Relazione di apertura al Convegno “Custodia del creato come stile di vita: per gratuità, reciprocità, riparazione”
Bellamonte, 28-30 agosto 2013

serrettimjpegL’Enciclica Luman fidei è un testo molto bello, molto profondo, un testo ricco che ha una sua architettura, un suo disegno che va approfondito. Bisogna tener presente nel leggere e meditare questo testo che è stato scritto a quattro mani da Papa Benedetto e da Papa Francesco. Vi invito a fare tesoro di questa Lettera, a studiarla ma soprattutto a farne un testo di meditazione poiché in essa è presente uno spirito che anima, un vigore, un fuoco, inattingibile a una lettura epidermica.
Queste pagine cristiane non comunicano solo un insegnamento, una dottrina, ma il mistero di Dio che si riverbera nella persona di colui che scrive. Questa è la santità.
Dobbiamo essere grati al Signore che ci fa questi doni così importanti, così vitali. Abbiamo necessità di avere di fronte i testimoni, come dice anche la Lettera agli Ebrei: «Circondati da un sì gran numero di testimoni e deposto ciò che ci è di peso, noi corriamo la corsa tenendo fisso lo sguardo su Cristo» (cf. Eb 12, 1s). La forza della testimonianza, la luminosità, lo splendore presente in grado straordinario in questa Lettera, ci riempie di stupore.
C’è un testo che può essere premesso e che è citato nell’Enciclica (4): il canto ventiquattresimo del Paradiso di Dante dove il nostro grande poeta, nel far ingresso nell’ultimo cerchio, è sottoposto a tre esami da parte di tre Apostoli (Pietro, Giacomo e Giovanni) sulle tre virtù teologali: Fede, Speranza e Carità. Pietro rivolgendosi in questo canto al poeta parla di una «cara gioia, sovra la qual ogni virtù si fonda».
Leggendo e meditando questa Lettera noi entriamo veramente in comunicazione con lo spirito di colui che l’ ha scritta, così da poter attingere a questa “cara gioia” di cui il testo è intriso. È su questa “cara gioia” che la virtù si fonda.
L’Enciclica è composta da una introduzione (formata da sette paragrafi) e da quattro capitoli:
• il primo capitolo è intitolato: «Abbiamo creduto all’Amore»;
• il secondo: «Se non crederete, non comprenderete»;
• il terzo: «Vi trasmetto quello che ho ricevuto» (quindi la comunicazione della fede);
• il quarto: «Dio prepara per loro una città» (l’aspetto di comunione, l’aspetto anche sociale che la fede introduce nella realtà tra gli uomini, perché la fede, essendo un termine che indica una relazione, una qualità del rapporto, introducendo la virtù teologale un rapporto nuovo tra Dio e l’uomo, tra il Signore e noi, a partire da questo introduce anche una novità della relazione tra noi. E quindi cambia il “noi”). Ci sono delle pagine molto belle sulla differenza tra la realtà della relazione “io – tu” e quella del “noi”: qui Papa Benedetto prosegue la meditazione che Wojtyła aveva offerto sulla differenza che c’è tra la relazione dialogica del “tu” e la dimensione dell’unità delle persone che è il “noi” (39).

I primi paragrafi aprono un discorso sulla luce e lo aprono non riprendendo la tradizione sulla metafisica della luce, ma facendo piuttosto riferimento alle «piccole luci» (3). Noi nel vivere, nella nostra esistenza ci muoviamo a partire da una piccola luce. Cosa significa questo?
Significa che qualsiasi cosa noi facciamo, la facciamo sempre a partire da un giudizio. Il giudizio nasce dalla conoscenza. La conoscenza è una luce naturale,lalampada, il lume naturale che il Signore ci ha dato con la nostra facoltà di intendere (la ragione, l’intelletto). Essendo noi esseri razionali, quindi luminosi da questo punto di vista, in ogni cosa ci muoviamo secondo questa luce. Ci sono tante «piccole luci» che però non sono in grado di illuminare la totalità di quello che noi siamo, la totalità della nostra vita e della nostra esistenza. La caratteristica di queste «piccole luci», continua il Papa, è che queste luci procedono da noi, sono come una potenzialità che abbiamo in noi e quindi si dipartono da noi.
Un’altra caratteristica che ha la piccolezza di queste luci (essendo noi limitati) è la brevità di gettata, sono a corto raggio. Per questo motivo nell’AnticoTestamento,soprattutto nei Libri Sapienziali, si parla della situazione problematica nella quale si trova l’uomo che segue la propria intelligenza. L’uomo è dotato di intelligenza, è dotato di un lume. I Padri ci spiegano il fatto che l’uomo è l’unica creatura creata «a immagine e somiglianza» di Dio, affermando in primo luogo, che l’uomo è un essere intelligente. Fa parte della natura spirituale dell’uomo anche l’essere intelligente.fedejpeg
Già dal paragrafo quarto il Papa spiega come la luce che viene data a noi nella fede ha queste caratteristiche. Innanzitutto mentre le «piccole luci» vengono da noi, la luce della fede ci viene data da Dio e perciò da una “centrale elettrica”. Questo è un punto importante perché i due autori di questa Lettera, sistematicamente tengono presente il fatto che la virtù della Fede è una virtù teologale. Virtù teologale significa fondamentalmente che è un’azione che Dio compie in noi. L’Enciclica in molti passaggi si muove secondo questa logica. Questa azione di Dio non è una cosa fantomatica, immaginaria, sublime ma inattingibile, ma è la base di tutto. Il fatto che la Fede provenga da Dio è fondante, è decisivo.
