PREMESSA
Di fronte al problema economico attuale i politici trattano di armonizzare e combinare il rilancio economico e l’austerità. Esempio chiaro si trova nel vertice G8/G20 di Toronto del giugno 2010. La cancelliera tedesca Angela Merkel sosteneva una politica energetica di rigore e di austerità. Il presidente americano Barak Obama, per paura di soffocare la timida ripresa dell’economia mondiale e statunitense con una politica deflazionista, era invece partigiano di un rilancio ragionevole. L’accordo finale è stato raggiunto su una sintesi zoppa: ripresa controllata nel rigore e austerità temperata dal rilancio. Attualmente per i governi in carica lo slogan “sia rilancio sia austerità” significa il rilancio per il capitale e l’austerità per tutti gli altri. Si assiste addirittura ad una strana concorrenza nella corsa all’austerità. Ma non si tratta di quella austerità virtuosa evangelica e francescana che noi preferiamo chiamare frugalità, bensì di una austerità che priva non soltanto di superfluo ma anche di una parte sempre più grande del necessario. Per la spiritualità francescana il fondamento della austerità è l’amicizia e quella della frugalità è la libertà.
L’austerità e la frugalità fanno parte di una virtù più fragile, che la supera e la include cioè della gioia. La questione della austerità e della frugalità non è soltanto economica e sociale, è addirittura antropologica ed esistenziale. L’uomo, nel mondo, necessita di molte cose. Ma questo suo aver bisogno delle cose e servirsi di esse non deve ipo tecare la sua personalità, né soffocare la sua libertà. Se de sidera realizzarsi come progetto e come vocazione, deve ri cercare la libertà interiore, davanti alla brama di possedere e consumare. Sulle basi di una teoria economica, pianificata come scienza necessaria e difesa dalla maggioranza, si è imposta alla volontà la consegna di produrre di più per consumare di più, e consumare di più perché la produzione non si fer mi ma aumenti. Occorre consumare per produrre, e perché il consumo non si arresti, va stimolato con una pubblicità atta a creare nel consumatore esigenze che vanno oltre il li vello del suo soddisfacimento.
Desideriamo costantemente di avere di più e non appena si soddisfano alcuni bisogni, se ne stimolano e creano dei nuovi. Nella misura in cui si soddisfano i bisogni stimolati, vengono create e lanciate altre ispirazioni sullo stesso piano di vita, incrementando l’ansia di star bene e i desideri di una vita confortevole. Nella società del benessere e nei suoi promotori econo mici si suppone che un benessere maggiore procuri una maggiore felicità, e che la possibilità di consumare sia indi ce evidente di riuscita nella vita, e quindi un indicatore di intelligenza. Gli sforzi nobili dell’uomo tesi a superare la miseria, la povertà e le tante limitazioni materiali del passato, si sono trasformati in una spirale senza limiti di bisogni da parte dei consumatori e di stimoli da parte dei produttori e degli agenti pubblicitari e propagandisti. E tuttavia si è constata to ripetutamente che, oltre ai bisogni economici primari, esistono anche desideri secondari e terziari che i beni di con sumo non sono in grado di soddisfare. Nella scala della feli cità non sempre sono più felici coloro che più posseggono e più consumano. Il «malessere del benessere» è un dato evi dente. Anzi proprio tra le classi più assuefatte al consumi smo è andato crescendo un senso spiccato di noia, tedio, stanchezza di vivere.
UN’ECONOMIA DI PRODUZIONE E DI CONSUMO
1. Le società moderne supersviluppate poggiano su un’e conomia di produzione e di consumo che ingenera una visio ne particolare del mondo e della vita e una particolare psico logia. Ci alimentiamo di tutto senza interessarci di che cosa. Interessa solo l’avere nuove sensazioni e soddisfazioni. Il consumismo si è trasformato in stile di vita, in avventura frenetica e in sete insaziabile di divorare checchessia: cose, oggetti, persone, valori, libri, tempo, idee, immagini, manie. Gli stessi sistemi del pensiero e dell’azione non sfuggo no a questa cultura del momento. L’uomo della società svi luppata, fustigato dalla pubblicità, è un essere che consuma sempre più e sempre più rapidamente, senza capacità di go dimento. Assomiglia al ciurlo di cui parlava Platone nel Gorgia, che vomitava tutto quel che mangiava. E assieme alle cose e agli oggetti si consuma la stessa vita.
