Dal Capitolo delle Fonti, Assisi 5-6 novembre 2010

L’incipit: l’incontro con Cristo, incontro con la ricchezza di Dio

La fraternità in San Bonaventura | ilcantico.fratejacopa.net

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S. Bonaventura, quando si accinge a scrivere la vita e la testimonianza di Francesco, lo fa come un debito di restituzione e per soddisfare la richiesta dei fratelli. Bonaventura dice che in realtà ciò che lo ha convinto è il fatto che quando lui era bambino era un po’ matto e testimonia: «Francesco passando mi ha guarito » e aggiunge: «io sono debitore a lui, della mia vita fisica e della vita della mia anima e quindi intendo fare questo sopratutto come una restituzione ».
La fonte di Bonaventura è una “fonte seconda” rispetto a quella di S. Francesco. Le fonti seconde hanno la caratteristica di essere per certi versi seconde, ma per certi altri versi, siccome si avvalgono di ciò che è già stato apportato, hanno a volte un gettito che rappresenta come una efflorescenza straordinaria e vigorosa come quando le radici affondano tanto nel terreno. Gli alberi che hanno radici molto profonde sono alberi molto forti.
Nella Leggenda Maior S. Bonaventura parte nella descrizione di quello che è accaduto a Francesco. Da qui vorrei riprendere come punto di partenza, il modo in cui Bonaventura ricostruisce l’inizio, “l’incipit”, il punto sorgivo da cui parte tutta l’avventura di Francesco.
C’è all’inizio una manifestazione chiara ed esplicita, un dono del Dio che, come scriveva S. Paolo, è ricco (Ef 2, 4). Il punto di partenza di tutta l’esaltazione della povertà, che coprirà come un mantello tutto il seguito della vicenda della descrizione della vita di Francesco, ha come punto di inizio (questa è la radice e l’altro deve essere considerato il germoglio, guai a scambiarli) questa radice: il Dio ricco che si rende presente.
Non possiamo mai dimenticare o lasciare da parte questo, altrimenti si perde completamente il senso e il significato di tutto ciò che avviene dopo. L’incontro con questo Dio ricco che si fa presente graziosamente a Francesco, che rende tutte le ricchezze come qualcosa di povero, tutte le ricchezze diventano povertà. Questo incontro di Dio con Francesco (non di Francesco con Dio) è la radice della santità. Questi santi con la loro vita testimoniano questa realtà che rimane sempre sotterranea: è il mistero del modo in cui il Dio ricco si è reso loro presente. Di Francesco esistono una quantità di biografie, perché in ogni singolo particolare della sua vita si rendeva presente questo mistero, che però, nel rendersi presente. non cessava di essere mistero. Per questo Francesco, avendo accolto questo mistero e avendo accolto questo incontro di Dio con lui, era una sorgente che zampillava in continuazione. Qualsiasi cosa facesse e dicesse, fino all’ ultimo respiro, la sua vita parlava, aveva un’eloquenza.
La fraternità in S. Bonaventura” è il titolo del tema che mi è stato affidato. Ora, se voi cercate la parola fraternità in S. Bonaventura quasi non esiste. Bonaventura, il suo maestro Alessandro di Hales e altri, le persone che hanno vissuto per prime la vita francescana, la fraternità la vivevano e non avevano alcuna necessità di fare dei ragionamenti sulla fraternità. Erano tutti intenti ed occupati a gustare e a vivere la bellezza della fraternità in atto.
Però bisogna avere l’occhio vigile per andare a vedere da dove proviene il vigore di una esperienza di vita che introduce nel mistero. Questi uomini erano tutti intenti alla realtà del cielo, erano completamente presi, rapiti da questo. Ed è perché erano intenti alla realtà del cielo che potevano vivere la dimensione della fraternità.
Bonaventura, figlio di Francesco, ha svolto una mole di meditazione su ogni cosa e il termine ‘fraternitas’ non c’è neanche? Questo non è “un di meno” dal punto di vista del nostro ritornare a vedere come Bonaventura viveva la fraternità che aveva appreso dalla santità manifestata in Francesco d’Assisi.
Il punto di partenza che Bonaventura prende nella Leggenda Maior è lo stesso che troviamo anche in altri testi sulla vita di Francesco. Innanzitutto c’è questo incontro con Cristo. Questo incontro con Cristo è l’incontro con la ricchezza di Dio. Il Figlio è il frutto della generazione del Padre e quindi nel Figlio c’è tutta la ricchezza del Padre. Tutta l’espressività, tutto quello che il Padre poteva esprimere, lo ha espresso generando il suo Figliolo, per cui incontrando il Figliolo, nell’incontro che Cristo ha consentito graziosamente di sé a Francesco, Francesco ha incontrato tutta la ricchezza di Dio. Tutta, non una ricchezza diminuita, ma l’integrità della ricchezza di Dio. È questa ricchezza che introduce nella vera povertà cristiana.