Altra caratteristica è che questa luce, al contrario delle lucine, illumina tutto. Sul piano naturale, quando arriva la luce grande del sole, tutte le altre luci (le stelle, la luna) scompaiono. La luce della fede invece ravviva e rafforza le luci piccole, le rende ancora più vive, più capaci di far luce. Dietro questa affermazione c’è la rivelazione del mistero di Cristo. La fede virtù teologale consiste in un’azione effettiva che Dio compie in noi. Come nell’Incarnazione, così anche nella fede, sono presenti il mistero di Dio e la realtà dell’uomo in cui Dio prende dimora. Quando Dio compie questo dono, questa partecipazione, dà parte a se stesso in questo modo, l’umanità non solo non si spegne, ma, al contrario, fiorisce, si corrobora, va verso la sua pienezza, splende e irradia. Questo lo possiamo notare nei Santi. Quello che Dio fa è la cosa più concreta che ci sia al mondo.
La cosa più grande che Dio fa è l’opera del sesto giorno, siamo noi e poi quello che Lui fa di noi. La logica della virtù teologale, quindi anche della fede, sta dentro a questo grande mistero di Dio che partecipa se stesso e rende anche presente se stesso nell’uomo. Lui dice: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). Inabitazione: il Signore viene ad abitare in noi. Il Signore dice di sé e del Padre: «e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). In effetti la radice del termine ‘partecipazione’ può essere fuorviante, come se Dio ci desse una “parte” da sé, ma non è solo questo la virtù teologale. Il Signore viene proprio ad abitare, a prendere dimora in noi. Quando nel Battesimo ci è stata data la fede il Signore è venuto ad abitare in noi, ha creato in noi la dimora e lo spazio in cui stare, in cui abitare. Questa luce grande della fede ravviva le luci piccole.
Un’altra caratteristica molto bella, importante di questa luce, che ci viene riportata nei paragrafi iniziali, è il fatto che questa viene sì da un passato, ma viene anche da un futuro. Quindi non è una luce che illumina quasi in maniera estrinseca la nostra strada, la nostra esistenza, ma è una luce che porta le nostre esistenze verso un compimento, verso un adempimento. Il senso del futuro, del destino nostro non è qualcosa che verrà dopo, ma è qualcosa che è presente adesso. Questo è il significato concreto del fatto che la luce della fede viene dal futuro e ci porta verso quel futuro a cui noi siamo chiamati.
Nell’Enciclica Lumen fidei si parla anche di «memoria del futuro» (9).
La memoria ordinariamente riguarda qualcosa di trascorso, che è avvenuto, che è accaduto e di cui, appunto, facciamo memoria. Ma l’uomo è più antico della sua storia. Noi non siamo un’esistenza che vive in una successione temporanea che viene concepita, partorita, cresce, cresce, poi decresce e poi muore. Perché non siamo questo? Perché la nostra origine non è semplicemente il concepimento e il nostro destino non è semplicemente la morte. La fede, essendo una realtà divina che ci viene partecipata, ci rende partecipi di questa origine che non è semplicemente l’inizio a cui hanno dato origine i nostri genitori, e ci rende partecipi di questo destino che non è il corrompimento della tenda mortale, della nostra «abitazione terrena» come dice l’Apostolo. Per il cristiano il futuro, il destino e l’origine in Dio e da Dio non sono qualcosa che viene dopo per cui uno fa memoria solo dopo che la cosa è avvenuta, ma sono una cosa che è presente continuativamente nella nostra storia, per cui noi possiamo far memoria di questo futuro.
Quando Maria dice: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore, perché ha compiuto in me cose grandi», questa non è memoria del passato, ma memoria del futuro. Maria ricorda quello che Dio ha fatto nella sua vita, questa è memoria del futuro perché quello che Dio fa è eterno. Allora quando i cristiani si ritrovano e si raccontano cosa il Signore ha fatto nella loro vita, questa è memoria del futuro, non è passato, non passa.
