Presentazione del Messaggio per la 52ª Giornata Mondiale della Pace
S.E. Mons. Mario Toso
PREMESSA
Il Messaggio per la 52.a Giornata mondiale della pace di papa Francesco porta questo titolo: La buona politica è al servizio della pace.1 Si tratta di un Messaggio sintetico, intenso. Appare scritto con un linguaggio in sintonia con le leggi della comunicazione odierna. Offre alcuni rapidi cenni di riflessione, abbozzi di pensiero che necessitano di ulteriori sviluppi. Il tema è davvero cruciale e presenta più risvolti, sicché diventa proprio necessario un approfondimento più ampio ed articolato.
Tuttavia, le indicazioni in esso contenute, in ordine all’impegno universale per la pace, appaiono nitide e coraggiose.
Non è inutile rilevare, sin dall’inizio, che la sollecitazione di papa Francesco a vivere la politica imperniandola sulle virtù umane ma anche, in particolare, sulla Carità, la virtù delle virtù teologali (cf n. 3), in modo da renderla una politica retta, buona, efficacemente al servizio del grande bene della pace, risulta essere un chiaro invito a non risparmiarsi sul fronte dell’evangelizzazione della stessa politica, in vista della sua redenzione. La politica, per essere pienamente a servizio della pace, ha bisogno di essere redenta, di essere cioè animata dalla vita di Dio, dal suo Amore, un Amore pieno di Verità, come ha insegnato papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate.2
L’impegno di chi intende militare in politica non può, dunque, ignorare, specie se credente, che senza l’aiuto di Dio, la pace è molto problematica e fragile, e che la legge fondamentale dell’attività politica è rappresentata dal comandamento nuovo di Gesù Cristo: amatevi l’un l’altro come io vi ho amati. Già questa sottolineatura è motivo di un primo esame di coscienza: siamo davvero convinti che la politica abbia bisogno di redenzione, di essere guarita e liberata dal male e che, quindi, occorra pensare ad essere presenti in essa non in una maniera qualunque, senza un impegno di umanizzazione e di divinizzazione?3
Si aggiunga, inoltre che il Messaggio, fra l’altro, esordisce porgendo l’augurio della pace di Cristo a tutto il mondo. Si tratta, evidentemente, di una pace che trascende l’ordine semplicemente umano e che si estende ad una dimensione di trascendenza che include i beni messianici, tra i quali vi è appunto la pace. Nella Dottrina sociale della Chiesa, tenendo conto di tale dimensione, si è sempre cercato di rappresentare la pace non come un semplice bene umano, non come il frutto di un impegno meramente naturale. La pace a cui allude la Dottrina sociale della Chiesa possiede in se stessa una connotazione radicale di assoluto, perché Dio ne è la sorgente, il promotore, il tutore supremo. A motivo di ciò i pontefici non augurano solo la «pace di Dio» ma molto più di questo, «il Dio della pace»,4 rivelando così la preoccupazione di una motivazione e fondazione esplicita, senza ambiguità.
La pace, dunque, richiede l’attenzione a tutte le dimensioni costitutive dell’uomo, compresa quella religiosa. Anche solo tenendo presenti i vari nomi della pace, reperibili nella Dottrina sociale della Chiesa (=DSC), nonché la sua dimensione di trascendenza, è possibile comprendere quanto la sua realizzazione richieda un’attenzione a trecento sessanta gradi, attenta alla sua fonte ultima, non dimentica, ovviamente, dei grandi problemi della fame, della povertà, delle ingiustizie, delle diseguaglianze, della tratta delle persone, delle migrazioni, 5 delle guerre in atto, della proliferazione incontrollata delle armi, del continuo inquinamento della casa comune che è il creato, del rapporto fra gli Stati, della necessità di una politica avente un respiro e un’autorità mondiali.6 Non a caso l’augurio di pace di papa Francesco, sin dalle prime battute del Messaggio, implica un riferimento alla casa comune, ossia alla casa di tutti: il pianeta in cui Dio ci ha posto ad abitare e del quale siamo chiamati a prenderci cura con sollecitudine (cf n. 1).
