocinio del Comune di Predazzo, nella Sala Polifunzionale “Aldo Moro”.
img38Nell’introdurre i lavori del Convegno, ormai alla 6ª edizione, la presidente nazionale Argia Passoni ha rimarcato la continuità con i precedenti episodi, i cui temi (dalla custodia del creato alla custodia dell’umano, dall’abitare al seminare speranza nella città degli uomini) costituiscono già un sondare vie di futuro e di pace. Ma proprio la problematicità del tempo presente in ordine alla convivenza umana ci porta quest’anno a darci la possibilità di pensare più direttamente la pace in questo contesto sempre più conflittuale che, dal livello personale all’aggressività sociale e globale, manifesta in maniera eclatante il bisogno di incontrare la pace.
Tutto questo – ha proseguito – ci pone davanti all’urgenza della pace, nella responsabilità di interrogarci in ordine alla pace e di rigenerare la scelta perseverante della pace. Rigenerarla rispetto alle tante guerre che insanguinano il mondo, di cui ben poco si parla. La “terza guerra mondiale a pezzi” si sviluppa più che mai attraverso l’accaparramento di terre e la predazione di risorse fondamentali per la vita, si manifesta con la forma di quella cultura dello scarto che, assieme alla natura, riduce anche persone e popoli a oggetti mercificabili, sospesi sul crinale di un’inutilità devastante da una finanziarizzazione dell’economia che non trova argini; si manifesta nella forma del terrorismo; si manifesta in sostanza in tanta parte del mondo nella totale violazione dei diritti umani, cardini della pace.
Ma la rigenerazione riguarda anche altre modalità di guerra, guerreggiata ogni giorno nelle nostre città, nelle relazioni familiari, lavorative, sociali attraverso una violenza pervasiva, in una sorta di aggressività crescente generata molto spesso dalla paura o dall’estraneità rispetto all’altro e alla sua sorte, alimentata ormai anche da soggetti che avrebbero ben altro compito in questa nostra società.
In un mondo sempre più globalizzato, reso sterile dall’individualismo, dall’utilitarismo, dall’egoismo fino all’incapacità di interessarsi dell’altro, c’è una rigenerazione interiore che va posta, perché non sarà la paura dell’altro, il rinchiudersi elevando muri, che potrà darci sicurezza, serenità, pace. Sarà invece una relazionalità rinnovata che ci riporti al nostro statuto d’essere come uomini e donne parte di un’unica famiglia umana; sarà l’aprirci al riconoscimento dell’altro, l’orientarci con intelligenza alla reciprocità, all’interdipendenza che potrà immetterci nella indispensabile prospettiva dell’operare la pace, dell’incontrare la pace.
Come cristiani tutto questo ci interpella in modo preminente e peculiare. Gesù Cristo è venuto a donare tutto se stesso per rendere possibile la riconciliazione e la pace. Si è fatto “nostra pace”. E dunque dall’incontro con Cristo, nostra pace, come non incontrare ogni altro lungo le strade del mondo rendendo prezioso ogni anelito di pace? Come non considerare la drammatica urgenza di percorsi di pace, volti a togliere dall’intossicazione della violenza e da quella cultura “armata” che vede l’altro come un nemico? La pace è un processo che esige l’edificazione del “noi”, del noi ecclesiale certamente, ma un noi ecclesiale proprio per questo aperto, interattivo, con tutti gli uomini e le donne di buona volontà e con la realtà civile, sociale, politica per un farsi comune della pace.
“Il nostro Convegno – ha concluso Passoni – vuole offrire alcune luci per un discernimento, per un cammino di sensibilizzazione proteso ad orientare i nostri passi sulla via della pace, per generarla a tutto campo nell’accoglienza della diversità che rimanda al vero volto dell’umanità”. Le quattro giornate ci guideranno a scoprire come sia determinante la cultura dell’incontro per operare la pace.

ARTIGIANI DI PACE
S.E. Mons. Mario Toso,
Vescovo di Faenza-Modigliana, aprendo con la sua riflessione il Convegno “Incontrare la pace”, ha esordito richiamando la necessità di prendere coscienza dell’allarmante situazione internazionale caratterizzata da forme di violenza pervasive, anche se non eclatanti, ma distruttive nella politica, nell’economia, nei media che spesso diffondono le cosiddette fake news, nella tecnocrazia che non riconosce il primato della persona. Di fronte a tutto ciò dobbiamo rassegnarci? Le piccole comunità non possono incidere sulle decisioni che avvengono a livello internazionale?
Mons. Toso ritiene che un’uscita di sicurezza sia possibile se abbiamo la consapevolezza dell’importanza di essere uniti, poiché più si è piccoli meno si può incidere. Per riparare la convivenza umana occorre compiere l’esercizio del “noi”. Occorre la sapienza di fare la pace a partire dalle piccole cose, da sé, dal proprio paese, essendo, però, aperti al bene comune mondiale dell’intera famiglia umana. “Cominciamo a costruire comunità di virtù… – ha detto Mons. Toso – non per realizzare una nostra soddisfazione, ma per amare l’altro in Dio gratuitamente”.
