Per una buona politica
Lucia Baldo
“Sincerità” e “onestà” sono due delle virtù politiche che il Papa cita nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2019. La prima esprime la ricerca della verità che è inscritta nel cuore di ogni uomo onesto. Onestà e sincerità sono strettamente correlate tra loro, così come il bene e la verità: non c’è bene senza verità e non c’è verità che non sia buona
Il Bene
Nel nostro tempo alla domanda: “Che cos’è il bene?” è difficile, se non impossibile, dare una risposta unanime. Forse i più direbbero che il bene è il proprio benessere, la soddisfazione dei propri desideri assunti a diritti e assolutizzati.
Nel linguaggio corrente il bene non esiste. Esiste il mio bene. Se l’altro non condivide quello che è per me il bene, non c’è problema, perché ciascuno è libero di pensare quello che vuole, basta che l’altro non pretenda di “impormi” la sua visione di ciò che è bene.
Parlare di un bene oggettivo, valido per tutti, è fuori moda. Ma se la morale è ridotta a puro soggettivismo, è annientata, disintegrata. Lo stesso discorso vale per il male. Può accadere che quello che per me è male, da un altro sia giudicato bene.
Bene e male si confondono fino a diventare interscambiabili. Si può chiamare “bene” il suicidio assistito di un minorenne depresso che non ha più la forza di continuare a vivere. La morte sembra il bene immediato, l’unico pensabile. Manca la fantasia di poter avviare processi di recupero che restituiscano orizzonti di senso e di spiritualità aperti a un futuro di speranza e di rinnovamento. Si è talmente calati nel proprio presente da non riuscire a intravedere vie d’uscita. Manca la fiducia nella possibilità di ricevere aiuto dagli altri. L’alterità è vista piuttosto come limite e ostacolo alla libertà di scelta nella vita, soprattutto quando l’Altro ha il nome di Dio.
Nella spiritualità francescana il Bene è uno dei nomi di Dio: “Tu sei il Bene, ogni Bene, il sommo Bene, Signore Dio vivo e vero” (FF 261). Ciò significa che il Bene è Lui e che io posso trovare solo in Lui quell’orizzonte di senso che mi è precluso se io penso di bastare a me stesso; significa che non sono io il principio del Bene, ma solo Lui mi può indicare la strada che raddrizzi i miei sentieri e che mi porti alla salvezza.
La ricerca della Verità
Nella visione di G. B. Vico, cristiani sono coloro che “fanno” la Verità ovvero sono chiamati a rispondere alla Verità in modo soggettivo, nel senso del divenire, del farsi della persona in un cammino di salvezza.
“Verum ipsum factum”, dice G. B. Vico.
La centralità dell’interesse in Vico è tutta sull’uomo che, nella ricerca sincera della Verità, non si sente messo da parte, ridotto al ruolo di spettatore, ma diventa attore, soggetto attivo impegnato in un cammino che dura tutta la vita.
La Verità una, assoluta e oggettiva è solo in Dio creatore.
S. Bonaventura dice che la Verità è adeguazione dell’intelletto alla cosa, ma -aggiunge – dell’intelletto di Dio che ha fatto la cosa, non del mio intelletto (“Veritas est adaequatio intellectus et rei, sed intellectus Dei, non mei”) che non l’ha fatta.
Nella storia vi sono dei periodi in cui si ha fiducia nella possibilità di cercare la Verità. Allora, in special modo nel mondo francescano, la Verità è raffigurata nel sole che illumina le cose perché siano viste e illumina l’occhio perché possa vedere.
Ci sono, invece, altri periodi in cui prevalgono lo scetticismo, il nichilismo e il relativismo, filosofie che già S. Agostino confutò col famoso ragionamento: “Tu dici che non esiste la Verità; però tu credi, dicendo questo, di dire la Verità. Dunque la Verità esiste”.
Oggi la parola “Verità” non è una parola forte, è poco usata o, se usata, è mistificata.
Se osserviamo i media, la politica, percepiamo che i rapporti umani sono diventati mutevoli e non si costruiscono in rapporto alla Verità, ma in rapporto alla facciata opinabile. Assistiamo spesso a politici che dicono bugie che sembrano Verità e fanno apparire vero ciò che è falso. E più sono convincenti nel mascherare di Verità la menzogna, più sono ritenuti carismatici. Essi non cercano la Verità come misura del loro dire e delle loro azioni, ma pretendono di essere essi stessi la misura della Verità, rendendola, così, opinione.
La luce della Verità
La parola “Verità” (dal greco) significa “non nascondimento”, “rivelazione”: “Chi vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45), dice il Cristo che invita ad avere un linguaggio trasparente, senza finzioni, come quello di chi dice: “Sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5,37).
Purtroppo, però, oggi chi è trasparente è giudicato un semplicione e viene manipolato dagli altri secondo i loro fini. Perciò si preferisce essere falsi, nascondendosi.
Quando il politico si occulta nel suo linguaggio e non si esprime per quello che è, lo fa allo scopo di catturare gli altri e ottenerne il consenso.Allora più che nella luce della Verità, vive nell’apparenza e nel buio.
