Don Giovanni Fornasini, nuovo beato della Chiesa di Bologna

Domenica 3 ottobre ho partecipato al pellegrinaggio della mia parrocchia, Santa Maria Goretti, ai luoghi di don Giovanni Fornasini, il nuovo beato della Chiesa di Bologna. Ci accompagnava don Angelo Baldassarri, vicepostulatore della causa di beatificazione.
Don Giovanni aveva solo 29 anni quando fu ucciso il 13 ottobre del 1944; sacerdote appena ordinato fu parroco al suo primo incarico a Sperticano per soli due anni.
Siamo partiti proprio da Sperticano, paesino dell’Appennino bolognese, a tre chilometri da Marzabotto, ai piedi di Monte Sole, per pregare come lui nella chiesina dove ora è sepolto, vedere la canonica abbandonata in cui visse insieme ai suoi familiari e ricordare la sua vita e quella dei paesani in quegli anni di sofferenza a causa prima della guerra e poi dell’occupazione nazista.
Di lui i testimoni raccontano che, appena insediatosi nel settembre del 1942, andò in visita alle famiglie della comunità per conoscere e fare proprie le preoccupazioni e le difficoltà che stavano affrontando. Con gli uomini in guerra, rimanevano prevalentemente anziani, donne e bambini.
Lui che da ragazzo aveva sperimentato la scarsità del cibo e aveva lavorato per aiutare i suoi economicamente, si diede da fare per portare loro un aiuto materiale.
Lui che da ragazzo era stato lungamente ammalato, fu vicino e confortò i sofferenti e accompagnò i moribondi standogli accanto anche per ore. Lui che da studente aveva faticato negli studi, creò uno spazio per permettere ai bambini e ai ragazzi di proseguire il percorso scolastico.
Organizzò la parrocchia come luogo di preghiera e di socializzazione per sostenere i suoi parrocchiani; costruì la comunità anche attraverso pellegrinaggi, sistemando scantinati nella canonica, realizzando una biblioteca, creando il coro delle ragazze, facendosi aiutare da tutti coloro che erano disponibili.
La scarsità di cibo era grande e don Giovanni mise a disposizione ciò che sarebbe spettato a lui per il suo ministero, così come mise a disposizione tutto il suo tempo e anche la sua casa per accogliere sfollati da Bologna.
Si trovava spesso con gli altri preti della zona per la celebrazione insieme, un momento conviviale, un confronto e un sostegno reciproco. Raggiungeva con la sua bicicletta i parroci anziani e ammalati per aiutarli.
Il suo ministero fu accompagnato e sollecitato dal chiedersi “cosa farebbe Gesù al mio posto?”.
Domanda determinante per le scelte vissute dopo l’8 settembre quando si aprì un periodo ancora più difficile e terribile per gli abitanti dei paesini vicini al fronte, alla linea gotica che separava le forze alleate dalle truppe tedesche.
L’8 settembre 1943 aveva festeggiato con la sua comunità la fine della guerra e quindi condiviso con i suoi parrocchiani la speranza del ritorno degli uomini in guerra e di una vita quotidiana non più caratterizzata da paura e fame.
Ma non fu così. Anzi: la guerra arrivò in casa.
Senza mai trascurare gli impegni ecclesiali, con grande energia, coraggio e generosità raggiungeva con l’immancabile bicicletta, i luoghi appena bombardati o assaltati per rappresaglia prestando soccorso ai feriti e seppellendo i morti.
Si presentava al comando tedesco armato di un piccolo vocabolario per ottenere la liberazione dei rastrellati o degli ostaggi evitando loro la deportazione in Germania o l’uccisione.
La sua semplicità e franchezza gli permise di ottenere risultati impensabili e per questo tutti si affidavano a lui per salvare persone in pericolo e nasconderle.
Guidato dall’impegno preso prima della sua ordinazione, “ogni cosa sottratta all’amore è sottratta alla vita”, mise la sua vita a disposizione degli altri, conscio del pericolo che stava correndo.
Infatti nel settembre del 1944 affidò a due sacerdoti il suo testamento in cui emerge la consapevolezza del rischio di una morte violenta.
La situazione si era ancor più aggravata: il territorio di Monte Sole era diventato zona di prima linea. Le truppe tedesche volevano fermare l’avanzata degli Alleati che avevano già liberato Firenze e impedire alle formazioni partigiane della zona di essere di supporto.
Per questo le SS pianificarono di fare terra bruciata: massacrarono donne, vecchi e bambini, incendiarono borghi, case e chiese per sette giorni, dal 29 settembre al 5 ottobre 1944 uccidendo 770 persone.
Don Giovanni, rastrellato e poi rilasciato, il 30 settembre si recò a Bologna per ottenere un salvacondotto. Tornato il 3 ottobre e informato dei massacri, cercò di raggiungere i luoghi dell’eccidio per dare degna sepoltura ai morti. Ma non sempre gli fu possibile.
Sperticano fu occupata dalle SS e in canonica si insediò il comando tedesco che per la sera del 12 ottobre organizzò una festa a cui furono invitate le ragazze sfollate in canonica. Don Giovanni si autoinvitò e rimase alla festa fino alla fine per proteggere le ragazze impedendo che fossero oggetto di violenza. Quest’ultimo atto d’amore vissuto come un ulteriore insopportabile affronto dal comando tedesco, insieme alla volontà di eliminare un testimone delle stragi, portò alla decisione di ucciderlo. La mattina seguente il capitano delle SS invitò don Giovanni a raggiungerlo a San Martino di Caprara con il pretesto di provvedere alla sepoltura dei morti.
Anche noi abbiamo raggiunto questo borgo ora completamente distrutto, in cui donne, vecchi e bambini che si erano rifugiati in chiesa allarmati dall’avvicinarsi delle truppe, erano stati uccisi il 29 settembre.
E là, dietro il muro del cimitero, lontano da testimoni per nascondere la verità sulla sua morte, il 13 settembre don Giovanni fu eliminato.
Con grande violenza fu massacrato di botte, come rivelò la perizia anatomo-patologica; colpi sempre più forti e dolorosi per annientare l’uomo di fede e carità, il sacerdote vicino alla sua gente per proteggerla e servirla come avrebbe fatto Gesù.
Per questo la Chiesa lo ha riconosciuto martire della fede.
Fin dal primo dopoguerra fu chiamato l’“Angelo di Marzabotto”.
Come scrive il card. Matteo Zuppi nella prefazione al libro “Far tutto, il più possibile”, don Giovanni fu un angelo di amore nella tempesta della disumanità, un angelo con la bicicletta, disponibile, attento, umano; per lui era normale vivere un amore per “i fratelli tutti”.
Conoscere il beato don Giovanni, prete semplice, umile, ci insegna che le nostre fragilità e difficoltà non ci impediscono di aver cura di chi ci sta accanto.
Anzi, noi che vogliamo vivere nel Signore, abbiamo da Lui l’intelligenza per imparare dalle nostre debolezze e la forza per non tirarci indietro di fronte alle sofferenze resistendo al male, allora la guerra e l’occupazione nazista, oggi tante situazioni di disumanità che colpiscono noi e i nostri fratelli e sorelle.
Costanza Bosi

 

Il Cantico
ISSN 1974-2339
Pubblicazione riservata