La fraternità chiave della pace secondo “Fratelli tutti”

Stefania Falasca *

Il Ciclo “Il tempo della cura. Vivere con sobrietà, giustizia, fraternità”, promosso dalla Fraternità Francescana Frate Jacopa e dalla Parrocchia S. Maria Annunziata di Fossolo, si è concluso domenica 30 maggio 2021 sul tema “Il viaggio di Papa Francesco. Il cammino della fraternità e dell’amicizia sociale” con l’apporto della Dott.ssa Stefania Falasca, vaticanista e editorialista di Avvenire inviata in Iraq, coautrice del libro “Le chiavi della pace” – Il Viaggio di Francesco nella terra di Abramo – Ed. Il Dialogo.
Argia Passoni e Don Stefano Culiersi hanno aperto l’incontro sottolineando l’importanza di cogliere il senso del viaggio profetico che Papa Francesco ha voluto compiere in quella terra, culla dell’umanità e memoria delle fedi, per portare in luce da quel luogo martoriato come l’unica risposta capace di superare “i mali e le ombre di un mondo chiuso” sia la fraternità.
La riflessione della Dott.ssa Falasca, proposta con l’intensità del testimone e la profondità di cultore straordinario del Magistero di Papa Francesco, ha messo in luce la filigrana preziosa e gravida di futuro dell’evento, portando in evidenza il senso e il significato di quello che è ormai definito “il viaggio dei viaggi”. Un viaggio intrapreso dal Papa per farsi prossimo a quei paesi devastati e farsi prossimo a tutta l’umanità, a cui ha indicato l’unica via, la fraternità, chiamando, dal luogo dove è iniziata la storia della salvezza, a riconoscere la comune appartenenza e a mettere in atto le risorse del dialogo interreligioso, indispensabile a radicare il futuro nella fraternità.
Siamo stati accompagnati così a seguire le varie tappe del viaggio e aiutati a comprendere cosa implica dare concretezza all’enciclica “Fratelli tutti” e come tutto questo richiami la nostra responsabilità di conversione e missione.
Un breve filmato introduttivo ha aiutato ad entrare nella realtà del Viaggio. Il video, composto da alcune suggestive foto, accompagnate dal canto del Padre Nostro in aramaico, ha riportato al cuore con la musica e la preghiera la parola parlata dalla prima comunità cristiana in Iraq, risalente ai primi tempi dell’epoca apostolica.
Per condividere con i lettori del Cantico la possibilità di seguire il percorso offerto, pubblichiamo nelle pagine a seguire la trascrizione integrale di quanto Stefania Falasca ci ha donato. Ricordiamo inoltre che è possibile rivedere il video dell’incontro sulla pagina youtube fraternità francescana fratejacopa e sulla pagina fb di S. Maria Annunziata di Fossolo.

 

 

1. IL VIAGGIO DEI VIAGGI
Sono ormai trascorsi alcuni mesi dal viaggio del Papa ma nei gesti e nelle parole di quella visita apostolica, guardati in una prospettiva storica, credo si possa cogliere oggi con più evidenza la filigrana preziosa e gravida di futuro che l’ha attraversata, unendola al tempo che la precede e a quello che verrà.
In quella trasferta di pochi giorni il Vescovo di Roma è andato nella terra di Abramo, nel luogo della nascita delle civiltà, il luogo esatto dove è iniziata la storia della salvezza, la terra del fiume Tigri e dell’Eufrate, il luogo dove Dio ha parlato, ha chiamato e ha scelto un arameo errante “Abramo” e lì ha voluto l’inizio della storia della salvezza.
Una terra che, proprio per quella presenza delle comunità cristiane, è una terra biblica, la Terra Santa del Patriarca Abramo, ma anche dei profeti Ezechiele e Giona, terra dove fu scritta parte della Bibbia e dove il popolo della promessa soffrì l’esilio babilonese. Un paese a maggioranza sciita, ma soprattutto un paese che ha vissuto quattro conflitti, quattro guerre in quarant’anni, ma anche un luogo dove l’inizio della salvezza si innesta con la violenza della guerra. Un luogo emblematico e significativo dove nasce la cultura, la civiltà, e dove al contempo nascono le fedi, le diverse fedi monoteiste (mussulmani, ebrei e cristiani).
Quindi la prima cosa da chiedersi di questo viaggio è il perché il Papa ha voluto andare per primo in questo luogo, anche in un momento cruciale, in un momento di crisi. È il primo viaggio che Lui fa nell’era pandemica, un viaggio che per molti aspetti è stato detto “il viaggio dei viaggi”, un viaggio certamente storico per le suggestioni, per l’importanza, per il significato che questo assume, e poi un luogo cerniera del Medio Oriente. Di portata storica è anche l’aver reso omaggio al grande Ayatollah Al Sistani, la guida spirituale dell’Islam sciita, e l’aver attraversato poi da pellegrino le terre ferite dalla guerra e dal terrore jahidista, confermando lì nella fede questi fratelli in Cristo di epoca apostolica. Da qui si coglie subito l’insieme di quello che è il significato di questo viaggio. Il Papa ha voluto costeggiare volutamente l’abisso anche del male che incombe sul mondo, proprio mentre ripete le parole di guarigione, di salvezza custodite dal popolo di Dio che in questo luogo ha avuto le prime radici lungo il cammino della storia.

2. IL LUOGO PIÙ VULNERABILE E RAPPRESENTATIVO DELLA CONDIZIONE DELL’UMANITÀ E DEL SUO FUTURO
Dopo il viaggio papale in Iraq, a mio avviso, come effetto collaterale, adesso risalta con più chiarezza anche l’intuizione che ha iniziato a prendere forma con il Documento di Abu-Dhabi sulla fratellanza umana, editando poi l’enciclica “Fratelli tutti”, un’intuizione del tempo presente che può sprigionare anche singolari riverberi di questo registro geopolitico, avendo a che fare anche con le convulsioni che da decenni stravolgono la vita del Medio Oriente e quindi di tutto il mondo. Trovo che il Papa abbia toccato proprio il luogo più vulnerabile e allo stesso tempo più rappresentativo della condizione del mondo di oggi, dell’umanità, del suo futuro. E da lì ha potuto lanciare dei messaggi ben precisi per scampare alla nostra autodistruzione e per dire quelle che sono le linee portanti per poter perseguire un mondo che sia dentro questo crinale e possa risorgere da questa crisi in una maniera diversa ancorandosi alle sue origini, che sono quelle della fraternità tra le fedi e che la pace è possibile solo attraverso il riconoscersi in maniera anche molto elementare figli di uno stesso Padre. Una fratellanza riconosciuta nel tratto elementare, che unisce tutti in un unico Padre e che cristiani e mussulmani propongono a tutti come contributo a una convivenza tra diversi che non deflagri in un conflitto o in terrore.
Ho pensato di darvi subito questa cornice, perché questo io l’ho compreso andando lì, attraversando questi luoghi emblematici, questi luoghi reali, e descrivendo quello che ho visto come “cronachista”, come Buzzati descriveva chi fa cronaca.
È interessante entrare nel merito proprio come chi è chiamato a descrivere soprattutto. Si è visto subito che il viaggio aveva due grandi linee, che voleva mostrarci. