“Signora santa povertà, il Signore ti salvi con tua sorella, la santa umiltà.
La santa umiltà confonde la superbia e tutti gli uomini che sono nel mondo e similmente tutte le cose che sono nel mondo” (FF 256-258)

Lucia Baldo

L’umiltà fondamento di tutte le virtù
Perché la spiritualità francescana assegna tanta importanza all’umiltà da far dire a S. Bonaventura che senza di essa “non si dà virtù, anzi ogni virtù esplode in superbia” (Della vita perfetta II,3, in “I mistici, Secolo XIII”, Editrici Francescane, p. 430)?
Dice S. Bonaventura: “Da architetto avveduto, egli [S. Francesco] volle edificare se stesso sul fondamento dell’umiltà, come aveva imparato da Cristo” (FF 1103).
Se manca l’umiltà, è tutta la costruzione delle virtù a vacillare e cadere: la povertà diventa orgoglio, come tra quegli eretici che al tempo di S. Francesco si distinguevano per il loro pertinace attaccamento a forme di povertà esteriori che li portavano a disprezzare tutti coloro che non erano come loro. Inoltre senza l’umiltà la sapienza diventa vanagloria per il possesso di un sapere di cui ci si compiace come fosse una propria conquista. La semplicità diventa semplicioneria, l’obbedienza soggezione passiva di chi fa volentieri a meno di interrogare la propria coscienza. La carità decade in una generica e autoesaltante forma di beneficenza.

L’umiltà si contrappone alla superbia
S. Bonaventura, rifacendosi alla preghiera “Saluto alle virtù” di S. Francesco, contrappone all’umiltà, fondamento di ogni virtù, il vizio della superbia che è principio di ogni peccato, anche del peccato di falsa umiltà, come è quello degli ipocriti (cf S. Bonaventura, II, 1, p. 429).
S. Bonaventura cita come esempio di superbia Lucifero che fu umiliato e posto nell’“estremo avvilimento”, divenendo “il più infelice dei demoni” (S. Bonaventura, II, 2, p. 430), dopo essere stato cacciato dalla gloria celeste. E, prosegue S. Bonaventura, “quanti ce ne sono oggi di questi Luciferi!” (S. Bonaventura, II, 3, p. 430).
Per divenire veri umili, il santo pensatore francescano indica un triplice sentiero da percorrere. Il primo consiste nel considerare Dio autore di tutti i beni e non appropriarsi del bene che solo il Signore fa. “Tale considerazione distrugge la superbia di quelli che dicono: “Le nostre brave mani, non già il Signore, fecero tutte queste cose” (S. Bonaventura, II, 2, p. 430).
Il cuore di S. Francesco è il cuore del povero che si spoglia di se stesso, della propria volontà per assumere in sé la volontà di Dio, esaltandosi non per i propri meriti, ma “per i beni che il Signore dice e opera in lui” (cf FF 147). L’umiltà è il non trattenere nulla per sé, farsi nulla perché l’altro sia e perché viva gli stessi sentimenti nei confronti di chi lo ha amato per primo.
Il secondo sentiero è quello della “ricordanza di Cristo” del “Sommo” che “si è fatto infimo”, dell’“Immenso” che si è fatto “piccolo e uomo” (S. Bonaventura, II, 4, p. 431).
Dice S. Francesco: “Ecco, ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote” (FF 144).
Il terzo sentiero è la considerazione di se stessi. Infatti ognuno di noi è destinato a perire: se oggi siamo, domani non saremo più; se oggi siamo sani, domani forse ci ammaleremo; se oggi siamo sapienti, domani forse perderemo il cervello; se oggi siamo ricchi di ogni virtù, domani potremo cadere in disgrazia. “Chi è dunque quel miserabile cristiano che osa insuperbire, quando da ogni parte si trova circondato da tante miserie e calamità?” (cf S. Bonaventura, II, 5, p. 432).
Per percorrere fruttuosamente questi tre sentieri ed accedere alla santa e perfetta umiltà, S. Bonaventura ritiene sia indispensabile avvalersi dell’aiuto della pazienza, come ricorda anche S. Agostino: “ È facile mettersi un velo agli occhi, aver vestiti vili e spregiati, camminare a capo chino; ma il vero umile lo dimostra la pazienza, secondo quel che è scritto nell’Ecclesiastico: “Nell’umiliazione tua abbi pazienza” (S. Bonaventura, II, 7, p. 433).

Soggetto a tutte le creature
Per vivere una vita umile occorre innanzitutto riconoscere i propri difetti e peccati e, se si trova in sé anche una minima mancanza, subito la si pianga nell’afflizione del proprio cuore (cf S. Bonaventura, I, 1, p. 429). Dice il Celano: “Dimentico dei meriti, aveva davanti agli occhi solo i difetti, mentre rifletteva che erano assai più le virtù che gli mancavano di quelle che aveva. Unica sua grande ambizione: diventare migliore in modo da aggiungere nuove virtù, non essendo soddisfatto di quelle già acquisite” (FF 724).
Potremmo dire che l’umiltà è la dimensione interiore della povertà per cui l’uomo, spogliato di se stesso e fattosi imitatore di Cristo povero ed umile, “sia con l’esempio sia con la parola” (FF 1103), si apre al servizio dei fratelli senza disprezzare nessuno, nemmeno i briganti e si sottomette a tutti gli uomini che sono nel mondo: “Non soltanto con i maggiori di lui si mostrava umile il servo di Dio, ma anche con i pari e gli inferiori, più disposto ad essere ammonito e corretto che ad ammonire gli altri” (FF 726). Il Celano racconta che un giorno a un contadino che lo esortava a comportarsi in conformità alla sua fama di uomo buono, il Santo si prostrò ai suoi piedi e glieli baciò umilmente, ringraziandolo, perché si era degnato di ammonirlo.
Nella XXIII Ammonizione è chiamato “beato” quel “servo” che “si mantiene sempre sotto la verga della correzione”. E questo deve valere sia per il suddito sia per il superiore: “Beato il servo che viene trovato così umile tra i suoi sudditi, come quando fosse tra i suoi padroni” (FF 173).
E non si sottometteva “soltanto ai soli uomini, ma anche a tutte le bestie e alle fiere, così che possano fare di lui quello che vogliono, per quanto sarà loro concesso dall’alto dal Signore” (FF 258).
Piuttosto che a una forma di autolesionismo, quale potrebbe apparire al primo sguardo, questa affermazione così radicale ci fa pensare a un santo che è proteso alla valorizzazione di ogni creatura, secondo un modello di fraternità cosmica e universale. “Tutte le creature, da parte loro, si sforzano di contraccambiare l’amore del santo – dice il Celano – e di ripagarlo con la loro gratitudine. Sorridono quando le accarezza, danno segni di consenso quando le interroga, obbediscono quando comanda” (FF 751).
Chiamava con il nome di fratello tutti gli animali e non li temeva, perché sapeva che il Signore glieli inviava come un dono d’amore.
Il messaggio di vita che S. Francesco trasmette travalicando ogni epoca, è quello della perfetta letizia che non è un sentimento tra i tanti, come potrebbe essere la gioia per una soddisfazione raggiunta o la paura per un pericolo determinato, ma un abbandono totale di sé nell’amore.
La letizia è una condizione esistenziale profonda di beatitudine donata da Dio al Santo di Assisi come segno tangibile della comunione con Cristo, da lui sempre cercata finché era in vita e raggiunta in pienezza dopo l’abbraccio di sorella morte, ultimo ostacolo che lo separava ancora dal suo Signore.
“Alla morte dell’uomo – dice il saggio – sono svelate tutte le sue opere. È appunto ciò che vediamo gloriosamente compiuto nel Santo. Percorrendo con animo pronto la via dei comandamenti di Dio, giunse attraverso i gradi di tutte le virtù e … raggiunse il limite ultimo di ogni perfezione” (FF 804).

Il Cantico
ISSN 1974-2339
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