Un ambito cruciale in cui costruire la pace ci viene dalla situazione dell’immigrazione, dove è di grande importanza curare la dimensione pastorale per una formazione all’accoglienza, alla convivialità delle differenze, al superamento della paura della diversità.
Questa paura si vince nell’incontro con l’altro.
Rinunciare all’incontro con l’altro è peccato. Come suggerito dal recente documento dei Vescovi italiani “Comunità accoglienti. Uscire dalla paura”, occorre però passare “dall’incontro alla relazione” (attraverso l’empatia), “dalla relazione all’interazione” (per convergere in una piattaforma di valori che faccia capo alla Costituzione). Tutto ciò non è utopismo o irrealismo, poiché sappiamo che ogni intervento richiede discernimento e prudenza, come ricorda il Papa.
Il Vescovo ha poi rapportato l’essere artigiani di pace alla problematicità dell’ambito finanziario, parlando degli aspetti predatori della finanza speculativa, mentre la finanza dovrebbe servire l’economia reale e il bene comune. Se la finanza non è etica fallisce, non raggiunge la sua finalità. Per questo urge creare mercati sani, esercitare una responsabilità sociale e promuovere un coordinamento sovranazionale. Ricordiamo – ha evidenziato Mons. Toso – che i mercati vivono grazie alla domanda e all’offerta di beni e che noi possiamo influenzare la domanda, per esempio scegliendo beni etici e rendendo pubblici gli elenchi di quelle multinazionali che non rispettano l’ambiente.
Infine un invito specialmente ai giovani a scendere in politica “per renderla più umana ed evitare quella violenza che spesso non rispetta i diritti, ma gli arbitrii, mentre il diritto, per essere tale, deve avere alla base un bene, non un capriccio. Non basta che io voglia qualcosa per poter parlare di diritto, poiché ci vuole anche il rispetto degli altri, se non si vuole abbattere lo stato di diritto. In assenza di una base oggettiva, tutto diventa diritto o, per meglio dire, arbitrio.
Stiamo perdendo i concetti base della vita, delle relazioni. Stiamo perdendo di vista la verità del bene. Di qui il compito affidato ai credenti di “portare il loro umile ma geniale apporto che dipende dalla loro apertura al Vangelo”. Ed ha concluso richiamando all’impegno a vivere la vocazione alla politica, vocazione umana e cristiana: “Un cristiano ha doppie ragioni per impegnarsi nel mondo della politica: le ragioni tipiche dell’essere umano come tutti e le ragioni che gli vengono dalla fede che vede Gesù Cristo redentore di tutte le dimensioni della vita, compresa la politica”.
Da artigiani di pace siamo chiamati a vigilare come sentinelle per una vita buona, una vita buona che dal livello quotidiano è chiamata ad aprirsi al mondo, sapendo che “se qualcosa di buono essi compiranno, come artigiani della pace, ciò sarà precipuamente dono di Dio”.

DIRITTI UMANI, DEMOCRAZIA E PACE
Ci ritroviamo oggi a parlare di diritti umani, democrazia e pace a 70 anni dall’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani (10 dicembre 1948) dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – ha esordito Marco Mascia (Direttore Centro Ateneo dei Diritti umani Antonio Papisca) – in un’epoca in cui questi principi, questi valori, questi diritti sono messi in discussione dalla crisi economica, dalla crisi migratoria, da un rigurgito di statalismo, di sovranismo, di nazionalismo.img42
Quali gli strumenti per rispondere a questa strategia suicida? Il relatore è partito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, che elucida il principio generale del rispetto dei diritti umani indicando i principi fondamentali che poi andranno ad informare il nuovo diritto internazionale dei diritti umani:
1. I Diritti umani sono innati, inviolabili ed inalienabili. L’art.1 ne esplicita il fondamento: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
Diventano diritto positivo in virtù del loro riconoscimento, non della loro attribuzione.
2. La dignità umana è il valore fondativo dell’ordinamento mondiale e di qualsiasi altro ordinamento ad ogni livello. “Il riconoscimento della dignità, inerente a tutti i membri della famiglia umana ed i loro diritti eguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace del mondo” .
3. Tutti i diritti umani, civili e politici, economici, sociali e culturali sono interdipendenti ed indivisibili.
4. I diritti umani sono universali, perché nasciamo con quei diritti fondamentali. Fin dall’inizio nel cantiere universale delle Nazioni Unite rappresentanti di culture diverse hanno partecipato alla loro codificazione. E c’è una universalizzazione anche pratica, sul terreno, in ogni parte del mondo.
5. I diritti umani sono inclusivi. È la logica della centralità della persona umana, la logica dell’uguaglianza, della non discriminazione.
6. La pace si fonda sul rispetto dei diritti per tutti. “Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciate nella presente dichiarazione possano essere pienamente realizzati” (art. 28).
“In questi 70 anni quali sono stati i frutti della Dichiarazione universale?” – ha proseguito il Prof. Mascia. La Dichiarazione universale si è rivelata “madre feconda” di un complesso organico di norme, di portata sia universale, sia regionale. La Commissione dei Diritti umani delle Nazioni Unite non si è preoccupata soltanto di riconoscere questi diritti fondamentali, ma anche di dare vita ad un sistema di garanzia universale e a sistemi di garanzia regionali, di cui le punte più avanzate sono costituite dalle Corti Regionali (Europa, Americhe, Africa).
Oggi questo sistema di norme e di organismi internazionali è sotto attacco da parte dei governi che rilanciano il mito funesto dello Stato nazione, armato, confinario, all’insegna dell’intolleranza, di politiche securitarie, sovraniste con l’obiettivo di fermare l’avanzata di questo diritto umanocentrico.
Come contrastare questa pericolosa deriva? Il tema della democrazia oggi – ha proseguito il relatore – non lo si può più affrontare guardando soltanto agli Stati nazionali. La sfida che abbiamo di fronte è quella della democratizzazione delle istituzioni internazionali. Il che significa togliere il potere esclusivo di prendere le decisioni ai governanti. I governati, come nei sistemi politici nazionali lottano per i loro diritti, così devono poter fare anche nel sistema politico internazionale. Il sistema della politica internazionale è un sistema statocentrico, per definizione un sistema belligeno. Per costruire un ordine di pace, dobbiamo democraticamente, non violentemente, utilizzare gli interstizi che pure il sistema offre.
La Carta delle Nazioni Unite che vieta la guerra, vieta agli Stati non solo l’uso della forza ma anche la minaccia dell’uso della forza. La forza la può usare solo un’autorità sovraordinata agli Stati in grado di tutelare un interesse generale. Quell’articolo però non è mai stato implementato. Se lo fosse stato, avrebbe avuto inizio un processo di “onuizzazione” degli eserciti, che di per sé comporterebbe il disarmo.
Chiaramente un processo di questo tipo deve essere accompagnato dalla democratizzazione delle Nazioni Unite, dall’abolizione del potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza. La costruzione della pace passa attraverso la costruzione di un sistema di sicurezza collettivo, con il potenziamento delle organizzazioni internazionali multilaterali.
La questione del diritto alla pace è ritornata in seno alle Nazioni Unite nel 2012. Il 19 dicembre 2016 l’Assemblea Generale ha approvato la Dichiarazione sul diritto alla pace, con la formulazione del “diritto a poter godere della pace”. Comunque la risoluzione segna un passaggio fortissimo a favore dell’implementazione del sistema di sicurezza collettivo.
Nell’era che stiamo vivendo, – ha concluso il Prof. Mascia – la sovranità dello Stato dovrebbe essere redistribuita verso l’alto (verso le organizzazioni sovranazionali) e verso il basso (verso gli enti di governo locali e regionali). Gli enti locali, essendo in prima linea per la gestione dei diritti umani e per la promozione della pace, possono e devono giocare un ruolo fondamentale

PACE E DIRITTI UMANI: IL PROGETTO “CITTÀ RIFUGIO”
Credo nel lungo cammino dell’umanità e della cultura dei diritti umani e della pace, anche se vediamo quanto c’è ancora da fare nel prenderci reciprocamente cura di ciò che siamo: “persone in relazione” – ha esordito nella sua riflessione Violetta Plotegher (membro Consiglio Provinciale di Trento e vicepresidente Forum Trentino per la Pace e i diritti umani).
Solo il fatto di disumanizzare la persona, riducendo l’altro ad oggetto o ad ostacolo, può spiegare ciò che succede in tante relazioni umane, da quelle più vicine a quelle riguardanti la convivenza sociale. Occorre un’educazione continua alle relazioni, una conversione che ci faccia superare l’egoismo, l’individualismo, perché si possa spezzare la catena di violenza e di grande sofferenza che si trasmette di generazione in generazione.
Ma che cos’è l’umanità? – si è chiesta la relatrice –. “L’umanità è il soggetto sociale che esprime la consapevolezza dell’appartenenza degli essere umani a una stessa entità, la comunità plurale umana, e la loro volontà di vivere insieme” (R. Petrella). L’appartenenza alla comunità plurale umana “è una dimensione trascendente, una dimensione spirituale: se non abbiamo questa direzione dell’anima, non abbiamo una guida nel cammino dell’umanità e della pace”.
Senza diritti umani non c’è pace. Ma non tutti gli uomini nascono nelle medesime condizioni dal punto di vista ambientale, politico, economico. Vi sono disuguaglianze mostruose di opportunità di vita e di salute, oltre che di ricchezza materiale. Assieme alle guerre anche le predazioni economiche causano povertà e migrazioni di massa. Se vogliamo adoperarci per la pace e la giustizia dobbiamo interrogarci anche sul nostro stile di vita e agire per cambiarlo. Possiamo dirci civili se guardiamo al modo in cui questo nostro stile di vita impatta sul resto del mondo provocando danni umani e ambientali irreparabili?
La proposta della “città rifugio” prende corpo a partire dal 2015 quando il Forum Trentino per la pace e i diritti umani viene a conoscenza delle Comunità di pace colombiane, che resistono con gli strumenti della nonviolenza alla guerra e allo sfollamento forzato, reclamando il loro diritto a essere riconosciute come popolazione civile e all’uso della loro terra. La conoscenza diretta tramite i giovani volontari trentini dell’Operazione Colomba interpella al “cosa fare qui” per sostenere i Difensori dei diritti umani. Nel 2017 la Commissione Esteri con una risoluzione impegna il Governo a sostenere le iniziative possibili previste dalle linee guida dell’Unione Europea che dal 1998 ha sviluppato una piattaforma di coordinamento per l’asilo temporaneo dei Difensori dei diritti umani, a cui hanno aderito vari Governi europei con iniziative di “città rifugio” (ad es. in Olanda). È stato così proposto alla Provincia di Trento di avviare un percorso sperimentale di “città rifugio” e nel gennaio 2018 viene approvata la prima mozione di un Ente italiano in tal senso, mentre a maggio 2018 Trento diventa la prima Città che si impegna su questa progettualità.
In concreto cosa significa il progetto “città rifugio” per la protezione dei Difensori e delle Difensore? In situazioni di particolare rischio alcuni di loro con le famiglie hanno necessità di una protezione temporanea, di un luogo in un altro Paese per un tempo di recupero psicofisico, di apprendimento di modalità più efficaci, un tempo in cui essere protetti rispetto alle minacce che subiscono; essi ritorneranno al loro paese per continuare il loro attivismo, in un certo senso accompagnati da una “diplomazia internazionale per la protezione dei diritti umani” fatta da un lavoro di relazioni di comunità.
Si realizza un ponte tra quella Comunità e la “Città rifugio”. Per le Città ospitanti vuole dire “sposare” la scelta di resistenza per la difesa dei diritti umani e ambientali della persona a cui si offre rifugio, voler essere al suo fianco, sostenere le motivazioni della sua battaglia e darle voce per documentare cosa succede nel suo Paese. Ospitare persone che sono disposte a perdere la loro vita per difendere i diritti umani in maniera non violenta è una ricchezza dal punto di vista della promozione di una cultura della Pace per chi accoglie, un’occasione per risvegliare la nostra coscienza.
Con il “nodo trentino” della rete InDifesaDi presso il Forum per la pace e i diritti umani è iniziata così una impegnativa attività per dare seguito concreto agli impegni, perché, se non esiste una società civile appassionata e attenta, anche i più bei progetti approvati e scritti negli atti pubblici rischiano di rimanere sulla carta. Non è poesia difendere i diritti umani – ha concluso Plotegher –. È una passione profonda che nasce dalla consapevolezza delle ferite inferte alla comune appartenenza alla famiglia umana ogni qualvolta è negata la dignità dell’uomo e la sopravvivenza dei popoli, ben sapendo che senza stare dentro questa passione in una conversione continua, è la nostra stessa umanità a venire meno.

ACCOGLIENZA MIGRANTI. L’ESPERIENZA DI PREDAZZO
Il Sindaco di Predazzo, Maria Bosin,
ha portato la significativa testimonianza di accoglienza di Predazzo inquadrata nella scelta da parte della Provincia di Trento di farsi carico direttamente, in collaborazione con i propri Comuni, della sistemazione dei richiedenti asilo per distribuire in maniera omogenea sul territorio piccoli gruppi di persone, offrendo così maggiori possibilità di integrazione, rispetto alla “ghettizzazione” in grosse strutture.
L’accoglienza sul posto è stata preceduta da serate informative, che hanno sensibilizzato al problema dando luogo anche alla disponibilità di un appartamento da parte di una famiglia. Cinque i giovani migranti provenienti da Gambia e Nigeria che il Comune ha subito affiancato alla squadra di operai comunali, mentre l’associazionismo si è occupato di coinvolgerli in attività sportive e di aiutarli nei loro piccoli e grandi bisogni per un inserimento. “Non sono mancate le difficoltà e le incomprensioni, sia per la lingua che per la cultura ed il diverso approccio alle situazioni, ma un po’ alla volta – ha sottolineato il Sindaco – abbiamo imparato a conoscerci e loro non erano più degli ospiti, ma Endurance, Bright, Lamin, Fred e Johnny, con le loro storie di vita, i loro pregi e i loro difetti.” Sono stati organizzati corsi di italiano essendo fondamentale l’apprendimento della lingua per una vera integrazione.
Dopo alcuni mesi per alcuni ragazzi si sono aperti anche sbocchi occupazionali in grado di garantire loro una certa serenità per il futuro. “È sulla terza accoglienza che riteniamo vadano concentrati gli sforzi sia provinciali che nazionali perché le persone non possono essere abbandonate al loro destino dopo qualche mese dal riconoscimento della protezione umanitaria”. Chi rimane come clandestino spesso non ha altra scelta che affidarsi ad organizzazioni illegali. “Come comunità di Predazzo – ha concluso la dott.ssa Bosin – possiamo ritenerci soddisfatti di aver intrapreso questo percorso di condivisione, che ci ha aiutati a superare paure e pregiudizi”. Non un approccio di facile buonismo ma dare risposte concrete a situazioni complesse che non si risolvono con slogan: una indicazione di percorso per un cammino di pace.

PROFEZIA DI PACE. SULLE ORME DI S. FRANCESCO La relatrice Lucia Baldo (Commissione Naz. Formazione della Fraternità Francescana Frate Jacopa) ha esordito dicendo che la pace, come il bene, è una forza attrattiva, ma, come il bene, spesso viene fraintesa. Papa Francesco mette in guardia dalle visioni sbagliate della pace, dicendo che essa non è né “un consenso a tavolino” (GE 89) né un mero diritto disancorato dal dovere e posto come “giustificazione esacerbata dei diritti individuali o dei diritti dei popoli più ricchi” (EG 190). La pace non può essere neanche identificata con una passività indisturbata di vita.
img51La pace cristiana è profezia. Ciò significa che ai credenti spetta il compito di riconoscere “alla luce dello Spirito Santo quell’appello che Dio fa risuonare nella stessa situazione storica” (EG 154). Quali profeti di pace, i cristiani abbiano il coraggio di esporsi con una critica all’ingiustizia e facciano della loro vita una missione, un impegno esistenziale per realizzare la pace, sulle orme del Santo di Assisi!
“Beati i pacifici, poiché saranno chiamati figli di Dio!” (Mt 5,9). S. Francesco nella XV Ammonizione cita questa beatitudine e nota come ai pacifici non sia riservato un destino di gloria sulla terra, anzi! Tuttavia egli non si scoraggia, ma sprona sempre a compiere azioni di pace, intendendo l’azione come espressione dell’interiorità (mente e cuore) rinnovata dalla Grazia e perennemente protesa verso un cammino di conversione e penitenza.
“Madre e origine di ogni azione che eleva a Dio” (S. Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum,1,1) è la preghiera, prima forza che il Santo di Assisi mette in campo per realizzare la pace.
Gli esempi di pacificazione nella vita del Santo sono molti. La strofa del perdono posta a compimento del Cantico delle creature insieme a quella di “sora nostra morte corporale”, a voler significare che solo l’uomo che perdona può farsi voce di lode del Creatore insieme a tutte le creature, fu cantata, per volere di S. Francesco, da due frati alla presenza del podestà e del vescovo di Assisi che erano in lite tra loro. L’esito fu la pacificazione autentica tra i due, espressa nell’invocazione reciproca del perdono. Il Poverello di Assisi non fu turbato tanto dal dissidio che metteva l’una contro l’altra le due massime autorità locali, quanto dal fatto che non ci fosse nessuno che mostrasse interesse a ristabilire la pace tra i contendenti.
Questo messaggio è fortemente attuale al nostro tempo in cui di fronte ai conflitti ci si estrania pensando: “Non è affar mio!”. Invece tutto quello che accade ci riguarda, ci interessa. Inter-esse vuol dire appunto essere tra le cose, partecipare alla vita degli altri di cui la nostra è parte integrante. Infatti se il podestà e il vescovo avessero continuato a fare la guerra tra loro, il veleno del disaccordo avrebbe alimentato contrasti sempre maggiori che avrebbero danneggiato la convivenza civile e la pace sarebbe stata sempre più lontana.
Le biografie raccontano anche di S. Francesco che, nell’affrontare il lupo di Gubbio, si frappose tra il lupo e gli eugubini, giungendo a stipulare un patto di pace capace di soddisfare entrambi.
Altrove le Fonti attestano che, trovandosi nei pressi di Arezzo, il Santo vide la città in preda alla guerra civile a causa di due fazioni in lotta tra di loro. Allora decise di non continuare indisturbato il viaggio, ma di inviare frate Silvestro, un frate semplice, alle porte della città perché comandasse ai demoni di allontanarsi. E questi gli obbedirono “per la misericordia di Dio e la preghiera del beato Francesco”.
Tuttavia riportare la riconciliazione non è una possibilità alla portata di tutti, poiché non si tratta tanto di un intervento di diplomazia, quanto di essere rivestiti di un’autorità morale riconosciuta da entrambe le parti in lotta. S. Francesco non era uno sconosciuto. Come dice S. Bonaventura in proposito: “…la sapienza del povero, cioè l’umiltà di Francesco, con il suo solo apparire, riportò la pace e salvò la città”.
Altri esempi di mediazione pacificatrice si potrebbero trovare nella vita di S. Francesco. Ricordiamo l’incontro col sultano: il Santo, umile e disarmato, avanzò tra i saraceni confidando nella forza che il Signore gli comunicava. Il coraggio e la sua mansuetudine fecero sì che il sultano lo ricevesse con benevolenza e rispetto.
Trovarsi di fronte a coloro che praticano una religione diversa dalla propria, non comporta necessariamente l’obbligo di convertirli. S. Francesco non fallì nel suo incontro col sultano, nonostante non avesse raggiunto l’obiettivo di convertirlo, perché riuscì a scuotere le sue sicurezze e a farlo aprire alla verità tutta intera. Oggi “i credenti sono chiamati a vagliare il proprio impegno di vita entro un contesto di pluralismo religioso.
Non è la strada del relativismo o del sincretismo.   piuttosto camminare verso quella verità religiosa in pienezza che è Gesù Cristo e che è possibile guadagnare – sia pure per vie diverse – giacché in ogni uomo è insita la capacità di conseguirla” (M. Toso, Uomini e donne in cerca di pace, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa 2018, p. 58).
Quando poteva, il Santo di Assisi si adoperava sempre per portare la pace. Il senso di fraternità verso tutti gli uomini, così spiccato in lui, nasceva dalla riscoperta della presenza di Dio Padre nella sua vita, che dona la pace di Cristo a chi si affida totalmente a Lui, come attesta il saluto autentico di S. Francesco: “Il Signore ti dia pace!” (FF 121).

BASTA… IL CAMMINO ECUMENICO E LA PACE NEL XXI SECOLO
Con le parole di Papa Francesco all’incontro di Bari, “Su di te sia pace”, Riccardo Burigana (Docente di storia dell’ecumenismo, ISE S. Bernardino di Venezia e Facoltà Teologica dell’Italia Centrale) ha iniziato la sua riflessione. In queste parole sono uniti due aspetti centrali del pontificato di Papa Bergoglio: il dialogo ecumenico e la pace. Il Prof. Burigana ha evidenziato come questa attenzione sia dentro la storia del dialogo ecumenico, fin dal suo inizio alla fine del 19° secolo, quando, accanto a quel nazionalismo esasperato che ha in parte condotto alla prima guerra mondiale, c’erano tanti cristiani che, leggendo le Scritture, dicevano: non è la guerra la soluzione dei problemi; non si risolvono i problemi armandosi, distruggendo il nemico, ma cercando la pace. L’azione della pace, la denuncia della violenza e di ogni tipo di oppressione è venuta avanti nel crogiuolo di sofferenza della II guerra mondiale. Nel 1968 a Uppsala il Consiglio Ecumenico delle Chiese prende posizione contro ogni forma di discriminazione.
La pace è un problema centrale anche nella tradizione della Chiesa Cattolica: Paolo VI l’8 dicembre 1967 istituisce la I Giornata Mondiale della Pace, preceduto sul tema da Benedetto XV, Pio XI, Pio XII e da Giovanni XXIII con la Pacem in Terris. L’800° anniversario dell’incontro di S. Francesco col Sultano ci dice che il tema sta dentro la tradizione, senza negare che questa tradizione ha nelle chiese persone che non hanno voglia di parlare di pace, a meno che la pace non sia aggettivata, pace giusta, pace cristiana, pace cattolica, ma questo non è lo spirito del cammino ecumenico perché la pace di Cristo non limita.img44 (1)
Il relatore ha poi focalizzato tre aspetti: il Medio Oriente; la condanna ecumenica di qualunque tipo di giustificazione religiosa alla violenza; l’impegno ecumenico per la cultura dell’accoglienza.
1. In Medio Oriente i cristiani insieme celebrano la Pasqua, accolgono i profughi, denunciano la necessità non di firmare accordi di pace, ma di creare una cultura della pace, dell’ascolto, del dialogo che parta dalla denuncia di ogni atto di violenza dal più piccolo al più grande, come la promulgazione della recente legge sullo Stato di Israele. Accanto a questo c’è l’attenzione perché non venga meno uno degli elementi fondamentali, cioè la ricchezza, la diversità e particolarità che è data dalle comunità cristiane, ricordando così che la pace si costruisce con il contributo di tutti, non cacciando le persone. Se si perdono ricchezza e diversità, si indebolisce la cultura della pace. Questa strada conduce anche a un dialogo con gli altri che sono nel Medio Oriente, musulmani e ebrei, ben sapendo che se non si riconciliano le memorie, non si costruisce la pace sulla roccia ma sulla sabbia.
2. La condanna ecumenica della giustificazione religiosa della violenza diventa un impegno ecumenico per la conversione quotidiana di tutte le chiese, anche di quelle apparentemente contrarie. Insieme, con una sola voce, tenendo aperte le porte del dialogo con le altre religioni, in particolare con l’Islam per costruire strade nuove dicendo “no” alla violenza e soprattutto all’idea che i conflitti nascono dalle religioni.
3. Sul tema dell’accoglienza il dialogo ecumenico e interreligioso fa tanto nella convinzione, con motivazioni diverse, che accogliere l’altro che fugge e non vede speranza per il domani, aiuti a superare un clima di violenza, a fare riconciliare, a far cogliere che con l’accoglienza si può costruire la pace. In Europa quotidianamente ci sono prese di posizione di cristiani nelle singole chiese e insieme: la politica di non accoglienza, di rifiuto dell’ospitalità, non ha niente a che fare col Vangelo né con la tradizione dei popoli. Non si possono costruire muri, dividere le famiglie, non si possono portare avanti politiche immaginando solo l’oggi non il domani. Così la creazione non va distrutta: è dono per tutti.
Venendo all’Italia il relatore ha sottolineato che qui si fa molto e si conosce poco. C’è necessità di raccontare il molto che viene fatto in tanti modi, perché questi doni di Dio, segni di speranza, motivi di gioia non escono dall’ambito ecclesiale. Si tratta di condividere la reale possibilità che si possa insieme testimoniare (pur con tutte le questioni che ancora dividono) che in nome di Cristo si costruisce la pace accogliendo l’altro, ascoltando, dialogando con l’altro, facendosi carico dell’altro, in una parola cercando di vivere il Vangelo.
Sapendo che ci sono velocità diverse, bagagli diversi, ma ci si mette in cammino, perché la pace si costruisce giorno per giorno a partire dalla dimensione quotidiana dell’esperienza della fede. Occorrono atti concreti affinché il Signore possa convertire i nostri cuori. La pace – ha concluso il Prof. Burigana – non si costruisce firmando innanzitutto accordi con chi ci ama già, ma condividendo le sofferenze del mondo perché senza un impegno globale e comunitario la pace rimane uno slogan e non diventa il pane quotidiano del domani.

GIUSTIZIA, ECONOMIA E PACE
Paolo Rizzi (Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza) ha proposto la sua relazione muovendo dal concetto di giustizia, che in ambito economico è stata orientata innanzitutto dai concetti di giustizia commutativa (rapporti privati) e giustizia distributiva (rapporti e beni pubblici). Per i beni privati il riferimento è allo “scambio di equivalenti”, mentre per i beni pubblici il requisito diventa l’equità, e dunque sono ingiuste tutte le azioni che discriminano o escludono. Nel nostro tempo viene introdotto da Zamagni il concetto di giustizia contributiva sociale, che punta a risolvere il problema dei beni comuni; se i beni comuni non sono escludibili né rivali, occorre che ciascuno contribuisca al bene comune rispettando i limiti fisici di dotazione (obbligazione etica nei confronti della comunità). A quest’ultimo concetto di giustizia si aggiunge un’ulteriore definizione con la “giustizia di riparazione” (Sachs) sia a livello personale che macro-economico (con riferimento al debito ecologico).img55 (1)
Se prima della nascita formale dell’economia come scienza (1776), il discorso economico era inserito negli studi di morale – ha affermato il Prof. Rizzi –, con l’avvento della scuola neoclassica della seconda metà dell’Ottocento, lo statuto epistemologico dell’economia si fonda sul concetto di “avalutatività” della scienza, ovvero sulla divisione netta tra ragionamento sui valori e ragionamento economico, a vantaggio di una visione strettamente economicistica (utilitarismo).
Negli ultimi decenni si è assistito, però, ad un ritorno dei temi etici negli studi economici anche per la necessità di dare risposte concrete ai nuovi bisogni emersi a livello internazionale, per la drammatica situazione dei paesi poveri del Sud del mondo e per le crescenti disuguaglianze esistenti nei paesi ricchi. A ciò si aggiungono gli abusi del potere di mercato di tipo monopolistico o oligopolistico. Pensiamo alle multinazionali legate alle nuove tecnologie delle comunicazioni. Altro nodo problematico è quello relativo all’esistenza di esternalità negative, ovvero di azioni degli operatori che non vengono adeguatamente riconosciute dai meccanismi di mercato.