L’incontro col lebbroso e il dono dei fratelli: le due dimensioni della fraternità

L'unità fraterna| ilcantico.fratejacopa.net

L’unità fraterna| ilcantico.fratejacopa.net

Questo incontro produce come primo effetto in Francesco la caduta di una barriera che era un ostacolo che impediva a Francesco l’abbraccio dell’umanità intera: l’abbraccio dell’umanità intera di lui (sua propria) e impediva l’abbraccio dell’umanità intera intesa come fratelli (gli altri), di tutti gli uomini. Francesco probabilmente era cordiale, era amico di tutti, ma quando si trovava davanti al lebbroso, si trovava davanti a un ostacolo, a un limite. Lì lui si fermava.
Questo cosa significa dal punto di vista essenziale? Significa che per lui l’umanità era divisa in due, c’erano quelli che poteva accogliere, e con cui poteva parlare e stare, e una parte seppur minima che lui non era in grado di accogliere, di incontrare, con la quale non era in grado di stare in una relazione. La relazione tra persone che condividono uno stesso ideale si chiama fraternità. In seguito all’esperienza del dono di grazia che è la ricchezza del Padre e che il Figlio gli fa, Francesco vede cadere questa barriera. La caduta di questa barriera introduce Francesco in una umanità più larga. Francesco adesso sta con se stesso in un modo diverso e questa dilatazione del cuore, che la grazia di Dio ha operato in lui, si esprime nel fatto che lui adesso va incontro al lebbroso e lo bacia. Questo è il primo indizio di fraternità che Bonaventura riporta come espressione di una grazia di ricchezza che il Padre fa a Francesco nel dono dell’incontro con il Figlio. Questa caduta dell’impedimento nella relazione con l’altro avviene come un’onda di rendimento di grazie.
È ancora la logica del rendere, della restituzione. Francesco, andando incontro al lebbroso, rende grazie a Dio per quello che Dio ha operato in lui. Questo abbattimento della barriera che impedisce la vera umanità, che impedisce la relazione vera, ha un significato di lode, di rendimento di grazie (significato eucaristico), è un sovrappiù, è una sovrabbondanza. Questa onda, questa forza di spostamento del confine della limitatezza nella relazione, che impedisce la relazione… Nell’incontrare l’altro, se non è forte questa onda in noi, si arriva a qualcosa, ma non si arriva a portare il fondo di noi stessi, né noi arriviamo ad abbracciare l’altro. Francesco viene completamente sbaragliato da questo moto interiore, da questa spinta («charitas Christi urget nos…»), l’amore di Dio spinge e spingendo abbatte tutto e lui arriva ad abbattere tutto. L’ultima barriera si chiamava il lebbroso. Non è una questione morale l’incontro con il lebbroso, è una questione di fondo, è una questione di novità e dell’inizio di una novità di vita in Cristo, è il rendersi presente in un punto della verità della ricchezza di Dio che è sovrabbondante.
Ecco il fondamento di questa fraternità, di questa fratellanza ormai illimitata che abbraccia tendenzialmente tutto e tutti, “tutto l’uomo e tendenzialmente tutti gli uomini” dice Giovanni Paolo II. È formidabile questa esperienza: Dio apre a tutti gli uomini. Pensate al pescatore di Galilea. Francesco scrive a tutti i fedeli, Francesco «piccolino» scrive a tutto il mondo, ma in lui non c’è neanche un pizzico di esaltazione, di esagerazione, perché la misura dell’apertura (quando la grazia di Dio agisce e l’uomo non oppone resistenza) non è data dalla piccolezza dell’uomo, non è data dalla misura del recipiente. Quando l’uomo accoglie in sé la grazia di Dio, la misura non è più il suo recipiente, la piccolezza della sua umanità; per questo Francesco poteva avere nozione di questa piccolezza perché come Paolo diceva: «Quando io sono debole è allora che sono forte». Nel momento in cui c’è la presenza della grandezza e della illimitatezza di Dio, è Dio che diventa la misura, il dono di Dio diventa la misura, non il contenitore, perché Dio cambia il contenitore. Il contenitore siamo noi e lo fa Lui, è Lui che dà l’ampiezza, la capienza. La potenza di contenimento la determina Lui. Nel momento in cui l’opera di Dio tu la lasci entrare nella tua vita, tu non sai più che cosa sei perché Dio può fare di te quello che vuole Lui e non sei più tu la misura di te stesso; la tua piccolezza, i tuoi difetti, la tue ristrettezze, le tue miserie, le tue meschinità, non sono più queste la misura di te stesso. Una persona più mette l’accento sulla propria piccolezza, più dimostra di non avere capito che quello che è entrato nella sua vita, è quello che è determinante nella propria vita. Non si è più determinati dal proprio peccato, non si è più determinati dal proprio passato. Essere determinati dal proprio passato significa essere morti, da questo punto di vista, perché la vita è futuro, l’essere è futuro.
Questa è la prima significazione dell’essere fratello, la seconda è quella che racconta Francesco di ciò che gli è accaduto parlando del dono dei fratelli. Dio gli ha donato dei fratelli. Queste due cose sono da tenere distinte. La prima esperienza di fraternità, cioè dello sbaragliamento di tutte le barriere nella relazione con l’altro, è l’incontro con il lebbroso. Le sovrastrutture vengono immediatamente tralasciate, si andava al punto. Questo faceva sì che nell’incontro con S. Francesco si poteva fare un’esperienza di una intensità di relazione che con il padre, la madre o la moglie non si aveva secondo quell’intensità lì. Le due dimensioni della caduta della barriera e il fatto che Dio gli dà dei fratelli vanno tenute distinte. Il significato di questa donazione e dell’essere fratelli nello Spirito, di questa fraternità spirituale, questo essere donato, questo carattere di dono della fraternità, questo aspetto rappresenta qualcosa di diverso.
Nella prima esperienza è Francesco che va verso il fratello, nella seconda sono gli altri che vanno da lui. Il movimento è contrario. Adesso sono gli altri che vanno da lui e questi altri lui li intende come degli inviati del Signore, come dono che il Signore fa a lui.
Queste due dimensioni vanno tenute precisamente presenti e S. Bonaventura le ha tenute precisamente presenti e vanno distinte proprio perché questo che si manifesta nella biografia del Santo è qualcosa che manifesta una verità, per cui noi non dobbiamo mai confondere una cosa con l’altra. Non dobbiamo mai andare a cercare l’altro come l’altro che viene verso di noi, quando siamo noi che dobbiamo andare verso di lui. Ci sono nelle fraternità i consumatori di fraternità, cioè coloro che nella fraternità cercano la fraternità come un prodotto tipico. È una posizione un po’ dell’infante, del bambino. E non è tutta la verità. Se prendiamo la vicenda paradigmatica di Francesco, non è che succede che Dio gli dà dei fratelli e poi Francesco va a visitare i lebbrosi.