1. BREVE SINTESI E PUNTI NODALI PER LA NOSTRA RIFLESSIONE
Proprio perché la pace è un termine polivalente, ma i cui contenuti convergono nel bene comune delle società politiche e della famiglia umana – la pace è (quasi) sinonimo del bene comune, che si attua su più livelli –, il titolo del Messaggio può essere reso e svolto in questa maniera: la buona politica è al servizio del bene comune, ossia del bene di tutti e richiede il contributo responsabile di tutti. Che ciò equivalga ad un’interpretazione corretta del titolo emerge dal secondo paragrafo, da cui possiamo ricavare l’idea che la politica è l’impegno di «realizzare insieme il bene della città, della Nazione, dell’umanità» (cf n. 2). In che cosa consiste il bene della città? Il bene comune viene definito dalla Gaudium et spes come «l’insieme delle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni il conseguimento più pieno e più rapido della loro perfezione umana» (n. 74).
E, allora, si tratta di lavorare insieme per concretizzare le condizioni sociali di un avvenire degno e giusto per tutti, tramite il concorso di tutti, come appena detto. Se si vuole la pace nel mondo è fondamentale che, nei vari Paesi, nella famiglia dei popoli, sia vissuta una buona politica, intesa come un’azione comunitaria di servizio al bene comune. Tutti sono chiamati – cittadini e rappresentanti dei cittadini – a realizzare il bene comune, non andando in ordine sparso, bensì collaborando insieme, tramite un dialogo pubblico, creando le condizioni sociali che consentono ad ogni persona, ad ogni famiglia, ad ogni gruppo umano, ad ogni popolo il conseguimento della propria pienezza umana in Dio.
Perché la politica sia buona, cittadini e rappresentanti dei cittadini debbono, quindi, essere educati a servire il bene comune (ma noi, Chiesa e comunità politica, dove lo facciamo? Ecco un’altra domanda che ci dobbiamo porre per procedere ad un esame di coscienza), acquisendo tutta una serie di virtù umane (giustizia, equità, rispetto reciproco, sincerità, onestà), ma anche vivendo la virtù delle virtù teologali, ossia la Carità. Detto altrimenti, la politica richiede di essere redenta, come tutte le altre attività dell’uomo, mediante un’evangelizzazione del sociale. Solo così la politica può essere buona e porsi efficacemente al servizio dei doveri-diritti umani, della pace. Una politica animata dalla Carità, da un Amore pieno di verità, come ha insegnato Benedetto XVI, può meglio riconoscere la verità del bene umano, dei doveri-diritti, che non sono e non possono essere un qualcosa di arbitrario, frutto di scelte libertarie, come si sta sempre più verificando nei parlamenti. I doveri-diritti, secondo la DSC, rappresentano le direttrici di realizzazione del bene comune. Pertanto, se tali diritti non hanno un fondamento etico, e sono frutto di scelte arbitrarie e libertarie, viene messo in discussione il bene comune.
Per conseguire una buona politica, occorre, poi, secondo papa Francesco, che siano combattuti i vizi della politica che distruggono la vera politica, il bene umano che sta al centro del bene comune, togliendo credibilità sia ai cittadini sia ai rappresentanti, indebolendo la democrazia, mettendo in pericolo la pace. Quali sono, dunque, i vizi che debbono essere sconfitti? Papa Francesco ne elenca alcuni: il disprezzo per il diritto, la noncuranza delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la xenofobia, il razzismo, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali a motivo di un profitto immediato (cf n. 4). Lasciamo ad altri momenti l’approfondimento di ciascuno di questi vizi per concentrarci sulla corruzione.
2. IL VIZIO DEI VIZI: LA CORRUZIONE
Papa Francesco, pone al primo posto fra tutti i vizi, la corruzione, nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone (cf ib.). Perché papa Francesco è molto severo e tranciante nei confronti della corruzione, giungendo a dire: «peccatori sì, corrotti no»?7 Perché la corruzione è come una peste che infetta la politica e la distoglie dal suo obiettivo primario: il bene comune. La prima radice della corruzione è il cuore umano che si attacca smodatamente al denaro, al potere, al successo personale, mettendoli al posto di Dio. La corruzione più che un peccato è l’origine di molti peccati in politica, ma non solo. Il corrotto vive una condizione di vita che impedisce a Dio di perdonarlo. Di fronte a Dio, che non si stanca di perdonare, il corrotto si erge come autosufficiente, come colui che, in definitiva, è stanco della trascendenza.