Quando Max Stirner, in L’unico e la sua proprietà, si preoccupava di conservare «il go dimento dell’io», cercava di «servirsi della vita, ossia di gu starla. Ma in che modo? Usandola, come una candela che si consuma con l’uso. Si usa la vita e se stessi consumandola e consumandosi. Godere la vita è divorarla e distruggerla». Ma in questo modo i grandi valori dell’uomo si cosificano e finiscono per diventare puri oggetti d’uso e di abuso. La grande inquietudine del consumista non è di vivere la vi ta, ma di goderla e approfittarne. Egli non vive il progetto della possibilità esistenziale, ma del come mettere a propria disposizione tutte le cose e oggetti possibili per possederli e goderne. Nella metafisica del mercato esiste realmente solo ciò che si può comperare e vendere; e quanto più denaro si guada gna, tanto maggiormente si vive. Ridotta a merce, ogni cosa viene interpretata e valutata con criteri commerciali, secon do la logica dello scambio e della vendita. In questo mondo di progresso tecnico si vive l’assenza di una libertà comoda e ragionevole. In altre parole, si vive soavemente e pacifica mente una schiavitù sublimata. La coscienza è felice perché i sensi vengono soddisfatti e gli egoismi saziati.
Ai livelli alti del benessere «la comunità è troppo soddisfatta per preoccuparsi », come diceva J. K. Galbraith nel suo libro Capitalismo americano, e accettare il rischio di una coscienza trascendente e di una cultura dell’ascesi. Il consumismo, creando una cultura dell’esperienza sensi bile immediata e del godimento istantaneo, favorisce una psicologia da fast food, o del consumo rapido, che incide nei rapporti dell’uomo con le cose, anzi nel suo stesso modo di autointerpretarsi e valutarsi come persona. Spesso quan to meno si è persona, tanto più si ha bisogno di possedere e ostentare che si possiede, per tappare e supplire i limiti e le carenze personali.
UN CONSUMISMO DIVORANTE
2. L’atteggiamento tipico del consumista è di divorare tutto il possibile nella misura possibile. Il consumista in controllato è come il bambino capriccioso che pretende in cessantemente il biberon. Lo si vede manifestamente nei casi patologici, come l’alcoolismo e la droga, che creano dipen denza. Ma si manifesta pure in varie altre forme di consu mo: televisione, viaggi, vetture, sesso, ecc. Consumare di venta uno stile di vita che esige di avere, e sfocia in una maniera di essere. Sono ciò che consumo e consumo quanto ho. L’uomo necessariamente possiede qualcosa: la coscienza, le idee, i propositi, i vestiti, la casa, ecc. Per questo non si deve contrapporre esageratamente l’essere all’avere, visto che ogni essere esige inevitabilmente i propri averi. Il pro blema nasce quando l’avere divora l’essere, lo offusca e lo snatura. Fuori del problema metafisico dell’essere e dell’a vere, quali forme di esistenza e quali categorie ontologiche e assiologiche della vita, occorre sottolineare che l’uomo è un progetto che si realizza attraverso mezzi e circostanze condi zionanti.