Riguardo al mistero e all’esperienza della fraternità

Riguardo al mistero e all'esperienza della fraternità | ilcantico.fratejacopa.net

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Possiamo adesso andare a vedere alcuni insegnamenti che Bonaventura ci dà riguardo al mistero e all’esperienza della fraternità. Riprendo due passaggi in cui Bonaventura commenta due passi del Vangelo. Bonaventura ha scritto un commentario al Vangelo di Luca e al Vangelo di Giovanni. Nel Commentario sul Vangelo di Luca e Giovanni, S. Bonaventura in due passaggi commenta due passi del Vangelo che si trovano anche nella Regola non bollata e sono riportati per esteso.
Il primo passo è di Luca: qui si parla dell’amore del nemico (Cap. 6,27 ss.). S. Bonaventura distingue qui tra la caritas e la fraternitas, quindi tra la carità o l’amore, e la fraternità. Bonaventura cita la seconda Lettera di Pietro (Cap.1): «Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità» (2 Pt 1, 5-7). Al termine di questa catena, al penultimo posto si trova l’amore fraterno perché l’ultimo posto è dedicato alla carità. È la carità cha va a compiere tutto il movimento che passa però attraverso l’amore fraterno, quello che Bonaventura chiama l’«amor fraternitatis» (l’amore della fraternità).
Questa carità, questo amore fraterno, non solo sono distinti, ma sono anche uniti perché in realtà non esiste una carità, un amore che non sia anche (come scrive Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi Cap. 9) una “caritas fraternitatis”, un amore di fraternità. Citando Ugo da S. Vittore, Bonaventura aggiunge, proprio per indicare questa congruenza della carità e dell’amore fraterno, “non c’è un indizio più vero e più certo della carità vera, dell’amore vero, dell’amore autentico, rispetto all’affetto di compassione fraterna”, cioè l’affetto del compatire fraterno è l’indizio sicuro del fatto che si è nell’amore, si è nella carità.
È interessante, inoltre, il fatto che questo amore fraterno, che Bonaventura chiama in diversi modi, che chiama anche «dedictio fraterna» (dedizione fraterna), questa amorevolezza fraterna, Bonaventura la descrive come qualcosa che si può apprendere nell’obbedienza e nella disciplina, cosa che noi non andremmo mai a pensare. Laddove obbedienza (ob-audire) indica il fatto che uno sta a sentire. La schiera dei credenti si distingue in un modo clamoroso, eclatante, per il fatto che questi stanno a sentire; ascoltano perché c’è Qualcuno da ascoltare, c’è qualcosa da ascoltare, c’è Qualcuno che ci parla e ci deve dire qualcosa. Quindi la “dedictio fraterna” è legata a questo ascolto, a questa obbedienza ed è legata alla disciplina. “Disciplina” deriva da “discere”, da imparare. Sono coloro che imparano e che distinguono tra una cosa ed un’altra.
Questo legame tra l’amore fraterno, l’obbedienza e la disciplina, Bonaventura lo ribadisce sia nel commento a Luca, sia nel commento a Giovanni. Si potrebbe fare un paragone con il grande autore cristiano C.S. Lewis dove nel romanzo “Quell’orribile forza” ad un certo punto c’è una figura che simboleggia Cristo e c’è una sposa che vive nel matrimonio e che va a parlare con questo personaggio e dice che nella sua vita c’è un difetto di amore… e lui, rispondendo, rovescia la frittata: «Lei Signora non trascura l’obbedienza per mancanza di amore, ma ha perduto l’amore perché non ha mai cercato di obbedire».
Sempre a questo riguardo Bonaventura fa notare come Gesù parlando ai suoi dell’amore, lo prescrive, dà un comando. «Vi do un comandamento nuovo». È prescritto l’amore. Gesù prescrive l’amore ai suoi. Bonaventura cita la prima Lettera di Pietro (1 Pt 1, 22) dove dice: «Dopo aver purificato la vostre anime con l’obbedienza alla verità per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente di vero cuore gli uni gli altri. Rigenerati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile ». Anche qui Pietro mette in stretta relazione l’obbedienza alla verità con l’amore intenso dei fratelli gli uni nei confronti degli altri. Paolo addirittura parlerà nella seconda lettera ai Tessalonicesi di «amore alla verità», ma anche di «obbedienza alla verità». Da qui esce l’amore intenso.
Su questo passo di Luca (Cap. 6, 27) che si ritrova nel Cap. 22 della Regola non bollata, Bonaventura scrive così: «A voi che ascoltate dico (è Gesù che parla) amate i vostri nemici». Il precetto dell’amore per i nemici, questo mandato, scrive Bonaventura, è per coloro che ascoltano, per coloro che credono, che obbediscono, per coloro nei quali abita Dio, poiché come si afferma nella prima Lettera di Giovanni 4,16 «Chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui». Questi – prosegue Bonaventura – ascoltano non solo con l’orecchio del corpo, ma anche con quello del cuore, secondo Giovanni 8,47: «Chi è da Dio ascolta le parole di Dio». «Ascoltate, voi che mi ascoltate, e mangerete cose buone, cibi succulenti. Ascoltate e vivrete». Commenta ancora Bonaventura: “Vivrete grazie al precetto dell’amore perché come dice Giovanni “chi non ama rimane nella morte”; e ancora prima Giovanni dice “Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita per il fatto che amiamo i fratelli”. E su ciò prosegue Bonaventura: l’apostolo dice «Camminate nell’amore cosi come anche Cristo ci ha amati ed ha consegnato se stesso per noi» (Ef 5,2). Poiché come dice Paolo «quando eravamo ancora nemici siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo» (Rm 5,10), per cui anche noi dobbiamo amare i nemici. È Cristo che ci ha amati quando eravamo ancora nemici. Noi da nemici di Dio siamo stati amati per cui voi dovete amare i vostri nemici.
Qui l’«amore del nemico» ha lo stesso significato di quello che aveva la barriera del lebbroso per Francesco. Cioè l’amore verso tutti, tendenzialmente verso coloro che sono nemici. Il significato è: non dovete fermarvi mai. L’amore che Dio ha portato è un amore che non si ferma mai, non si arresta davanti a nessuna barriera, neanche quando l’altro ti si oppone e ti è nemico, perché Dio ha amato così te. Sei stato amato da Dio perché eri nemico. Questa fondamentazione toglie tutto il moralismo: come si fa ad amare il nemico? Non è un precetto etico, non è una riduzione morale.

