Sintesi dei lavori della Scuola di Pace, Roma 4-6 gennaio 2018
La riflessione di S.E. Mons. Mario Toso, Vescovo di Faenza-Modigliana, ha aperto la Scuola di Pace “Sperare la pace. Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace” presentando un quadro chiaro dei contenuti del Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, integrato con i 20 punti proposti all’ONU dalla Santa Sede (vedasi la prima parte della relazione di Mons. Toso pubblicata nelle pagine a seguire). È stata offerta così una visione d’insieme completata dagli apporti della Dottrina Sociale della Chiesa e con una seconda parte dedicata alla responsabilità di agire con consapevolezza nei confronti del fenomeno migratorio: si esige un discernimento nutrito dalla sapienza della fede e il ripensare la pastorale per vivere una fede autentica nel nuovo contesto interculturale e interreligioso, in rapporto con la complessità dei problemi che la migrazione sottende.
Quest’ampia disamina ha fatto comprendere quanto cammino ci sia ancora da fare, quante conversioni e quante correzioni da porre in essere nell’ambito sociale, civile, politico anche rispetto al tipo di accoglienza fatta fino ad ora. E quanto dobbiamo ripensarci come Chiesa, quanto dobbiamo ripensare alla nostra fede perché si tratta di “crescere nella consapevolezza di appartenenza ad una Chiesa universale”. Siamo interpellati a cogliere come segno dei tempi il fenomeno migratorio ormai strutturale per renderci parte attiva di processi che riguardano la convivenza umana. La nostra fede è chiamata sempre più a divenire adulta. Il discernimento ha bisogno di un esercizio sistematico del discernimento comunitario e di un supplemento di pastorale che aiuti a rendere concreti questi percorsi.
Dalla preziosa e articolata rilettura del Messaggio ha preso rilievo l’accorato appello a tutti noi e a questo nostro mondo a cambiare cambiare prospettiva: non vedere come minaccia la presenza dei migranti e rifugiati, ma coglierla come opportunità per costruire insieme un futuro di pace. Lo sguardo della fede è indispensabile sia per perseguire la conversione sia per avere di fronte tutte le dimensioni del problema, compreso quello ecclesiologico, teologico, pastorale, sempre ricordando che “La Chiesa è un popolo destinato ad accogliere tutti i popoli”.
Anche le pietre miliari di cui parla il Messaggio – l’accogliere, il proteggere, il promuovere, l’integrare – fanno tutte riferimento ad uno spirito di accoglienza che sia veramente fraterna. E inverare la cultura della fraternità è nostro peculiare compito. Si tratta di riconoscersi come famiglia umana con quanto ne consegue riguardo al ripensare la cittadinanza a misura dell’unica famiglia dei figli di Dio e del vero bene di tutta l’umanità.
La seconda riflessione “Accoglienza, cantiere di pace” (pubblicata nelle pagine a seguire) è stata proposta da P. Domenico Domenici, responsabile del progetto di accoglienza RIPA presso il Convento di Valmontone. Accompagnata dalle testimonianze di quattro persone accolte (piccola rappresentanza delle 15 nazionalità a cui oggi fa riferimento il progetto), essa ha permesso di entrare nel merito di che cosa significa accogliere e a quali frutti meravigliosi di pace può portare un’accoglienza fraterna. Da questi protagonisti del “cantiere di pace” abbiamo potuto intuire come un diverso modo di relazionarsi possa far fare a tutti un passo avanti in un percorso di umanizzazione. E’ emersa dalle loro parole la straordinarietà preziosa di quella che P. Domenico ha definito “normalità”, cioè la vita fraterna e la forza rigenerante che da essa promana per la possibilità che offre di prendere coscienza della propria dignità. Nelle relazioni fraterne come in una famiglia la persona è messa al centro. “La nostra famiglia è una famiglia colorata”, ha sottolineato Carla nella sua testimonianza, e in essa si sperimenta la ricchezza della diversità.
