Mauro Magatti

magattiMancano pochi giorni al family day. Come già accaduto in passato, la presenza organizzata del mondo cattolico è in grado di porre questioni che altrove non assumono uguale rilevanza. Per alcuni è segno di ritardo culturale. Ma forse non è un male che su temi così scottanti il Paese discuta a lungo e accanitamente. Tenuto conto delle tendenze che si registrano nel contesto internazionale, gli organizzatori faranno bene a calibrare con cura gli obiettivi della manifestazione. Visti gli umori del Parlamento, può essere che la stepchild adoption sia stralciata dalla legge in approvazione. Ma, come accadde con i Dico, anche un successo può rivelarsi una vittoria di Pirro, il dibattito non è destinato a concludersi tra qualche giorno.
Il problema allora non è la prova di forza. La piega culturale oggi prevalente nei Paesi avanzati è affare molto serio e contrastarne le possibili derive richiederà un paziente lavoro. Che, prima che nella legislazione, si gioca ogni giorno nella vita delle persone e delle comunità. In fondo, chi difende la famiglia ha prima di tutto la responsabilità di farla esistere e di farla bella. Il successo della manifestazione non si misurerà allora dai suoi effetti di breve termine. Ma dalla sua capacità di spiegare ragioni e porre questioni. Che non interessano solo i cattolici.
La prima: si può ragionevolmente liquidare, come sta tentando di fare l’Occidente, la distintività della famiglia eterosessuale? Il rispetto della differenza è altra cosa dal regime dell’equivalenza. Ciò che contraddistingue la famiglia è l’essere costituita da un doppio legame – tra i generi e tra le generazioni – che riconosce e struttura due differenze – negoziabili e flessibili finché si vuole – ma originarie. Non c’entra nulla la morale. Né si tratta di dire che la famigila eterosessuale è buona di per sé (basti pensare ai problemi legati al paternalismo, al maschilismo, alla violenza) o che nessuna altra forma di unione sia ammissibile.
Piuttosto, ciò che deve far riflettere è che a orientare cambiamenti in corso vi è una concezione radicale dell’individuo, che riporta la differenza solo a se stesso. Ad esempio, anche in Italia si cominciano ad introdurre denominazioni neutre del tipo «genitore 1» e «genitore 2». Possiamo considerare irrilevante una tale perdita di varietà simbolica? Non sarebbe forse questa la vittoria finale di un tecnocapitalismo in grado di fare dell’individuo astratto e manipolabile il suo stesso prodotto? E non è forse la stessa imposizione del neutro una violenza simbolica sulla varietà delle differenze?
La seconda: la società contemporanea sta rapidamente attraversando soglie antropologicamente importanti, spinta dalla combinazione tra nuovi orientamenti culturali e innovazioni tecniche, il diritto interviene sostanzialmente assecondando tale processo. Ma, siamo sicuri di riuscire poi a governare il processo che abbiamo avviato?
L’esito finale, per il momento ancora lontano, ma non più inconcepibile, non è forse il superamento della riproduzione sessuale? Possiamo accettare di andare in quella direzione? Ciò pone la questione del limite: dove metterlo è tema di discussione. E non è cosa facile. Ma non si può tacciare chi ne ricorda la necessità di essere illiberale. Come riusciremo a porne uno, se è il limite in quanto tale che fa problema? Non è che la società liberale si trova dentro un circolo vizioso per cui il possibile diventa di per sé legittimo, anzi doveroso, a prescindere da qualsiasi altra considerazione? E ha una qualche importanza chiedersi se non ci siano interessi (economici e in un futuro non lontano anche politici) che spingono in questa direzione?
Queste domande ci accompagneranno nei prossimi anni. E su di esse dovremo tutti tornare. Ancora e ancora. Alla ricerca di un equilibrio tra esigenze diverse e ugualmente rilevanti. Ma c’è un aspetto su cui vorrei concludere: tra i difensori della famiglia tradizionale e i suoi detrattori c’è un grande spazio per chi pensa che la famiglia potrà avere ancora moltissimo da dire se saprà rinnovarsi, includendo elementi che la cultura ha nel corso degli anni acquisito. La famiglia migliore dobbiamo ancora vederla.

(Da Corriere della Sera – 21 genn. 2016)