Non crede in Dio. Adora solo se stesso, il proprio tornaconto. Il corrotto, in particolare, non si sogna nemmeno di chiedere perdono perché ritiene di non aver niente da farsi perdonare: che male c’è nel comportarsi come tutti (o quasi) si comportano non appena possono avvalersi di un qualche privilegio o approfittare di una posizione di forza e di potere per commettere soprusi ed ingiustizie? Che male c’è nel corrompere col proprio denaro o con il miraggio di una carriera facile conseguita o offerta a questa o a quella persona? Il corrotto non prova, dunque, alcun rimorso, e non vede di che cosa pentirsi, perché non riconosce la fraternità o l’amicizia. Non percepisce la sua corruzione, proprio come succede con chi ha l’alito cattivo: sono gli altri a doverglielo dire.8
I politici, ma anche i cittadini, per vivere una buona politica debbono, piuttosto, riconoscere i propri limiti e i propri peccati, ricercando la conversione morale e spirituale.9 I credenti sanno che per vivere una politica buona non sono necessarie solo le virtù umane, spiegando ovviamente alla gente il loro significato, oramai sempre più vago o sbiadito. C’è bisogno della Carità di Dio, del suo Amore pieno di verità, come appena detto. Essa abilita al servizio dei doveri-diritti umani, del bene di tutti, aprendo i vari «io» al «noi», all’unità e alla forza morale del vivere solidali, in comunità e comunione, prendendosi cura del bene di tutti, operando per il bene degli altri, del popolo intero, vivendo il comandamento nuovo come legge fondamentale dell’azione politica.
Per vincere i vizi della politica, e per rassodare una vita virtuosa, sul piano pedagogico è evidente l’urgenza di un impegno più determinato, volto ad impostare l’educazione attorno al perno culturale di un personalismo relazionale, solidale, aperto alla trascendenza, capace di coniugare libertà e responsabilità, libertà e verità, etica e politica, tecnica ed etica.
Più in particolare, va oggi lottato contro quell’individualismo libertario che impregna la cultura contemporanea e che rinchiude le persone in se stesse, nella paura di donarsi costantemente agli altri, al bene comune.
Un tale individualismo erge come unico metro di misura il proprio «io», vissuto separatamente dalla intrinseca capacità di ognuno di ricercare il vero, il bene e Dio, nonché dal contesto sociale, dalla relazionalità. Tra le conseguenze dell’attuale individualismo libertario ed utilitario c’è l’indebolimento della possibilità della convergenza su beni-valori condivisi da tutti; c’è una certa allergia all’unità morale, spirituale e culturale che fa da perno a qualsiasi società; c’è la crescita di uno strisciante e subdolo scetticismo nei confronti dell’autorità e delle istituzioni che sembra diventare dubbio sistematico e voglia di destrutturazione nei confronti del pubblico e di tutto ciò che non è individuale.
L’educazione deve, in particolare, tener conto del fatto che tra la cultura sociale (quella prevalente nella totalità dei cittadini) e la cultura politica di un Paese (quella prevalente fra i politici e gli amministratori) vi è un legame stretto. I cittadini si lamentano dei politici, ma occorre anche tener presente che questi ultimi sono innegabilmente espressione dell’intera società.
L’Italia è, purtroppo, tra i Paesi più colpiti al mondo dalla corruzione che condiziona tutta l’economia e la vita. Si pensi alla mafia che ha invaso parecchie regioni italiane, le attività agricole, l’industria, le opere pubbliche, l’amministrazione della giustizia. Per combattere e arginare la corruzione non basta controllare i partiti. I partiti non sono più al centro della scena nello spartirsi finanziamenti occulti ottenuti da privati in cambio di favori: oggi i partiti sono gli strumenti di cui i politici corrotti si servono per arricchirsi e rafforzare il proprio potere personale. È necessaria senz’altro una crescita della coscienza civile e morale dell’intera società.10 E questo avviene, come già detto, mediante un’opera di educazione civile intensa e sistematica.
3. CARITÀ, AMORE PIENO DI VERITÀ, E SERVIZIO DELLA POLITICA AI DIRITTI UMANI E ALLA PACE INTESA COME BENE COMUNE
Analizzando lo svolgimento del Messaggio di papa Francesco, sia pure in maniera sommaria, si è potuto rilevare che la Carità, come spiegata da Benedetto XVI, è indispensabile alla politica per essere retta,ossia al servizio dei doveri-diritti e della pace, quasi sinonimo di bene comune. Ma quanto è proposto dai pontefici oggi non è così scontato e pacifico. Detto altrimenti, un minimo di approfondimento del Messaggio ci pone di fronte a questioni per noi cruciali. Oggi, infatti, prevale una concezione neopositivista e libertaria dei diritti, come anche una concezione di bene comune in sintonia con posizioni filosofiche neocomunitariste e neoliberaliste.11 Come può essere «buona» la politica quando sia guidata da visioni neopositiviste dei diritti e da una concezione del bene comune neocomunitarista (cf Michael J. Sandel, Charles Taylor e Michael Walzer) o neocontrattualista (cf D. Gauthier, J. Rawls) o neoutilitarista (cf John C. Harsanyi), che sono tutte incapaci di offrire un solido fondamento morale sia ai diritti sia al bene comune? La risposta a simile quesito esige che siano enucleate concezioni dei doveri e diritti, nonché del bene comune, in linea con ciò che papa Francesco intende per «buona politica».
La buona politica non può prescindere da visioni del diritto che non abbia un fondamento morale certo, come anche non può prescindere da una concezione del bene comune che non sia connessa con il bene umano, con un’etica laica sì, ma non laicista né libertaria. Ecco, allora, profilarsi almeno due tappe obbligate per la nostra riflessione che viene, conseguentemente, a polarizzarsi su queste questioni: a) esiste un fondamento certo dei diritti, un fondamento che non sia solo statuale?; b) il bene comune deve prescindere, come oggi si tende ad affermare, da qualsiasi concezione di bene umano, pena la mutazione della democrazia in regime totalitario?
Per offrire contenuti razionali ed universali all’attuazione del Messaggio per la Giornata mondiale della Pace di papa Francesco è d’obbligo avviare una riflessione dapprima sui diritti e, poi, sulla nozione del bene comune. Per ragioni di tempo tralasciamo qui una pur imprescindibile riflessione sulla giustizia sociale, la giustizia del bene comune, che meriterebbe altrettanta attenzione in vista della realizzazione di una buona politica.12
3.1. Quale fondamento per i diritti?
Rispetto ai diritti qual è la situazione odierna? Ci si pone fondamentalmente su due posizioni, che sono poi connesse tra loro. La prima mostra aspetti di carattere individualistico. Infatti, molte persone tendono a coltivare la pretesa di non dover niente a nessuno, tranne che a se stesse. Ritengono di essere titolari solo di diritti e incontrano spesso forti ostacoli a maturare una responsabilità per il proprio e l’altrui sviluppo integrale. Orbene, una concezione individualistica dei diritti, senza il corrispettivo di doveri, espone alla trasformazione degli stessi diritti in arbitrii. I diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca a loro un senso compiuto, impazziscono ed alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri.
E così, si assiste ad una situazione paradossale e contraddittoria: «Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell’umanità» (Caritas in veritate, n. 43).
La seconda posizione che si coltiva attualmente è quella secondo cui i diritti trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un’assemblea di cittadini. Ma anche questa posizione mostra un’estrema fragilità. Se i diritti dell’uomo, infatti, trovano il loro fondamento unicamente nelle deliberazioni maggioritarie delle assemblee parlamentari, essi possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di rispettarli e perseguirli si allenta nella coscienza comune. I Governi e gli Organismi internazionali possono allora dimenticare l’oggettività e l’«indisponibilità» dei diritti.
Quando ciò avviene, la buona politica, il vero sviluppo dei popoli e la pace sono messi in pericolo.
Per queste ragioni è importante andare alla ricerca di un fondamento meno labile, ossia metapositivo ed etico, prestatuale, per i diritti, e procedere all’educazione della coscienza dei cittadini e dei popoli.
In una situazione di pluralismo culturale spesso divaricato e, quindi, con l’impossibilità pratica di una convergenza minima, si dice che ci si dovrebbe accontentare di omologare i diritti così come sono percepiti dall’ethos popolare vigente, spesso sfuocato o manipolato dai mezzi di comunicazione sociale.
Ma questa posizione, come già accennato, non istituisce un vaglio critico circa la rettitudine della coscienza popolare ed espone alla registrazione del semplice dato storico. In questa linea si collocano l’americano Richard Rorty e gli italiani Gianni Vattimo e Norberto Bobbio, scomparso alcuni anni fa, il quale riteneva che la ricerca di un fondamento certo per i diritti fosse un’impresa disperata. E tuttavia, senza un tale fondamento i diritti non sarebbero incontrovertibili, bensì momenti passeggeri della coscienza storica. Non si potrebbe procedere a distinguere i veri diritti da quelli falsi.
Si è così di fronte a un bivio. O si ammette che i diritti sono controvertibili e pertanto mutevoli, o si procede alla ricerca di un fondamento certo per le norme morali e per i diritti.
Come insegnano la DSC e lo stesso Tommaso d’Aquino, il fondamento incontrovertibile della legge morale e dei diritti è da ricercare nell’essere umano in quanto capax (non si tratta solo di capacità intellettuale, ma anche morale, sulla base della libertà e della responsabilità…) veri, boni et Dei.
Si può pensare che tutte le culture, pur diverse, accettano universalmente i diritti e li riconducono ad un fondamento certo, quando si riconoscano partecipi di una comune ricerca del vero bene umano, ricerca che può attingere la legge morale, la quale è seminata da Dio nelle coscienze. È nella capacità umana di perseguire la ricerca del bene, di riconoscerlo, di aderirvi liberamente orientandosi a Dio, che si trova il fondamento dell’inviolabilità della dignità della persona e dei suoi diritti. Tale fondamento, tra l’altro, fornisce la ragione della benevolenza e del rispetto dell’altro, della collaborazione ad imprese comuni, dell’inviolabilità delle regole di giustizia, che debbono consentire a ciascuno la ricerca dei beni necessari, compreso il Bene sommo, Dio.
Ciò premesso, ecco alcuni punti fondamentali per l’educazione della coscienza dei cittadini e dei popoli:
a) mostrare ad ogni uomo che in lui vi è una naturale capacità di conoscere, di volere e di scegliere il vero, il bene e Dio, sia pure gradualmente entro i suoi limiti. Se il vero bene umano non fosse accessibile, non si potrebbe riconoscere un fondamento sicuro per i diritti, per discernere circa la loro autenticità e per non confonderli con l’arbitrio. Quando si spalanchino le porte ad un diritto frutto di una libertà arbitraria non è più possibile disporre di un diritto certo, di valenza universale;
b) formare, oltre che ai diritti, ai doveri corrispettivi (al diritto al lavoro corrisponde il dovere di lavorare, al diritto allo studio corrisponde il dovere di studiare e così via.);
c) curare, parallelamente alla dimensione storica, quella sovrastorica della coscienza. In effetti, se la coscienza collettiva è fallibile o può essere incostante, occorre rinsaldare l’ancoraggio sovrastorico di cui è naturalmente dotata, affinché rimanga il più possibile fedele ai diritti fondamentali;
d) pensare ai diritti dell’uomo non prescindendo da Dio, bensì avendo come parametro fondamentale il compimento umano in Lui. La storia del diritto, da Ugo Grozio ai nostri giorni, mostra che il tentativo di pensare i diritti staccandoli dal fondamento dell’ordine morale, e cioè da Dio, conduce allo svuotamento dei loro contenuti etici e approda a una laicità desemantizzata dello Stato.
e) abituare all’uso critico dei media che mostrano una forte capacità nel dare forma alle coscienze sia nell’addormentarle, mediante la cultura del consumo e della violenza, sia nello svegliarle.
3.2. Quale nozione di bene comune omogenea con la buona politica?
La questione del bene comune è centrale nella vita di un popolo. Senza di esso non può esistere e svilupparsi una società politica, come anche una buona politica, perché rimarrebbero prive di un chiaro orientamento umanistico per la loro gestione e per il loro futuro.
Spesso l’espressione bene comune viene usata come equivalente di interesse generale, con un trasferimento marcato all’ambito del diritto o della amministrazione, poiché si dimentica la sua appartenenza a quello dell’etica. Altre volte lo si confonde con il bene totale, ossia la somma dei beni, o con l’utilità media collettiva. Ma, a ben riflettere, come hanno anche insegnato i grandi filosofi e teologi del cristianesimo, il bene comune è un bene essenzialmente umano, ovvero relativo alle persone umane, ai vari gruppi e società umane.
Esso appartiene al tutto sociale e si misura in rapporto ai doveri e ai diritti che sono enucleati in rapporto ai fini delle persone.
Il bene comune va realizzato specificandolo a seconda delle varie situazioni storiche di un Paese e tenuto conto del bene umano, il quale va inteso non come una mera sintesi degli interessi particolari, bensì come un insieme ordinato di beni relativamente al compimento umano in Dio. Il bene comune specificato in base al bene umano richiede, dunque, di essere realizzato non in una maniera qualsiasi, senza una scala dei valori come punto di riferimento, bensì alla luce di una gerarchia di beni.
Se si parte dal principio che in politica non si può avere, anzi, non si deve seguire una gerarchia di beni, si finirà per prospettare la realizzazione del bene comune secondo logiche hobbesiane utilitariste o tecnicaliste. Il bene comune non potrà che configurarsi come il risultato di una contrattazione tra gli interessi degli individui e dei gruppi, che vedono nello Stato un semplice moderatore della libertà di competizione, affinché gli attori non si distruggano e godano di pari opportunità. In effetti, attualmente, la realizzazione del bene comune consiste nell’accontentare le richieste particolari dei vari gruppi o dei singoli gruppi parlamentari, il cui voto è indispensabile per l’approvazione delle leggi, senza affrontare seriamente i problemi più gravi del Paese all’interno di una visione complessiva che permetta di individuare precedenze ed urgenze.