Il disordine e la sventura sopraggiungono quando i mezzi soppiantano e sostituiscono i fini. L’esistenza umana non si sazia nel dualismo tra essere e avere, bensì nella triade essere-avere-usare (consumare). Può quindi succedere che uno viva l’avere in modo accumulativo, senza consumi, come nel caso dell’avaro. Il consu mare può creare una psicologia di fruizione o piacere pun tuale e istantaneo, senza sguardo sul futuro. Il consumo condiziona in tal caso tutto l’essere, creando un particolare rapporto tra l’uomo e le cose od oggetti consumati o da con sumare. Il consumista cerca di soddisfare illimitatamente i propri desideri. Si è davanti a un’etica, se così si può ancora chiamare, del benessere, che non coincide necessariamente con la via della felicità e neppure del massimo godimento. Nella prospettiva consumista, l’acquistare, il possedere e il godere costituiscono i diritti umani inalienabili; non ci si preoccupa del come, dove e quando conseguirli e praticarli. L’uomo diventa ciò a cui si dedica e che motiva la sua con dotta e giustifica il suo comportamento. Lo spirito consumista cosifica i rapporti con gli altri uo mini e con le cose. Si passa da una soggettività vissuta a un’oggettivazione sentita e desiderata.
Il corpo non è più il cor po-soggetto ma il corpo-oggetto; e la vita si chiude alla pro pria fondamentale disponibilità e creatività per trasformarsi in un susseguirsi di sensazioni e di esperienze temporali e im mediate. Bisogna riconoscere e denunciare simile atteggiamento come un pericolo e una minaccia permanente di nichilismo e annullamento del senso di vivere, come un addormentamento del dinamismo profondo dello spirito che rende incapaci di vedere, scoprire e vivere i grandi valori trascendenti del l’esistenza. Fondamentalmente l’uomo è desiderio di essere e porta in se stesso un anelito di trascendenza. Se identifica la sua vita con ciò che ha, possiede e consuma, svuota il proprio mistero ontologico e si riduce a un animale in preda ai desideri e senza densità metafisica.
ASCESI E RINUNCIA PER L’UMANIZZAZIONE E LA LIBERTÀ DELL’UOMO
3. Per lo spirito consumista non hanno senso l’ascesi e la rinuncia. Incapace di comprenderle e di praticarle, si oppo ne ad esse come a dei fantasmi letali. Tuttavia le religioni, non meno dei grandi sistemi etici, hanno sempre difeso la necessità dell’ascesi e della rinuncia, quali mezzi necessari e convenienti per l’umanizzazione e la libertà dell’uomo. Nelle grandi religioni la pratica dell’ascesi è evidente. Ma essa si manifesta pure nei movimenti culturali animati da un’etica o da una mistica, come stanno a testimoniare i pita gorici, la scuola di Platone e gli stoici, che difendevano un’ascesi e una rinuncia di carattere religioso. È pure esistita un’ascesi di carattere razionale e pratico, com’è dato vedere nella scuola fondata dall’ateniese Antistene, e che ha avuto il suo rappresentante migliore in Diogene. Per questi filosofi cinici solo una cosa era importante: la felicità interiore, da conseguire attraverso una grande indifferenza a tutto ciò che non era la virtù morale.
La libertà era solo conseguibile attraverso l’autarchia, o indipendenza da ogni realtà circo stante. Il vangelo di Gesù Cristo invita costantemente a vivere e a esercitare la libertà interiore davanti al possesso e al consu mo. A colui che si ispira al vangelo e desidera vivere nel suo spirito non viene imposta una rinuncia radicale al possedere e al consumare; viene tuttavia presentata e proposta, indub biamente, l’opportunità di praticare in concreto la rinuncia e l’ascesi, a beneficio della libertà propria e altrui. Alla società attuale, produttivista e consumista, il vangelo presenta il suo messaggio sul valore dell’uomo e dell’u mana libertà. Il messaggio di Gesù smaschera la tesi che il consumismo e il benessere siano le basi di una profonda e vera felicità. Alla sua luce si può valutare meglio questo no stro continuo affannarci, questo nostro desiderio di posse dere sempre più, questa nostra febbre spietata di prestigio e di concorrenza, questo nostro culto del superfluo e ansia di consumare. La «forza dello spirito» è la grande libertà inte riore davanti alle cose e agli oggetti, e allo stesso tempo con ferisce a chi la possiede una semplicità vitale che lo aiuta a comportarsi saggiamente nella vita quotidiana e a scoprire valori non oggettivabili né inventariabili, e tuttavia capaci di apportare una gioia e una felicità ben maggiore di tutti gli oggetti tattili e le sensazioni corporee.
