Dall’incontro con il Dott. Edoardo Patriarca *
Nell’ambito del Ciclo promosso a Bologna daIla Parrocchia S. Maria Annunziata di Fossolo e dalla Fraternità Francescana Frate Jacopa, domenica 21 aprile 2024 il tema “La cultura del dono, via di partecipazione sociale e civile per l’edificazione del bene comune della pace” è stato proposto dal Dott. Edoardo Patriarca, già Senatore della Repubblica, attualmente presidente dell’Associazione Anla. La sua lunga esperienza in ambito politico, nel Centro Nazionale per il volontariato, nell’Istituto Italiano della donazione, nell’Agenzia del Terzo Settore e in varie altre importanti istituzioni, ha permesso di entrare nel merito dell’argomento con ampio respiro, a partire dalla cultura del dono, fondamentale per la cura della dignità di ogni uomo e di ogni popolo. E’ nelle mani di ciascuno di noi rispondere del “dono” e inverare nel passaggio dall’io individualista al noi della fraternità quella cultura del dono, indispensabile fermento di costruzione della polis nel suo senso più proprio, autentica manutenzione della pace, affinché il mondo, sulla base della giustizia e della solidarietà, non sia un mercato ma una casa per tutti.
La profonda riflessione, impreziosita dall’esperienza e relazionata alle molteplici dimensioni della cultura del dono, è stata avvertita come indicazione profonda per la vita personale e la vita di comunità, per la cura della dignità umana, per rendere possibile un futuro animato dalla generativa cultura del dono. Con un grande grazie al Dott. Patriarca, siamo quindi lieti di condividerne i contenuti con tutti i lettori del Cantico.
INTRODUZIONE
Nella situazione attuale fatichiamo a promuovere una cultura del dono perché la cultura del dono contrasta le traiettorie del nostro tempo. Oggi parlare di cultura del dono significa accettare una grande sfida culturale, politica e sociale. Parlare di cultura del dono vuole dire davvero cambiare punto di vista nel leggere la realtà e nel progettare il futuro. Questa dimensione è legata alla persona e dunque allo stile di vita: come tu ti proponi con gli altri, nelle relazioni, negli impegni.
Inoltre quando riflettiamo sul dono, di cultura del dono, non parliamo soltanto della dimensione personale, amicale, famigliare. Quando parliamo del dono parliamo di una scelta politica, di una scelta sociale, di una scelta che ci fa dire anche “siamo alternativi ad altro”.
Occorre capire il tempo che stiamo vivendo. Quali sono gli elementi che contrastano con la cultura del dono?
Il primo elemento da considerare è il forte individualismo che ormai pervade tutte le dimensioni della vita, della comunità e persino noi stessi. Ci siamo quasi abituati a percepirci così. La struttura sociale ed economica ha assunto questo paradigma in maniera molto strutturata. Ma dietro questa antropologia apparentemente vincente, diversa da quella cristiana, c’è tanta solitudine. Conta quello che tu desideri, conta quello che tu hai in mente per te stesso (“ti puoi salvare da solo”) con il risultato di produrre appunto tanta solitudine. Oggi il virus più pericoloso che sta pervadendo la comunità, non solo le persone anziane – pensiamo al disagio adolescenziale e anche giovanile – è proprio la solitudine. Siamo in una emergenza sociale che avanza passo dopo passo.
Un secondo elemento di criticità (quando parliamo di dono parliamo di una svolta radicale) è che l’attuale sistema economico sociale spinge le persone e le comunità a vivere di rapporti superficiali, la profondità viene negletta perché disturba i meccanismi sui quali si fonda il mercato del consumo. Il sistema si muove volutamente per far sì che i rapporti tra le persone siano superficiali. Il filosofo Byung-Chul Han di origine sudcoreana, che vive e insegna in Germania, descrive la società attuale come una grande superficie levigata, lucida, senza grinze, che non prevede intoppi perché tutto deve essere funzionale al mercato dei consumi. Qual è il risvolto? Superfici lucide, si va veloci, non ci sono intoppi, guai a dire che la vita è un po’ più complicata. Ma di fronte alla fatica, al dolore, al conflitto, le persone sono smarrite, poco attrezzate e incapaci di gestire situazioni di fragilità. L’altro diventa così un ostacolo, una minaccia, un impedimento alla realizzazione della tua vita.
Un terzo elemento è privatizzazione silenziosa delle relazioni sociali. Le persone diventano isole che faticano a comunicare, non esiste neppure più la parvenza di arcipelago che qualche collegamento lo prevede.
Consideriamo ad esempio quello che sta accadendo al sistema sanitario nazionale: piuttosto che rafforzare un servizio pubblico universale, aperto a tutti, si dà spazio passo dopo passo alla dimensione del privato, che concretamente significa garantire l’accesso solo a coloro che se lo possono permettere.
Un altro elemento su cui riflettere è la mancanza dei riti di passaggio. Noi siamo cresciuti in tempi in cui i riti di passaggio ci narravano che crescevamo, che c’era un futuro da preparare (cresima, comunione, il diploma, i compleanni…). Ecco, questi riti di passaggio così preziosi per maturare a livello personale si sono appiattiti (per tornare alle superfici levigate), funzionali solo ad una mera logica di consumo: oggi vivo il “qui e ora”, quello che c’è stato ieri l’ho già dimenticato, quello che ci sarà domani non mi interessa più di tanto. Sono elementi che contrastano la cultura del dono: sembra quasi che sia stato abolito il futuro con gravi conseguenze a livello sociale e culturale.
Come può vivere una comunità se rattrappisce e non sa guardare con speranza oltre il proprio orizzonte temporale? Ma il futuro per essere futuro ha bisogno di essere costruito qui e oggi, forte di una memoria del passato fonte preziosa di saperi e competenze. Oggi, purtroppo, anche la politica vive nel qui e ora, e se c’è un problema ci si mette una toppa! Non si intravede un disegno di futuro e neppure un abbozzo di progetto per una comunità più giusta e solidale, perché la logica delle superfici levigate e lucide non contemplano la presenza di scarti, di ingiustizie, di povertà che vanno tenute ben nascoste nella narrazione pubblica.
Ultimo dato: tutte le relazioni sociali e persino amicali sono inquinate da quello che il Prof. Zamagni direbbe “lo scambio degli equivalenti” che funziona (in parte) nel mercato e in economia. Se questo meccanismo entra nelle relazioni tutto è ridotto a scambi strumentali, io do una cosa a te e tu mi dai l’equivalente. Ma sappiamo tutti che nessuna società può sopravvivere se legata da funzioni solo strumentali. Segno di poca fiducia e di affaticamento esistenziale, vuol dire ostilità e rassegnazione.
LA CULTURA DEL DONO
Se questo è un quadro, molto a pennellate, di quello che stiamo vivendo, allora quando parliamo di cultura del dono, di cosa parliamo? “Il dono è un’azione gratuita, disinteressata, senza tendere ad alcun vantaggio economico, di prestigio e di potere. È condivisione di quello che si ha e di quello che si è” (Zamagni-Bruni).
E nella vita personale e professionale, quali sono i tratti di coloro che vivono autenticamente nella Chiesa la cultura del dono come modo di essere, come stile di vita? Quale profilo immaginiamo per una persona che accoglie esistenzialmente e interiormente la cultura del dono? La pratica del dono è un agire silenzioso, non ricerca clamore, opera con generosità. È un atto di libertà, non è una costrizione, non potrebbe essere altrimenti. È un gesto di coraggio, è “metterci il cuore”, è una scommessa verso l’altro e un invito affinché eserciti la propria libertà.
La parola per-dono nel suo significato più profondo vuole dire proprio: ti ridò la vita, ti ridò la mia amicizia, ti offro la libertà e ti richiamo alla tua responsabilità. Il dono è il tempo della qualità (kairos), il tempo della cura; non è il tempo dell’orologio (chronos) che oggi lo fa da padrone.
Pensiamo al tema della cura nella sanità dove tutto è diventato tempo della prestazione, e non il tempo del dono che è prendersi cura della persona in tutte le sue dimensioni.
La cultura del dono ci chiede di recuperare il tempo dell’altro, la qualità delle relazioni, il tempo giusto per la cura dell’altro e di tutto ciò che ci circonda. Meno persi nelle migliaia di cose da fare e più attenti invece a non stare sulla superficie, provando ad indagare la vita nella sua profondità, accogliendo il mistero che la circonda.
Dietro il tema della cura c’è anche il tema dell’ascolto, quello vero, che non accetta risposte predefinite perché le risposte che generano vita si trovano sempre insieme. Lo stesso vale nei rapporti personali, nell’ascoltarsi vicendevolmente e nel riconquistare un rapporto di intimità con gli altri. Che vuol dire contrastare la logica del possesso e del consumo, per muoversi verso gli altri come se entrassimo dentro una cristalleria.
Un punto che avrebbe ricadute positive in termini di educazione sentimentale da proporre ai nostri ragazzi: recuperare la cultura dell’intimità significa educarsi ad amare il proprio corpo e rispettare profondamente il corpo degli altri.
Vivere la vita come dono è anche “sentirsi a debito”. Un mio amico prete, assistente dell’Agesci, nelle sue riflessioni mi raccomandava sempre: “guarda Edo, se vuoi avere il metro di misura sulla maturità della fede tua e di quella degli altri, ti do io una chiave di lettura; se sei una persona che vive nel dono sarai felice e ti sentirai sempre a “debito” per il tanto che hai ricevuto; se invece credi di essere a “credito” perché ritieni di aver dato tanto senza essere corrisposto, sarai un infelice”.
Cosa vuole dire sentirsi ‘a debito’? Ci siamo perché qualcuno ci ha donato la vita, abbiamo avuto un papà e una mamma… siamo stati amati dai tanti che ci hanno aiutato a crescere e ci hanno supportato nei momenti più difficili della vita. Chi comprende, con gioia e trepidazione, la propria vita come un debito di amore incolmabile la saprà vivere come una “corsa” a donare. Per vivere la vita e non per sopravvivere. Hannah Arendt in un suo bellissimo testo scriveva che la vita non è sopravvivenza come ci viene proposto oggi. ”Non siamo mortali, non siamo nati per essere mortali, siamo nati per essere sempre ‘natali’ (tutti i giorni se vivi la cultura del dono rinasci a vita)”. È una resurrezione quotidiana se pratichi l’esperienza del dono, nasci nuovamente per generare vita e amore! Uno stile di vita profondamente evangelico come ci invita Papa Francesco nella Fratelli tutti, che stupisce le persone che incontriamo quando lo testimoniano.
I TRATTI PUBBLICI, POLITICI, ECONOMICI, DELLA CULTURA DEL DONO
Quando parliamo di dono, di gratuità, di benevolenza, di misericordia, di comprensione, quando parliamo di prossimità, di cura, di valori, normalmente l’opinione generale pubblica ci dice: “sono valori e virtù da vivere a casa tua, nella cerchia famigliare e amicale, ma non hanno niente a che vedere con l’economia, con la politica, col sociale”.
Abbiamo istituito il 4 ottobre la Giornata del Dono, una idea di Azeglio Ciampi che volentieri portai avanti in Parlamento a nome anche dell’Istituto Italiano della Donazione. E’ una legge composta da due articoli, nel primo si legge “La Repubblica italiana riconosce il 4 ottobre di ogni anno «Giorno del dono», al fine di offrire ai cittadini l’opportunità di acquisire una maggiore consapevolezza del contributo che le scelte e le attività donative possono recare alla crescita della società italiana, ravvisando in esse una forma di impegno e di partecipazione nella quale i valori primari della libertà e della solidarietà affermati dalla Costituzione trovano un’espressione altamente degna di essere riconosciuta e promossa”.
Non vi nascondo che in commissione il dibattito fu piuttosto intenso: cosa c’entra il dono con la Repubblica? Perché una legge parlamentare? Ce n’era bisogno? Spiegavo che il dono era un valore pubblico e della Repubblica, passarono due anni per approvarla. Quando parliamo di cultura del dono proponiamo una virtù pubblica, ne ha parlato il Presidente Mattarella accennando all’ amicizia sociale inscritta nella Costituzione laddove nell’art. 2 parla di dignità della persona che si realizza non da sola ma nella comunità. In quell’articolo è contenuto il principio di amicizia, e aggiungo anche quello del dono.