Il sacramento del Battesimo, sacramento della fede, imprime in noi un carattere. Carattere vuol dire quel qualcosa che non si cancella più. Non si cancella perché è azione di Dio. Tutto questo fa sì che la fede, la luce della fede ci porti al dilà del nostro piccolo io, del nostro io isolato, circoscritto (4). La luce che proviene da Dio ci porta al dilà di questo, e questa luce, dice il poeta Dante nel canto ventiquattresimo del Paradiso, è come «stella in cielo che in me scintilla». Pietro chiede a Dante: «Ma tu questa moneta ce l’hai?» e Dante risponde: «sì ce l’ho lucida e tonda». La fede è come «stella in cielo che in me scintilla». Qui c’è il punto di intersezione tra la realtà di Dio e la realtà nostra perché la fede è opera di Dio, è una luce che proviene da Dio, e viene a trovarsi in me, in me scintilla. Sapere che abbiamo in noi qualcosa che non è da noi, ma che viene da Dio, non è una cosa che fonda la “cara gioia”? Non c’è una cosa che possa dare più gioia di questa.

Il primo capitolo dell’enciclica inizia con la figura di Abramo. Il Signore si rivolge ad Abramo con la parola. Nel testo vien detto che la parola è il modo in cui le persone comunicano fra di loro, significa che è una comunicazione personale, che va dalla persona alla persona, e cioè dalla persona di Dio alla persona di Abramo. L’inizio di una vicenda storica di fede, in cui chiamiamo Abramo «nostro Padre nella fede», si preannuncia con questo tratto di interpersonalità.
Abramo viene chiamato dal Signore ad uscire dalla sua terra. Qui il Papa si sofferma su questa chiamata, su questa vocazione a camminare e dice che la fede vede, esprime la sua luminosità, porta ad effetto, nella misura in cui cammina. Questo camminare il Papa lo intende come un entrare nello spazio aperto dalla Parola di Dio. Il camminare ascoltando il Signore che invita a camminare e ad uscire; questo camminare seguendo Lui, ascoltando Lui, prestando fede, fidandosi di Lui, questo è già un entrare nella dinamica, nella logica di Dio, entrare in uno spazio che è aperto da Dio.
Altra meditazione che ci offre riguardo ad Abramo è che nella sua storia vive la sua fede come abbandono totale al Signore. Quando questi gli si presenta e gli parla, egli gli presta fede e lo segue. Il Signore gli disse: «Esci dalla tua terra» ed Abramo uscì. Questa dinamica di fede si lega ad una promessa di paternità. Questo passo è molto bello perché il Signore promette ad Abramo una discendenza. Qui si vede come la fede ha a che fare con questa paternità, sia nel senso della generazione come potere di vita, sia nel senso della creazione nel fatto che viene ad esserci qualcosa che prima non c’era. «Per fede sono stati creati i mondi» (Eb 11, 3): rispetto al nulla che c’era, viene ad esserci qualcosa, il creato, a partire dalla fede che Dio ha in ciò che sarà. Il substrato di tutto quello che è, è la fede di Dio e la consistenza di Dio.
cjpegNel paragrafo ventuno si legge: «Possiamo così capire la novità alla quale la fede ci porta. Il credente è trasformato dall’Amore a cui si è aperto nella fede e nel suo aprirsi a questo Amore che gli è offerto, la sua esistenza si dilata oltre sé».Qui viene espressa una dominante: l’intreccio fra la fede e l’amore. È un testo sulla fede, ma tutta la dinamica della fede è considerata dentro la virtù più grande che è l’Amore. Nel testo è dimostrato, c’è una ostensione di come questo accada, ed è una cosa veramente straordinaria. Il fatto che l’Amore è più grande è presente sempre, è uno dei registri maggiori dell’Enciclica, per cui il credere, in realtà, è il credere all’Amore. Se si stacca la virtù teologale della fede dall’ Amore non esiste neanche più la verità della fede. Il credente è trasformato dall’Amore a cui si è aperto nella fede e, nel suo aprirsi a questo Amore, la sua esistenza si dilata oltre sé.
La linea di demarcazione tra la creatura e il Creatore non viene mai superata, neanche nella comunione dei santi. Quanto più la creatura si avvicina, vive la prossimità, l’unità e la comunione con il Creatore, tanto più la creatura entra nella sua verità di creatura. Per questo S. Paolo può affermare: «Non vivo più io ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20) ed esortare che «il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori» (Ef 3, 17). «Nella fede – prosegue il Papa – l’io del credente si espande per essere abitato da un Altro, per vivere in un Altro e così la sua vita si allarga nell’Amore». Qui si situa l’azione propria dello Spirito Santo. Il cristiano può avere gli occhi di Gesù, i suoi sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del Suo Amore che è lo Spirito. È in questo Amore che si riceve la “visione” propria di Gesù. Fuori da questa conformazione dell’Amore, fuori dalla presenza dello Spirito che lo infonde nei nostri cuori, è impossibile confessare Gesù come il Signore. E la confessione è confessione di fede.
L’Anno della Fede dovrà servire ad arrivare a professare in maniera più vera e piena la nostra fede. Questo è l’intento con cui l’Anno della Fede è stato indetto da papa Benedetto. Ed è l’intento inequivocabile di papa Francesco.

Don Massimo Serretti
Docente di Teologia Dogmatica,
Pontificia Università del Laterano