L’unità fraterna
farternita-in-s-bonaventura4C’è poi il commento molto bello sulla unità fraterna che Bonaventura ci regala alla pagina del Vangelo di Giovanni (Collatio 61 su Giovanni 17). Qui Bonaventura dice: “È degno di nota il fatto che il Signore pregando per i suoi discepoli richieda per loro innanzitutto l’unità e ingiunga ad essi prima di tutte le altre cose, la carità, ciò non è così se non a motivo dell’utilità multiforme, pluriforme dell’unità fraterna”. Bonaventura cita poi nove vantaggi dell’unità e della carità fraterna. L’unità fraterna – scrive Bonaventura – è:

  • Rimedio per coloro che cadono (c’è sempre nella comunità quello che cade)
  • Aiuto per quelli che si rialzano (la fraternità è aiuto)
  • Presidio per coloro che lottano (la battaglia è quotidiana per ognuno di noi)
  • Sussidio per quelli che soffrono
  • Guida a coloro che si accingono al cammino (orientamento: dove vado? Dove sto andando?)
  • Suffragio a coloro che chiedono (in ogni momento della vita noi abbiamo dentro delle domande urgenti, pressanti; chi ascolta queste domande?)
  • Consolazione, ristoro per coloro che attendono
  • Protezione per coloro che perseverano (chi è già perseverante ha bisogno di una custodia)
  • Gioia per coloro che pervengono alla meta.

La carità fraterna crea questa unità perché la carità fraterna lega insieme i fratelli in un unico giogo. Li aggioga tutti all’unico giogo. Questa unità della carità, aggiunge S. Bonaventura, deve essere triplice. L’uomo deve essere unito a Dio e questo avviene in conformazione della sua volontà. Deve essere unito in se stesso, in virtù della integrità dello spirito. Deve essere unito con il prossimo, in virtù della concordia della carità. Anche questo passo di Giovanni 17 è riportato al capo 22 della Regola Bollata. È interessante riprendere la meditazione: è come se S. Bonaventura ci consegnasse il modo in cui lui stesso attinge alla fonte.