Detto altrimenti, il bene comune appare come una mera sintesi di interessi disparati e sezionali, in una composizione simile ad una somma o ad una sottrazione. O addirittura viene inteso come una semplice gestione contabile delle cose, o anche come una tecnicalità incentrata su una cultura meramente digitale. E non certo come esperienza di una politica intesa in senso alto, ossia come luogo o «casa» in cui si vive tutti insieme e ci si impegna a prendersi concretamente cura di se stessi e dell’altro, specie se svantaggiato o debole. Nell’affannosa ricerca di una sintesi, troppi attori, singoli o collettivi, cercano di mantenere o di conquistarsi posizioni di rendita e di privilegio, massimizzando i propri vantaggi senza curarsi delle ricadute sul bene comune.
In definitiva, occorre riconoscere che nell’attuale contesto culturale di tipo digitale, frammentato e relativistico, privo di una visione unitaria di Paese, esiste anche per il bene comune un problema di fondazione morale, a fronte di tentativi che lo scalzano dalla razionalità pratica, sino a svuotarlo dei suoi contenuti umanistici, oppure cercano di riproporlo senza, però, dotarlo di una base razionale oggettiva ed universale.
Orbene, tutto ciò che misconosce o intacca la ragione pratica – ragione che partecipa dell’ordine morale quale è pensato dall’intelligenza di Dio –, finisce per minare le basi etiche dei diritti e dei doveri, dello stesso bene comune. Per trovare un fondamento certo e sicuro al bene comune non bastano quelle posizioni dottrinali secondo cui esso emerge da una semplice convergenza consensuale (da un overlapping consensus) o è dato da un bene per la media della popolazione. Non basta, poi, raffigurare i cittadini come soggetti atti al contratto sociale, ma indifferenti nei confronti del bene altrui, guidati dalla paura del diverso. Implica che si sia capaci di ricercare il vero e il bene, oltre che Dio. Grazie a ciò si giunge a vedere l’altro come un simile, un essere fraterno, la cui umanità va potenziata perché partecipa della mia stessa umanità.
Solo soggetti costituiti come esseri inclini al bene perfetto sono in grado di fondare saldamente e incontrovertibilmente il bene comune, nonché i doveri e i diritti umani che lo sostanziano. I diritti non sono strumenti per difendere la nostra libertà dallo Stato invadente (concezione meramente liberale ed utilitarista), dalla violenza degli altri che comprimono la nostra dignità, quanto piuttosto vie per potenziare la nostra vita umana e sociale, ossia come mezzo per meglio esprimere la ricchezza e la generosità ontologica, relazionale, etica e spirituale del nostro essere umano (e cristiano).
Al contrario, cittadini dotati di una volontà libera per indifferenza – nozione, questa, alla base delle moderne teorie liberali e neoutilitariste –, e, pertanto, priva di un criterio normativo immanente, non sono in grado di discernere e di fondare un ordine morale oggettivo, che rimane loro sempre fondamentalmente estraneo. E neppure possono giustificare diritti, doveri, bene comune con ragionamenti universali, peraltro indispensabili alla loro affermazione sul piano mondiale.
La loro globalizzazione, invece, avviene su basi morali cogenti quando si riconosca che i soggetticittadini sono guidati dal telos normativo del bene perfetto. È, dunque, la dignità inviolabile delle persone e dei popoli – cioè la loro capacità di perseguire il bene umano, di riconoscerlo e di aderirvi liberamente e responsabilmente – che offre garanzie di futuro al bene comune nazionale e mondiale, alla buona politica, alla democrazia.
Detto altrimenti, la rivisitazione critica e la risemantizzazione della nozione di bene comune, andando al di là della sua fondazione nell’attuale clima culturale di scetticismo e di relativismo etico, possono effettuarsi grazie all’anelito, insito in ogni uomo e in ogni donna, al bene e al bene perfetto. Ciò fa sì che la volontà resti libera di scegliere beni ed azioni particolari in conformità con l’ordine morale.
La ragione pratica, in particolare, diventa allora abbozzo di ordine morale, avvio alla vita moralmente buona sul piano politico, perché fa sì che la volontà veda il bene comune come bene degno in sé, in conformità all’essere intrinsecamente relazionale delle persone e alla loro tensione costitutiva verso l’Amore assoluto.
Qui si comprende l’importanza delle parole di san Giovanni Paolo II che, nell’enciclica Fides et ratio, giunge ad affermare che uno dei compiti più urgenti della nuova evangelizzazione sarà quello di far prendere coscienza alle persone e ai popoli della loro nativa capacità di vero, di bene e di Dio.13
4. CONCLUSIONE:IL BENE COMUNE, INTESO COME VIVERE VIRTUOSO DEI CITTADINI, È COMMISURATO ALLA BUONA POLITICA
Nella definizione data dalla Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II, si possono intravedere ragioni che inducono a pensare al bene comune come ad un bene più che strumentale, ossia ad un bene umano. Le condizioni sociali non sono neutre, ma debbono essere ministeriali alla crescita umana. Ciò significa che cittadini e governanti debbono costantemente organizzarle ed orientarle omogeneamente ad obiettivi morali, cosa che richiede una vita virtuosa. Pertanto, il bene comune, definito dalla Gaudium et spes (=GS) come bene strumentale, relativo all’essere e al bene integrale delle persone, non è scisso del tutto dalla concezione di bene comune come bene sostantivo, ossia come vita retta della moltitudine.
La dimensione sostantiva del bene comune, sia come realtà attinente al bene umano delle persone sia come un vivere bene politico, ci pare maggiormente colta nella definizione della Centesimus annus, ove Giovanni Paolo II ne propone una versione nuova rispetto alla GS. Il bene comune, scrive, «non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione fatta in base ad un’equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, ad un’esatta com prensione del la dignità e dei diritti del la persona» (CA n. 47).
Per quanto detto, la visione prevalentemente strumentale della DSC non esclude la nozione di bene comune propria dei classici, riscontrabile in Aristotele, in Tommaso d’Aquino e, tra i pensatori cattolici del secolo scorso, in Jacques Maritain.14
Per questi, il bene comune, realizzazione della giustizia e della pace tra le persone, è vita retta della moltitudine. È non solo un predisporre le condizioni per vivere virtuosamente, un mezzo per ottenere le virtù, ma è già un vivere secondo virtù, un vivere bene in sé. Esso è parte dell’esercizio delle virtù, è virtù. È elemento essenziale del fine della vita che è proprio di un essere corporeo-spirituale. È bonum honestum, bene onesto, arduo. Il bene comune politico è il vivere bene del le persone nel – la città,15 in quanto formano un’unità di ordine (unitas ordinis) che consente il raggiungimento del la perfezione umana dei singoli cittadini, rappresentata dall’esercizio di tutte le virtù, dalla beatitudine imperfetta.
Il bene comune che, come si è detto, è prospettato in termini differenti da Tommaso d’Aquino e dalla DSC, non è, però, da essi ritenuto un fine ultimo assoluto. Il retto ordine sociale (finis qui) non è un fine per se stesso, ma è infravalente, intermedio. È prospettato e raggiunto come condizione indispensabile per la perfezione dei membri che sono esseri corpo reo-spirituali (finis cui), aventi un fine ultimo trascendente. La persona non si risolve interamente nel la società politica. «L’uomo non è ordinato al la società politica secondo tutto se stesso e secondo tutte le sue cose […], ma tutto ciò che l’uomo è, e ciò che può, ed ha, deve essere ordinato a Dio».16
Tutto ciò premesso, è agevole concludere che la realizzazione di una buona politica, quale desiderata da papa Francesco, si sviluppa in società ove ci si impegna ad attuare un vivere politico virtuoso, teso ad organizzare e ad orientare con perseveranza – in questo consiste la virtù – le varie condizioni sociali, in modo che siano ministeriali al compimento umano delle persone e dei gruppi.
È possibile disporre di una nozione di bene umano, correlata al bene comune, se si rifiuta l’assioma moderno delle scienze empiriche quale unica via di un sapere valido. È in questo contesto che si comprende l’importanza dell’esercizio di una ragione integrale che si avvale di una ragione speculativa e pratica, capace di attingere, sia pure imperfettamente la verità del bene umano.
Grazie ad una simile ragione si scopre che fondamento del bene comune è la dignità umana, intesa come capacità di vero, di bene e di Dio. Grazie a ciò si può affermare che ogni persona è capace di bene comune e vi è chiamata per il suo essere e per vocazione. Sulla base di ciò, anche nella nostra società, particolarmente frammentata e multiculturale, è possibile convergere da parte di tutti – credenti o non credenti, cattolici o protestanti, buddisti o mussulmani, di qualunque razza ed etnia – verso una piattaforma condivisa di beni-valori, quale direttrice di realizzazione del bene comune. E questo perché tutti gli uomini vengono al mondo dotati di una simile innata capacità. Poiché tutti sono capaci di bene comune viene spontaneo cercare di realizzare non solo il proprio bene, ma anche cercare di coinvolgere tutti gli altri, credenti o non credenti, sulla base della comune capacità di bene e di dialogo. Non vi sono alternative alla via del dialogo tra le civiltà. O, se vi sono, equivalgono a sopraffazione, conflitto, guerra, distruzione reciproca.
S.E. Mons. Mario Toso
Vescovo di Faenza-Modigliana
1 FRANCESCO, Messaggio per la celebrazione della 52.a Giornata Mondiale della Pace 2019: La buona politica è al servizio della pace, Lev, Città del Vaticano 2018.
2 BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, Lev, Città del Vaticano 2009.
3 In vista di una riflessione circa la presenza dei cattolici in politica si veda: M. TOSO, Cattolici e politica, Società cooperativa sociale Frate Jacopa, Roma 20182.
4 Riflessioni sul «Dio della pace», sul fondamento teologico ed ecclesiologico della pace si possono incontrare nell’articolo di R. PENNA, «Il Dio della pace» nell’epistolario paolino, in PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Il concetto di pace, Lev, Città del Vaticano 2013, pp.139-161.
5 Su questo si veda almeno: M. TOSO, Uomini e donne in cerca di pace. Commento al Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2018, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2018.
6 Cf M. TOSO, La ricezione e l’attualità della «Pacem in terris », in PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Il concetto di pace, Lev, Città del Vaticano 2013, pp. 41-70. Con Pio XII la pace era ritenuta opera della giustizia (opus iustitiae). Con san Giovanni XXIII la pace è stata immaginata come un ordine sociale organizzato e strutturato sul fondamento dei seguenti quattro pilastri: libertà, verità, giustizia e amore, considerati in maniera connessa ed interdipendente (cf GIOVANNI XXIII, Pacem in terris, n. 46). La Gaudium et spes ribadisce la definizione riportata da Pio XII che la mutua da Is. 32,7 (cf n. 78). Nella Populorum progressio san Paolo VI nella parte finale dell’enciclica giunge ad affermare che il nuovo nome della pace è lo sviluppo integrale, ossia lo sviluppo di ogni uomo, di tutto l’uomo, di ogni popolo, di tutti i popoli riuniti nella comunità mondiale (cf Populorum progresssio, n. 87). Nella Sollicitudo rei socialis di san Giovanni Paolo II si trova scritto che la pace è opera della solidarietà: opus solidaritatis pax (cf Sollicitudo rei socialis in AAS 80 [1988] 513-586). Dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI si può evincere che la pace è lo sviluppo umano integrale imperniato su un Amore pieno di verità. Con papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’ la pace pare essere definibile come uno sviluppo integrale, sostenibile, inclusivo, imperniato su un’ecologia integrale.
7 Cf FRANCESCO, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae (lunedì, 11 novembre 2013).
8 Cf FRANCESCO, Discorso rivolto alla delegazione dell’Associazione internazionale di Diritto penale (23 ottobre 2014): «Il corrotto – ha detto papa Francesco – attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. È un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica. La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione.
Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza.
La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole. Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti».
9 Per una visione più completa del pensiero di papa Francesco sul tema della corruzione si legga almeno FRANCESCO (JORGE MARIO BERGOGLIO), Guarire dalla corruzione, EMI, Bologna 2013.
10 Su questo si veda FONDAZIONE RES, Politica e corruzione. Partiti e reti di affari da Tangentopoli ad oggi, a cura di Rocco Sciarrone, Donzelli 2017.
11 Cf M. TOSO, Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, LAS, Roma 2005, pp. 119-123.
12 Su un concetto di giustizia sociale elaborato in linea con una buona politica si veda almeno M. TOSO, Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, LAS, Roma 2005, pp. 131-145.
13 Cf GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Fides et ratio (14.09.1998), n. 102, in AAS 91 (1999) 5-88.
14 Cf J. MARITAIN, La personne et le bien commun, Desclée de Brouwer, Bruges 1946, tr. it.: La persona e il bene comune, Morcel liana, Brescia 1963, p. 31.
15 Nel commento al l’Etica nicomachea, Tommaso afferma che la civitas ha come fine il bene vivere di tutti i suoi componenti e che, pertanto, la scienza politica ha per oggetto il bonum commune civitatis (cf TOMMASO D’AQUINO, In decem libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum expositio, Torino-Roma 1949, I, lectio I,4; lectio II, 25-31).
16 TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 21, a. 4, ad tertium.