L’ascesi e la rinuncia evangelica non sono animate da una visione negativa della vita e del mondo, ma sono mezzi convenienti e utili per difendere la libertà davanti ai falsi idoli di questo mondo: denaro, potere, prestigio, sesso, pia cere. Il possesso, lo sviluppo e il consumo non sono fini a sé. Non l’uomo deve vivere per loro, ma loro sono per l’uomo. Inoltre, quando si scopre la gratuità della vita e di tutti i be ni che essa possiede, si acquisisce il senso della partecipazio ne, della comunicazione e della distribuzione. L’egoismo viene spiazzato dal senso comunitario, e ogni cosa può tra sformarsi in mezzo di promozione e incremento della gran de famiglia umana. Un consumismo non dominato e non razionalizzato di venta facilmente un despota o un dolce tiranno che distrug ge la libertà personale e la comunicabilità gioiosa tra perso ne. Il soggetto si trasforma in oggetto e il consumatore è ri dotto a un fattore di consumo e di sciupio, alienato e sperso nalizzato. Davanti a questa realtà, tanto negativa e disuma nizzante, il vangelo offre una risposta e un modo di essere e di trattare con le cose, perché l’uomo si assuma le proprie responsabilità e acquisisca la sua necessaria libertà.
FRANCESCO D’ASSISI: LA FORZA DELLA POVERTÀ
4. Francesco d’Assisi, uomo evangelico e seguace di Cristo, ha compendiato e incarnato i grandi valori evangelici, dominando quanto lo poteva separare dall’ideale prediletto. La sua opzione radicale per il vangelo ha messo in crisi tutte le realtà materiali, psicologiche e affettive che potevano es sergli di inciampo nella conquista del regno di Dio. Quando il giovane atleta di Cristo si spoglia dei vestiti da vanti al vescovo di Assisi e agli occhi attoniti dei presenti, ha già maturato nel suo intimo un cambiamento radicale da vanti alle cose e alla vita. Il suo biografo Tommaso da Cela no commenta il fatto laconicamente: «Si lancia nudo nella lotta contro il nemico nudo» (1C, 15). Non è facile spogliarsi di ciò che si ritiene e si interpreta normalmente come necessario. Ma in questo spogliarsi egli trova la protezione e scopre il senso pieno della sua vita: Padre nostro che sei nei cieli. A partire dall’esperienza di questo cielo, abitato dall’infinito amore, egli si denuda di tutte le cose materiali, che coprono spesso egoismi distruttivi e dipendenze paralizzanti.
Francesco sceglie la povertà per imitare Cristo e come modo concreto e specifico di vivere il vangelo. Ma il fatto denota anche uno stile di rapportarsi alle cose e di essere nel mondo. Pur non disprezzando nulla, è prevenuto non per le cose in se stesse, ma per il proprio atteggiamento davanti al le cose, perché non gli capiti di sostituire i fini con i mezzi. Appassionato di Dio, Francesco ama tutte le cose, vive con esse e canta attraverso esse. Ma ha assoggettato nel massimo grado l’istinto di possedere, dominare e consumare. Intuisce perfettamente che il consumo abusivo costituisce una sorta di accecamento della mente, che porta a una perversione della volontà. Non ha bisogno di consumare le cose o divo rare oggetti per poter godere. Libero da ogni possesso mate riale, psicologico, mentale e affettivo, può godere intensa mente di tutta la creazione. Uomo rinnovato, semplice e limpido nello spirito, va alle cose senza ansia alcuna di accu mulare o consumare, con spirito di servizio, di rispetto e di comunicazione.
