Rosy Bindi *

Il 27 maggio 1923 nasceva a Firenze Lorenzo Milani. Ma noi siamo qui e non a Firenze, perché Barbiana, dove viene esiliato a 31 anni, diventa subito il luogo del suo riscatto e della sua salvezza.
A don Bensi, suo padre spirituale, e alla madre che lo invitavano a considerare questa parrocchia un banco di prova provvisorio, rispondeva: “Non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza d’una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui s’è svolta. E neanche le possibilità di far bene si misurano sul numero dei parrocchiani”.
Aveva ragione. Questo centenario vorremmo fosse un’occasione per restituire Lorenzo Milani alla verità del suo magistero e della sua persona, per tornare ad ascoltare la sua voce. Chi era don Milani? Un uomo inquieto, assetato di assoluto, che a vent’anni ha voltato le spalle ai privilegi della sua influente famiglia cosmopolita e borghese per farsi prete; un sacerdote sempre obbediente alla sua chiesa eppure insofferente verso una fede praticata per abitudine o superstizione; un maestro esigente che non ha risparmiato critiche a un sistema scolastico selettivo e ai suoi allievi ha insegnato ad essere cittadini sovrani, consapevoli dei loro diritti.
Sarebbe un errore contrapporre il prete al maestro, separare la lingua sacra dalla lingua profana, le lezioni di catechismo con la cartina della Palestina attaccata al muro della canonica e quelle di italiano fatte leggendo il giornale o i contratti di lavoro. Ed è sbagliato considerare don Lorenzo un testimone del passato, una personalità scomoda solo per la Chiesa e l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta.
Milani resta una spina nel fianco anche per noi. Il suo pensiero è chiaro, diretto, non ha bisogno di esegeti e ha ancora molto da dire. È sufficiente leggere i suoi scritti pubblici e il suo epistolario, senza limitarsi a poche pagine o alle frasi più famose. È possibile, grazie all’opera omnia, pubblicata nel 2017. Con questa ambizione, quella di essere fedeli a don Milani che non voleva essere ricordato per l’eroicità della sua storia ma per quella dei poveri, il Comitato nazionale ha programmato alcuni appuntamenti nazionali sui temi al centro della sua pastorale: la chiesa, il lavoro, la Costituzione, la scuola.
Sul versante ecclesiale, sotto la guida del cardinal Betori, faremo dialogare don Lorenzo con la chiesa del suo tempo. Sono anni di attesa del Concilio Vaticano II, in cui a Firenze si incontrano personalità come Mons. Dalla Costa, Ernesto Balducci, Davide Maria Turoldo, don Facibeni, don Bensi, Fioretta Mazzei, Giorgio La Pira, Mons. Bartoletti.
La scelta di farsi povero tra i poveri, di restare fino alla fine vicino ai più emarginati, con gli operai di Calenzano, con i piccoli montanari semianalfabeti del Mugello che gli hanno “insegnato a vivere”, appare del tutto coerente con quella chiesa in uscita, che abita le periferie del mondo, a cui ci invita Papa Francesco e alla quale dobbiamo convertirci.
Anche la radicalità con cui difende la dignità del lavoro è una ricerca delle “vie terrene di portare la Grazia”, è sete di giustizia che lo spinge a prendere posizione e contestare l’arroganza padronale. Milani vive lo scarto tra l’annuncio evangelico e una democrazia dei diritti ancora incompiuta. E si schiera. Si appella alla Costituzione per chiedere il rispetto del diritto di sciopero, il giusto salario, le case popolari, la scuola per tutti. L’Italia è certamente cambiata, molti progressi sono stati fatti e molti diritti riconosciuti e conquistati. Ma resta vera la convinzione di don Lorenzo: “chi non ha parola non ha potere”.
Ed è facile immaginare a quali “sordomuti” il maestro di Barbiana vorrebbe aprire le orecchie e sciogliere la lingua: i giovani precari e sottopagati, i pensionati in fila alle mense della Caritas, i lavoratori morti e feriti nei cantieri e nelle aziende, gli immigrati sfruttati nelle nostre campagne.
L’esperienza di Barbiana non è facilmente riproducibile. La scuola era per don Lorenzo come un “ottavo sacramento” la via di una pastorale che deve “risvegliare nelle persone l’umano per aprirle al divino”. Ma sulla scuola e le sue finalità, il maestro di Barbiana può essere ancora una guida preziosa. “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde”, denunciava la “Lettera a una professoressa”.
Sono trascorsi 56 anni e in Italia l’ascensore sociale rappresentato dall’istruzione pubblica si è fermato. Il paese registra tassi di dispersione scolastica tra i più alti d’Europa, la percentuale di laureati è sotto la media europea e l’analfabetismo funzionale colpisce un terzo della popolazione tra i 16 e i 28 anni.
Con la sua scuola a tempo pieno, senza ricreazione e senza vacanze, più simile a un monastero benedettino che a una casa del popolo, don Lorenzo dimostrava di credere nella forza liberante del sapere: “Quando il povero saprà dominar le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante, del fattore sarà genitori, disposti a fare sacrifici pur di spezzare le catene dell’ignoranza”. Realizzare una scuola che include tutti e non scarta nessuno, che non fa “parti uguali tra diseguali”, che mette al primo banco i meno capaci, perché non c’è merito nel talento frutto del caso e di condizioni economiche e sociali spesso ereditate; non è un’utopia del secolo scorso. È il compito che ci consegna don Lorenzo Milani, che ci chiede di avere più cura e più attenzione alle nuove generazioni.
Milani ci sfida anche sul terreno della qualità della democrazia. Ai suoi allievi insegnava ad amare la politica, sinonimo di quel “I care”, contrapposto al “me ne frego” fascista, che era anche lo scopo della sua scuola: educare alla partecipazione, all’impegno verso gli altri, alla cura dei beni comuni, alla giustizia e alla pace. Era una pedagogia esigente, che invitava a prendere posizione. “Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole).
Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti”.
Parole di straordinaria attualità, in un paese in cui l’astensionismo ha raggiunto livelli preoccupanti e il dibattito sulle riforme della Costituzione – patto fondativo della Repubblica – non mobilita l’attenzione che sarebbe necessaria. Se, come afferma Papa Francesco stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi dovremmo chiederci a cosa farebbe appello don Milani – al Vangelo? alla Costituzione? a entrambi? – per spronarci a un impegno più stringente in favore della pace e del disarmo nucleare. Forse ci ripeterebbe la frase con cui ancora una volta ci ha convocato per salire a Barbiana: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.
5 Giugno 2023

* Intervento della Presidente del Comitato per il Centenario della nascita di don Milani,
Barbiana 27/05/2023

Il Cantico
ISSN 1974-2339
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