Noi, analfabeti della natura | ilcantico.fratejacopa.net

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S. Bonaventura ha dato voce all’amore creaturale di S. Francesco, padre serafico, che ha aperto all’illustre discepolo le vie di un’ascesi o scala di ritorno al Creatore da cui proveniamo. Il medio di questo ordinato procedere e ritornare al Padre, è il Verbo incarnato, l’“albero della vita”, che ridà alla creazione quel significato che, secondo S. Bonaventura, abbiamo smarrito.

Dopo aver rotto il rapporto tra Creatore e creatura in seguito al peccato originale, siamo divenuti come analfabeti che hanno in mano un libro senza riuscire a decifrarne i caratteri, come fossero stranieri. Questo smarrimento dell’uomo che non sa più entrare in comunicazione con la natura, per S. Bonaventura è dovuto al modo sbagliato di guardare ad essa, proprio di quegli scienziati e filosofi che vogliono scrutare autonomamente le creature con curiosità allo scopo di scoprire i suoi segreti. Quello che manca a un approccio curioso con la natura, è la devozione, poiché il curioso è un presuntuoso che “non magnifica Dio, ma loda se stesso” (Coll. I,8). In questo i curiosi sono come le vespe che costruiscono favi senza produrre miele.

Il linguaggio di S. Bonaventura è intriso di riferimenti al mondo della natura: come il sole dona la vita, così il sole di sapienza, irradiando e passando nell’emisfero della nostra mente, ordina e governa la nostra vita (cfr Coll. VI,19). Inoltre le quattro virtù cardinali sono dal santo dottore serafico, configurate ai quattro elementi naturali: all’aridità della terra la temperanza, all’acqua la prudenza, alla duttilità dell’aria la giustizia, al vigore del fuoco la fortezza (cfr Coll. VI,21). La Sacra Scrittura è vista come la terra che produce “germogli”, poiché produce nell’anima un pullulare di vita. I patriarchi sono le “radici” della nostra fede, i precetti e i sacrifici sono “foglie verdeggianti”, le visioni profetiche sono come lo “sbocciare dei fiori”, i carismi spirituali sono “frutti ristoratori” e Cristo è “il frutto della legge e il suo compimento” (cfr Coll. XIV).

S. Bonaventura, nella Collatio XIV, cita anche il Vangelo di Marco dove dice: “La terra produce prima lo stelo [il tempo prima della legge], poi la spiga [il tempo sotto la legge], poi il chicco pieno della spiga [il tempo dopo la legge]” (Mc 4,28). Dalla serenità, dall’armonia comunicate da questo linguaggio mutuato dalla natura, traspaiono “sentimenti di innocenza e di fraternità che rendono l’uomo più buono” (J.A. Merino, Francesco d’Assisi e l’ecologia, Il Messaggero, p. 67). Ma come può S. Bonaventura aiutare noi, uomini del terzo millennio, a ricuperare una lente che renda intelligibile il libro della natura?

Per S. Bonaventura “leggere questo libro non è possibile ai filosofi naturali che conoscono solo la natura delle cose, ma non la riconoscono come vestigio” (Coll XII,15), cioè come segno del Creatore, poiché il peccato originale ha indebolito e deformato (anche se non cancellato) le nostre facoltà naturali che devono essere purificate e perfezionate dalla grazia e dalla verità in Cristo. La grazia che riforma agisce negli uomini contemplativi.
Alla contemplazione si arriva per mezzo di una meditazione penetrante, di una conversazione santa e di una preghiera devota. “…prima noi dobbiamo pregare, poi santamente vivere, infine applicarci alla considerazione della verità” (Itinerarium mentis in Deum, 1,7). Vengono in mente le parole di Guardini che richiama a vivere in un “atteggiamento contemplativo” per cui “l’uomo deve nuovamente pregare e meditare “ (R. Guardini, ibidem, p. 211); vivere nell’ “ascesi” (parola chiave negli scritti di S. Bonaventura) per Guardini, significa non “capitolare, ma combattere e al posto decisivo, cioè contro se stessi” (ibidem, p. 215) per riconoscere nel proprio intimo il male ed affrontarlo in modo efficace (cfr ibidem, p. 214).

Lucia Baldo