La radice mistica della fraternità
Nel breve spazio che ci rimane posso riportare ancora solo delle osservazioni di carattere generale. La nostalgia che noi abbiamo della fraternità: se noi siamo sani, noi ci accorgiamo dal fondo di noi stessi che abbiamo una nostalgia profonda della fraternità, non sappiamo neanche noi quanto profonda. Dobbiamo sapere che cosa è questa nostalgia. Perché siamo impastati così. E la spiegazione è semplice: questa nostalgia di verità, di profondità, di radicalità, di fraternità, di unità fraterna è nostalgia del cielo. Il Signore ci gioca e ci plasma nell’arco della nostra vita in modi diversi. Uno dei modi che ha il Signore per plasmarci, ad esempio, è lo stacco della sposa o dello sposo dopo quaranta-cinquanta anni di vita insieme, e casca il mondo, ma non casca il mondo, se uno capisce il senso. È un richiamo alla unione definitiva, alla pienezza della comunione. Quella era una introduzione alla pienezza della comunione. Oppure lo stacco tra la madre e il figlio, quando a una madre viene meno un figlio. In questi punti, in cui la solidità dell’unione tra di noi viene spezzata e noi veniamo contraddetti in questo istinto e desiderio, che è il più grande che noi abbiamo, di comunione fraterna, noi siamo buttati verso il cielo, perché la comunione, la fraternità definitiva è la Comunione dei Santi.
Allora qui dobbiamo stare attenti. A che cosa? Come questi nostri padri, come S. Francesco, S. Bonaventura, come tutti questi santi che hanno vissuto accogliendo la grazia di Dio, dobbiamo stare attenti a mantenere sempre la radice mistica, a mantenerci sempre con lo sguardo verso il cielo. Quella è la radice della fraternità. Questi hanno svolto una intensissima, una estesissima e potentissima fraternità, perché estendevano e approfondivano straordinariamente questa radice nel Cielo. Senza questa radice la fraternità si corrompe, si intristisce, si può addirittura avvelenare, per un eccesso di attesa o per un difetto di attesa. Se noi applichiamo il desiderio del cielo, che è nascosto dentro al desiderio di fraternità, ammazziamo l’altro perché non può corrispondere al desiderio di fraternità che noi abbiamo. L’eccesso di aspettativa e l’assenza di aspettativa sono due cose che uccidono la fraternità. La fraternità è il luogo in cui si incontra Dio all’inizio. Dopo che è avvenuto l’incontro, è la nostra relazione costante con il Signore che diventa generatrice di fraternità.
La fraternità prima era legata alla attesa nostra comune. Ma dopo che è avvenuto l’incontro con Cristo, è la nostra relazione con il Signore che diventa generatrice di fraternità. Per cui dall’essere il “consumatore” della fraternità, si passa alla posizione adulta, cioè essendo entrato nella relazione con Dio, la persona è capace di generare la fraternità.
Vorrei infine togliere una punta di doverismo e di moralismo, il “dover” essere fratelli. Cristo si è mostrato come fratello. È possibile una riduzione morale della persona di Cristo, come se Cristo fosse solo un esempio.
Cristo ha reso Francesco e Bonaventura, partecipi della Sua realtà, del Suo essere, dopo di che si sono trovati in questa dilatazione del cuore: è una grazia di Dio in atto, non è semplicemente prendere Lui come fratello, che sarebbe una riduzione di Cristo ad essere modello. “Tu devi essere fratello”: è una posizione estenuante. Se voi prendete Lèvinas, in lui si trova questa idea della fratellanza, dello sguardo dell’altro, del volto, ripresa in continuazione, ma ci si chiede: chi è capace di fare una cosa così?
Quando il Signore dà il precetto, Bonaventura dice: lui ha già fatto questo. Dopo che Lui ha preso parte alla carne e al sangue, essendo diventato fratello, ci ha dato parte, noi adesso andiamo a celebrare l’Eucarestia, e abbiamo parte al Suo Corpo e al Suo Sangue. Questo toglie la venatura moralistica, doveristica e volontaristica, che ha fatto sì che l’ideologia della fraternità nel novecento abbia creato più vittime dentro la storia dell’umanità rispetto ad altre ideologie. E questa logica si può riprodurre anche all’interno della Chiesa, all’interno delle fraternità stessa ma anche nei rapporti tra di noi.

Don Massimo Serretti - Docente di Teologia Dogmatica, alla Pontificia Università del Laterano | ilcantico.fratejacopa.net

 

La fraternità è la cosa più grande che esista vissuta nella verità.
Credo anch’io, come Kajetan Esser, che questa ripresa di fraternità, questa ripresa della relazione con l’altro come colui che è degno di essere servito in tutto e per tutto, perché ha una dignità trascendente, questa ripresa della dignità della persona costituisca il punto di forza del francescanesimo. (Il pensiero francescano è quello che ha sviluppato con più vigore il mistero della persona, perchè l’accentuazione del momento della fraternità, cioè dell’essere insieme degli uomini, va insieme sempre con questa affermazione della unicità e della preziosità irriducibile di ogni singola persona). Se viviamo bene questo, siamo nel cuore del mistero cristiano e anche nel cuore del mistero della storia, perché oggi, come sempre, quello che viene messo in pericolo dalla cultura dominante, dai moti che percorrono la nostra società, è la integrità della persona e la verità dell’essere insieme delle persone. Seguendo questo, seguendo Francesco, siamo nel cuore della storia.

 

 

Don Massimo Serretti – Docente di Teologia Dogmatica, alla Pontificia Università del Laterano | ilcantico.fratejacopa.net 

Relazione di Don Massimo Serretti
Docente di Teologia Dogmatica, alla Pontificia Università del Laterano

Trascrizione dalla viva voce