“Non è da tutti far sentire tutti a casa loro” hanno sottolineato anche gli altri testimoni Silla (Mali), Mosé (Benin), Iabel (Etiopia), che in questo clima di fiducia e di cura l’uno dell’altro hanno potuto conquistare la serenità necessaria per riprendere in mano la loro vita tirando fuori il meglio, pur avendo alle spalle percorsi duri, drammatici, a partire dall’aver dovuto abbandonare la propria famiglia e la propria terra. E la famigliarità, la fraternità, è già stata capace di vivificare il territorio attorno al Convento, il paese di Valmontone, con un risultato non solo di integrazione, ma anche di vera e propria rigenerazione riguardo al modo di approcciare il problema.
Con la terza riflessione, guidata da P. Martín Carbajo Núñez ofm (Teologia Morale alla Pontificia Università Antonianum) “Beati gli operatori di pace”, la Scuola di Pace ha voluto riandare a ciò che è fondamentale dal punto di vista teologico per operare la pace, poiché la complessità del nostro mondo ci chiede di recuperare quella profondità per il cammino di conversione necessario e per aiutarci ad uscire dalla cultura dello scarto, dall’indifferenza, dalle paure per pervenire ad una dimensione più umana e umanizzante.
Il filo conduttore della pace come pienezza di rapporti (shalom) ci chiede di mettere la comunione al primo posto: essere in Cristo nostra pace in comunione con le altre tre dimensioni, con se stessi, con gli altri, con il creato, accogliendo la diversità propria del progetto del Creatore. Per poter assumere questa prospettiva P. Martín ha evidenziato il percorso per essere operatori di pace tracciato nelle beatitudini, completandolo con la disamina dal punto di vista sociale attraverso il Magistero dei Papi.
Se non riconosco la mia povertà e debolezza non sono pronto per essere operatore di pace; sperimentando la consolazione di Dio mi rendo conto del dolore relazionale e sono portato alla mitezza non perché i problemi sono scomparsi, ma li vivo con Dio; ne consegue che avremo sempre bisogno di giustizia e sentendo la misericordia di Dio, scopriremo di avere un cuore da purificare. Il vero combattimento per la pace parte dal nostro cuore: essere puri di cuore significa vedere Dio.
Una volta fatto questo percorso siamo già attivi, ha sottolineato P. Carbajo, come operatori di pace e anche quando ci insulteranno non perderemo la pace. “La pace non è il monopolio del potere, non è l’equilibrio del terrore, non è la pace apparente. È la pace escatologica, opera della giustizia, della verità, della libertà, dell’amore”. È dinamismo continuo, dono del Risorto e compimento permanente. La pace è un dovere personale, sociale e politico. Operare la pace è essere figli di Dio (non soltanto fare un’opera buona): l’operatore di pace si pone “in mezzo” rischiando la vita come Cristo.
La conclusione, portando al cuore l’esperienza di S. Francesco, ci ha ancorati infine all’incontrare Cristo nostra pace e con Lui trovare le vie per essere operatori di pace oggi, custodendo la nostra creaturalità (per la relazione di P. Carbajo si rimanda alla pubblicazione nel prossimo numero). S. Francesco, umile fratello universale, è modello di pace e accoglie ogni essere come regalo divino. Al riguardo alcuni episodi profondamente evocativi, quali il lupo di Gubbio, l’abbraccio al lebbroso, l’incontro col sultano, ci richiamano al fatto che non c’è pace senza un’ospitalità incondizionata; non c’è pace senza quell’amore teologale che porta a “sentire com-passione” e a “mettersi in mezzo” per la pace. Umile e disarmato con fede e speranza Francesco avanza nell’incontro della diversità senza paure e senza rinunciare alla propria fede nel rispetto di ogni altro. E ci dice che non c’è pace se non c’è impegno per trovare le cause della “non pace” e per trovare vie di risoluzione agibili nella reciprocità.
La Scuola di Pace nel suo insieme è divenuta così una interpellanza accorata a progredire nell’obbedienza della pace maturando una fede che sappia sempre più abbracciare la complessità, accogliendo il pressante invito a ricostruire la grammatica della convivenza umana nella ricchezza della pluriformità.
A cura della Redazione