Rispetto al tempo che viviamo, incattivito e arrabbiato, parlare di amicizia e di cultura del dono sembra davvero di vivere in un altro mondo, un mondo “buonista”, di “anime belle”, “angelicato”, che non si misura con la realtà. Ma noi sappiamo di avere ragione perché sono vere le cose che ci stiamo dicendo e sono confermate dalla scienza, dalle ricerche sociologiche e dalle encicliche, tra queste la “Caritas in Veritate” di Papa Benedetto XVI, che confermano che cultura del dono pervade l’attività economica e sociale di un paese ed è necessaria perché si costruisca una comunità orientata al bene comune. Lo ha ribadito anche Papa Francesco nella Enciclica “Fratelli tutti”.
Su questo fronte proviamo a dire come la cultura del dono possa divenire un faro importante per determinare le politiche sociali ed economiche.
Il dono sostanzialmente è una relazione, è fondato su una relazione. Quali sono le caratteristiche “sociali” di una relazione? Quali sono i tratti perché quella relazione sia autenticamente di dono e quindi generativa, non per sfruttare l’altro, non per possederlo, non per plagiarlo, ma per renderlo cittadino a tutto tondo e partecipe della vita sociale?
Quali sono i tratti di questa relazione?
Anzitutto non può che essere una relazione partecipata, che chiama alla libertà l’altro e al coraggio di un impegno e di una responsabilità personali.
Se vuoi davvero animare il sociale con la cultura del dono è perché ti interessa che l’altro viva da cittadino, non come assistito e dipendente a carico della comunità. Una cultura politico-sociale animata da questa dimensione esige la partecipazione dell’altro, è una cultura generativa e quindi di cambiamento autentico. “Esercitare la cultura del dono nel sociale vuole dire partecipazione, vuole dire produrre cambiamento, quello vero” (Benedetto XVI). Ed è successo e succede ancora. Molte opere animate dalla cultura del dono sono diventate nel tempo politiche sociali e pubbliche.
Qualche esempio:
• Chi ha inventato le Case famiglia? Il Comune, il Parlamento, i politici? Le case famiglia sono nate perché il volontariato sociale ha compreso che per recuperare e sostenere i bambini e le bambine abbandonati o in difficoltà erano necessarie strutture famigliari (anni 70-80).
• Così anche il tema riguardante la tossico dipendenza. Chi ha costruito percorsi di uscita dalle tossicodipendenze? Anche qui sono state realtà del terzo settore che animate dalla cultura del dono hanno promosso azioni di recupero affinché i giovani ritornassero a vivere nella comunità civile.
Un’altra parola chiave per contrassegnare una socialità fondata su una relazione veramente donativa è la fiducia. Parola in disuso in un tempo nel quale vince la sfiducia. Ma cultura del dono applicata nel sociale vive nel costruire fiducia. E fiducia deriva da fides, legare, costruire legami: mi fido di te, della tua possibilità di diventare una persona libera, costruttore di te stesso e della tua vita.
Quando viene a mancare il principio di fiducia scatta inevatibilmente il meccanismo securitario. Ma una politica del per-dono è una politica che scommette sulla fiducia, costruisce pazientemente percorsi di recupero e di inclusione, impresa complessa ma che siamo certi non abbia altre alternative.
Facciamo un altro passo in avanti: cosa vuole dire agire il per-dono in economia? La cultura del dono in economia si scontra con il paradigma, oggi vincente, dello “scambio degli equivalenti”. La cultura del dono applicata in economia (e nel sociale) propone invece un circolo più ricco che prevede il “terzo incomodo”: dare, ricevere…e ricambiare. É la reciprocità che costruisce fiducia, amicizia, fraternità. É uno dei criteri che ci possono aiutare a comprendere se una determinata scelta economica e sociale è coerente con la cultura del dono. In economia i valori che regolano lo scambio di beni e servizi sono il valore di scambio (il prezzo) e il valore d’uso, pago un oggetto in base all’uso che se fa. Ma un altro valore dimenticato che si riferisce al dono e alla reciprocità è il valore di legame che quello scambio di beni e servizi produce. Non solo quantità ma anche qualità.
Cosa c’entra questo con la realtà concreta? Pensiamo a quello che accade a livello di aziende. Le aziende che competono meglio e capaci di innovazione sono quelle nelle quali si costruiscono legami.
Vengono valorizzati i talenti, si aiutano le persone a conciliare la vita lavorativa con quella famigliare, si rendono più partecipi i lavoratori, si fa formazione. Si esce cioè dalla mera logica contrattualistica, dello scambio degli equivalenti, per entrare nella dimensione della gratuità e della reciprocità. Questa a mio parere è cultura del dono tradotta in economia e nella gestione aziendale. Al centro vi sono le persone, il valore e il capitale di una impresa. E la realtà ancora una volta ci viene incontro e ci conferma la bontà di quello in cui crediamo. Nelle ultime ricerche viene messo in evidenza che per i giovani italiani la questione salariale non è la prima condizioni per la scelta di un impiego, scelgono in base anche ad altri indicatori: se le persone sono valorizzate, se vi sono percorsi di carriera, se il clima aziendale è buono, se c’è formazione e flessibilità negli orari…
Le aziende (generalmente sono quelle medio grandi) che stanno ripensando i propri modelli aziendali nella direzione che qui vi ho solo accennato fidelizzano i propri lavoratori (difficilmente si licenziano), sono più produttive e competitive.
Ecco perché parlare del dono oggi vuole dire offrire una prospettiva vera di trasformazione del nostro sistema economico. Se prima il profilo antropologico vincente era quello dell’homo oeconomicus (più siamo egoisti, più il mercato funziona), oggi gli economisti dell’economia civile, i premi Nobel, ci dicono che quel modello non funziona e impedisce la costruzione di un futuro che vogliamo più solidale e sostenibile. La dimensione del dono, della gratuità, dell’attenzione alle persone sono oggi criteri e valori determinanti. Lo sono stati nel costruire anche imprese diverse. Negli anni questa cultura ha inventato imprese sociali, imprese cooperative, imprese benefit (imprese private che hanno posto nello Statuto finalità anche di utilità sociale).
E concludo con una battuta sulla politica. Riprendo l’intervento del Presidente Sergio Mattarella lo scorso anno partecipando al Meeting di Comunione e liberazione sul tema “l’amicizia sociale è nella Costituzione”. Un discorso appassionato di un grande politico e di un buon credente. La Costituzione nasce dall’amicizia e quindi la politica dovrebbe fondarsi sull’amicizia. Amicizia vuol dire evitare di alzare barriere, di cercare con determinazione il bene comune, praticare la pace ed evitare lo scontro ideologico inutile, le ingannevoli lotte di classe o le rivendicazioni di carattere etnico. Siamo chiamati ad essere coerenti con i valori costituzionali.
Non solo, l’amicizia sociale vive nella diversità che è un tratto caratteristico e fondativo della nostra dimensione comunitaria. E la cultura del dono non può non accogliere socialmente la sfida della diversità. Amicizia è recuperare la dimensione della reciprocità nei confronti di tutto l’ecosistema. Non siamo padroni del pianeta, ma ospiti, per di più di passaggio.
Abbiamo bisogno non di pacifisti, ma di pacificatori pronti continuamente a prevenire i conflitti e curare la pace (Papa Francesco), di maestri esperti in umanità. Sappiamo tutti quando bisogna fermarsi, un attimo prima che scoppi un conflitto irreparabile.
Dare, ricevere, ricambiare: nelle politiche sociali come politico il criterio che ho sempre cercato di mettere in pratica nelle decisioni da prendere è stato se quel provvedimento stava attivando processi di promozione della persona, di fratellanza, di amicizia. Oppure, al contrario, se produceva meccanismi di dipendenza, di assistenzialismo e di esclusione.
La Solidarietà, ci ricorda Papa Giovanni Paolo II, non è solo un atto caritatevole ma è la ferma determinazione a costruire bene comune. Se la cultura del dono si farà più politica potremo sperare in un mondo un po’ più felice, un po’ più sostenibile.
* già Senatore della Repubblica,
Presidente Associazione Anla
Testo tratto dalla viva vice, non rivisto dall’autore
Il Cantico
ISSN 1974-2339
Pubblicazione riservata