L’unico possesso che il Poverello accetta è quello della propria negatività; cioè egli accetta le proprie debolezze, smacchi e peccati (1R, 17, 7). E li accetta non con amarezza o pessimi smo, ma con urgenza di realismo che debella ogni narcisismo e porta a un’umiltà gioiosa e saggia. La povertà di Francesco non presenta nessuna tonalità amara, aggressiva o rivendicativa del bambino viziato, ma è umiltà e gioia: «Madonna santa povertà, il Signore ti salvi con la tua sorel la, la santa umiltà!» (LdV, 2). La povertà possiede una grande forza antropologica e terapeutica: «La santa povertà confonde la cupidigia, l’avarizia e le preoccupazioni di questo mondo» (LdV, 11), e sa rendere a ciascuno il suo e restituire a Dio i beni che gli appartengono. La povertà deve estendersi non solo alla di mensione economica, ma anche a quella antropologica e psicologica. Per questo la rinuncia si impone sia davanti alle cose materiali sia, ancor più, davanti agli atteggiamenti voli tivi e affettivi (1R 1, 3- 5; 2R 10,2). Francesco è un appassionato della libertà. Tutta la sua attività e il suo atteggiamento umano, come tutte le realtà intramondane, devono venire interpretate e assunte da que sto principio orientatore.
La libertà è un progetto che diffi cilmente si realizza senza un processo arduo di liberazione. Lo spirito di Francesco viene accolto appieno da Jacopone da Todi, il poeta della libertà del povero. Egli scrive nelle Laude: «Povertate è nulla avere / nulla cosa poi volere / et onne cosa possedere / en spirito de libertade». E fra Egidio, compa gno di Francesco, nei I Detti, lo esprime nei termini seguenti: «Aquila che vola altissima, se portasse legata a un’ala una delle travi della chiesa di San Pietro, non salirebbe tanto in alto». Nella difesa della libertà umana e della conquista dello spirito evangelico bisogna ascoltare e lodare il senso di rinuncia e di ascesi che troviamo negli scritti di Francesco e nei suoi se guaci. Il distacco francescano dalle cose non è dovuto a nessun disprezzo o indifferenza stoica nei loro confronti, bensì all’apprezzamento e valorizzazione che si dà all’assoluto, che è Dio.
L’ascesi e la rinuncia comandate da Francesco sono sempre rette dalla moderazione e dalla libera responsabilità del singolo, come ben si può vedere nelle espressioni che ac compagnano le urgenze della mortificazione: «con la bene dizione di Dio» (1R 2, 14), «secondo la grazia che dà loro il Signo re» (IR 9, 20; 11, 1), «nel modo che ti sembra meglio» (LfL), «secondo la divi na ispirazione» (1R 2, 1; 2R 2, 9), ecc. L’ascesi e la rinuncia non sono attività finalizzate a se stesse, ma riferite a Dio e all’ideale evangelico, e destinate ad aprire il cammino che porta alla libertà personale e cri stiana. L’ascesi e la rinuncia francescane sono piene di fidu cia, di gioia e di speranza, perché alla fine di ogni rinuncia non c’è il vuoto o l’amarezza del nulla, ma la grande pro messa del Regno e la realizzazione della perfetta esistenza. La scelta di un modo concreto di vita condiziona necessa riamente il modo di avere e di operare, e lo stile di vita. La scelta dell’essenziale esige che si rinunci a ciò che non è so stanziale, vano e pericoloso; e viene compiuta a partire dal l’orizzonte della gioia per il fatto che l’intera esistenza viene interpretata come dono e come grazia. La rinuncia e l’ascesi francescane non provengono da stanchezza di vivere né da alcun pessimismo esistenziale, an zi sgorgano dalla voglia di vivere e dalla gioia di esistere.