I costi sociali ad esempio dell’inquinamento non sono coperti in modo equo da chi provoca effetti negativi sul cambiamento climatico nel ciclo produttivo. Inoltre si osserva una costante presenza nel pianeta di situazioni di guerre regionali nazionali. Tra le cause dei conflitti stanno la ricerca di autonomia territoriale, i conflitti religiosi, l’accesso alle risorse, gli squilibri climatici, le crisi alimentari, la siccità, la desertificazione (fattori che producono carenza di risorse primarie e spostamenti di popoli) e le spese militari con la presenza di armamenti in quantità superiori ad ogni esigenza di sicurezza nazionale.
Quale risposta alle situazioni di mancanza di giustizia e di pace ci offre la prospettiva cristiana? Il Vangelo pone attenzione più che ai meriti di ciascuno al bisogno, all’accoglienza. Esso non sembra tanto rivolto a trasformare direttamente le istituzioni, ma a cambiare il cuore dell’uomo per far evolvere le strutture verso il rispetto della persona e la giustizia. La Dottrina Sociale della Chiesa sottolinea come la giustizia sia inseparabile dalla carità: “è la prima via della carità” (Paolo VI).
Con Encicliche di grande rilievo, il Magistero ammonisce perché la carità si adoperi per la costruzione della “città dell’uomo” nella logica del dono e del perdono che supera la giustizia e la completa, nella consapevolezza dell’inadeguatezza di ogni sistema giuridico, politico ed economico a realizzare pienamente la giustizia e la pace. Siamo convocati – ha concluso il Prof. Rizzi – a non rimanere indifferenti e ad una sana inquietudine per edificare la pace.

Nelle conclusioni l’Assistente nazionale P. Lorenzo Di Giuseppe ofm ha richiamato un punto fontale per il farsi della pace: la pace è nel disegno originario dell’uomo, appartiene alla pienezza dell’uomo, una pienezza che il peccato ha incrinato, ferito, incrostato, ma che non ha annullato. La pace è fondamentale germe che si trova nel cuore di ogni uomo.
La risposta di Caino “Sono forse io il custode del mio fratello?” non è la normalità, è la schiavitù dell’egoismo che non è all’origine della natura umana. All’origine è la fraternità, quella fraternità che Cristo è venuto a restaurare.
Si tratta dunque di liberare le risorse della pace. Non è un discorso solo intellettualistico, né solo interiore: si fa appello a un grande lavoro di conversione, di riparazione, in Cristo nostra pace. Il legame di pace è nel “noi”, nella fraternità voluta dal Creatore. Si tratta di rigenerare la relazionalità con Dio, con noi stessi, con gli altri, con il creato.
Un lavoro che richiede di assumere la modalità dell’artigiano, giorno dopo giorno, diventando esperti del “noi”, a partire dal situare questo discorso della pace nella concretezza del liberare l’umano, la sua dignità, la bellezza dell’essere persone appartenenti alla stessa famiglia umana, chiamate a vivere come famiglia. Dunque incontrare la pace implica un cammino arduo che richiede discernimento, vigilanza, cura, mobilitazione instancabile per l’altro, un cammino arduo ma fondato su quella sicura speranza perché l’uomo è ordinato alla pace.
Il rendimento di grazie per quanto ricevuto ha preso forma nella Preghiera per la Custodia del creato e per la Pace che ha concluso nel modo più alto il Convegno, raccogliendo le istanze di pace e le vie di pace emerse, per disporci insieme al cammino, crescendo come comunità di pace per risvegliare l’anelito profondo di pace e alimentare nella ricchezza della diversità il vero volto dell’umanità, disegnato nella pace.

A cura della Redazione

incontro estivo 2018 Bellam

BASTA…

“La pace: va coltivata anche nei terreni aridi delle contrapposizioni, perché oggi, malgrado tutto, non c’è alternativa possibile alla pace. Non le tregue garantite da muri e prove di forza porteranno la pace, ma la volontà reale di ascolto e dialogo. Noi ci impegniamo a camminare, pregare e lavorare, e imploriamo che l’arte dell’incontro prevalga sulle strategie dello scontro, che all’ostentazione di minacciosi segni di potere subentri il potere di segni speranzosi: uomini di buona volontà e di credo diversi che non hanno paura di parlarsi, di accogliere le ragioni altrui e di occuparsi gli uni degli altri. Solo così, avendo cura che a nessuno manchino il pane e il lavoro, la dignità e la speranza, le urla di guerra si muteranno in canti di pace. Per fare questo è essenziale che chi detiene il potere si ponga finalmente e decisamente al vero servizio della pace e non dei propri interessi. Basta ai tornaconti di pochi sulla pelle di molti! Basta alle occupazioni di terre che lacerano i popoli! Basta al prevalere delle verità di parte sulle speranze della gente! Basta usare il Medio Oriente per profitti estranei al Medio Oriente!”
(Papa Francesco, Bari 7 luglio 2018).