Chi serve la Verità incontra molte difficoltà, tra le quali può esserci anche la perdita della vita, come accadde a Gesù che fu condannato a morte dopo aver detto la Verità al sommo sacerdote che gli aveva chiesto se fosse realmente il Cristo, il Figlio di Dio. Se Gesù avesse risposto negando, forse avrebbe avuto salva la vita, ma avrebbe perso la libertà di dire la Verità e con essa di adempiere alla missione che il Padre gli aveva affidato. Avrebbe perso il senso della sua vita. Pertanto se l’uomo vuole diventare veramente umano, trovare un senso alla propria vita, deve ricuperare l’orizzonte illuminato della Verità, il sole che fa crescere i rapporti sociali, politici… che sono tanto più umani, quindi consistenti, quanto più sono nella luce di questo sole.
Rapporto tra Verità e Bene
Il mito della caverna di Platone parla di uomini legati verso la parete all’interno di una caverna. A un certo punto uno si libera ed esce all’aria aperta dove conosce la realtà così come essa è, ovvero rovesciata rispetto alle figure proiettate sulla parete della caverna.
Per comprendere questo mito nella sua interezza bisogna pensare non soltanto alla libertà di uscire dalla caverna, ma anche e soprattutto a quella di rientrare. Infatti l’uomo libero, dopo aver conosciuto la Verità delle cose, rientra nella caverna per annunciare agli schiavi che la realtà è un’altra. Ma gli uomini della caverna preferiscono stare nella schiavitù delle ombre piuttosto che nella luce della Verità e uccidono colui che era rientrato per liberarli. La Verità, infatti, porta con sé il rischio della vita.
Questo mito ci dice che la Verità da sola non basta, poiché richiede la congiunzione con la volontà di Bene per gli altri e il desiderio della comunione (il rientro), senza il quale non si dà Verità.
Platone, prima ancora della Verità, poneva al centro del suo interesse il Bene, ma non era in grado di raggiungerlo, come dice S. Bonaventura, perché non conosceva Cristo, il medico che può sanare il cuore malato di malizia, dopo il peccato. Grazie a Lui, che è il nostro esemplare, noi possiamo riconoscere la nostra debolezza, incapacità di raggiungere con la sola volontà o con la sola ragione rispettivamente il Bene e la Verità.
A differenza di quanto accade al nostro tempo in cui la sfera affettiva della volontà è separata nettamente dalla sfera razionale-tecnica, nelMedio Evo Verità e Bene erano strettamente connessi. S. Bonaventura dice che “ragione e volontà solo nella mutua compenetrazione acquistano il loro significato spirituale” (V.C. Bigi, Studi sul pensiero di S. Bonaventura, Porziuncola 1988, p. 260), poiché non basta che la ragione giudichi un atto malvagio perché avvenga la decisione di non compierlo; ma è anche vero che non si può volere quello che non si conosce. Se volontà e ragione sono disgiunte, la ragione può solo deliberare, ma non decidere e la volontà rimane solo appetito (cf L. Baldo, Pace e bene, Porziuncola 2005, p. 12), cioè soddisfazione carnale dei propri desideri.
Tuttavia nella Scuola francescana, a differenza che in quella tomista, «la compenetrazione tra ragione e volontà è intesa in modo tale da affermare il primato della volontà. Dice S. Bonaventura: “Per quanto la ragione deliberi, la decisione definitiva dipende sempre e solo dalla determinazione e dalla preopzione della volontà”» (ibidem).
Questo problema turbava anche gli antichi: Temistocle, pur avendo insegnato ai suoi figli la rettitudine, aveva dei figli disonesti. Allora, visto che non basta dire a qualcuno di fare il Bene, perché lo compia, ci chiediamo: che cosa può spingere la volontà a scegliere il Bene?
“La teologia francescana pone al centro la volontà, ma chi muove la volontà è l’amore di Dio che è donato all’uomo perché orienti al bene la sua affettività” (L. Baldo, ibidem, p. 14).
S. Francesco nella “Lettera a un ministro” mostra un modo per aiutare la grazia ad agire nel cuore del peccatore. È quello del ministro che offre il suo perdono al frate “che abbia peccato quanto poteva peccare” (FF 234) e amandolo in un modo esistenziale, come Cristo sulla croce, aiuta la grazia ad agire nel cuore del peccatore in modo che si converta e muova la sua volontà verso il Bene sommo.
Senza l’amore di Dio non possiamo fare il Bene né cercare la Verità. Il Bene e la Verità sono “le due facce dell’amore” (L. Baldo, ibidem, p. 15). Ad esse rimandano le virtù dell’onestà e della sincerità che sono inscindibili tra loro: l’onestà (da honor) richiama l’onore, la dignità che deriva dal perseguire il Bene con sincerità (da sine cera), ovvero con trasparenza, senza finzioni.
L’uomo onesto, che procede in modo retto sulla via del Bene, non può non essere sinceramente alla ricerca della luce della Verità che è Dio. E la Verità non può essere cercata se non procedendo, per amore, sulla via della rettitudine che per S. Bonaventura “consiste radicalmente nell’amore della Verità e del Bene” (V.C. Bigi, Studi sul pensiero di San Bonaventura, Porziuncola 1988, p. 269).