Opportunamente osserva P. Prini, ne La scelta di essere, che «l’ascetismo france scano è un ascetismo eudemonico. È l’ascetismo della per fetta letizia». Si tratta di un’ascesi praticata a partire dalla gioia e dalla voglia di vivere, non dalla tristezza e dalla noia. La prassi francescana della rinuncia e della povertà come opzione di vita contesta profeticamente il pragmatismo economico e lo spirito borghese. Accentuando il primato dell’essere sull’a vere e sul fare si pone in atteggiamento frontale davanti alla società consumista e produttivista. La povertà vissuta da Francesco non è decadimento nella miseria, né cedimento a uno spirito incerto e pigro. È la lode incontenibile dell’altissima dignità dell’uomo che ha superato la cosificazione e si è incontrato con la pienezza di un’esistenza realizzata in Dio, creatore dell’universo. La gioia cantata e vissuta da Francesco e accompagnata da un’ascesi liberante e umanizzante non è una semplice esortazione morale o un’espressione ludica banale, bensì la dimostrazione di quello straordinario risultato ontologico al quale hanno mirato e preteso di arrivare le filosofie di ogni tempo: la verità dell’essere uomini. Una verità che si mani festa nella trasparenza dell’essere al di sopra e al di là dell’a vere, del consumare e del fare. In questo modo l’uomo raggiunge il suo giusto e vero posto nel mondo.
PER UNA NUOVA CULTURA
5. Per la creazione di una nuova cultura basata sul rapporto trasparente e rispettoso dell’uomo con la natura e con le cose, l’ascesi costituisce un mezzo necessario, teso a libera re dalle ambizioni inutili. Il nostro tempo richiede una gran de lucidità mentale e un grande coraggio della volontà: lucidità per liberarsi dalla confusione e da forme etiche distruttrici, e audacia per affrontare l’accidia e spezzare ogni forma paralizzante del possedere e del consumare. Lo spogliarsi li beramente dei beni desta l’uomo alla disponibilità. I più ge nerosi sono i più disponibili, mentre chi più ha da perdere non rischia ma si difende e trincera dietro sicurezze fragili. Con ironia e humor Péguy, non ancora ventenne, affermava che l’anticristo del mondo moderno non sono i libri di pornografia, che non sono abbastanza perversi, ma i libretti della Cassa di Risparmio che si presentano ai bambini assie me a una mistica dell’economia che crea una morale malata. Una visione della vita che si basi sulla sola economia e sulla forza del possedere e del disporre rende lo spirito incapace di vedere e scoprire i valori gratuiti: la vita, l’amicizia, l’af fettività, la bellezza, il godimento estetico, l’armonia spiri tuale, la generosità e il sacrificio.
Bisogna superare il falso pregiudizio di pensare che non avere nulla sia essere nulla, come diceva G. Marcel. San Giovanni della Croce con il suo nada, nada, nada (niente, niente, niente) e Francesco d’Assisi con la sua povertà ra dicale lo smentiscono, e ci fanno scoprire la possibilità di godere di un universo infinitamente più vasto, profondo e suggestivo. Il desiderio disordinato di consumare e trangugiare inutilmente dovrebbe venir sostituito da un’etica della frugali tà. Questa morale della moderazione può correggere la de formazione spirituale dell’esigenza del superfluo come dirit to di esistere. La frugalità e la moderazione nell’uso e nelle sue pretese abituali può correggere le forme abusive dell’a vere e del consumare, a favore dell’essere e del condividere. Il principio tanto diffuso dell’«usa e getta» andrebbe so stituito con il principio saggio di potere e saper godere delle piccole realtà della vita quotidiana e di non lasciarsi traspor tare dalla moda di un consumismo distruttivo. Per questo bisogna scoprire i valori gratuiti, anche se difficili, della li bertà, dell’autodominio, della gioia e della celebrazione del la vita come grande sacramento gratuito e come orizzonte delle migliori possibilità dell’uomo. Il «beati i poveri di spi rito» del vangelo continua a porsi come grande ideale umano, che pochi hanno avuto il coraggio e la fortuna di sperimentare. E in questa avventura dell’essere e dell’essere felici, Francesco d’Assisi continua a essere un paradigma e un centro di rife rimento per chiunque voglia scommettere sui veri valori e sulle autentiche gioie della vita.
José Antonio Merino
Pontificia Università Antonianum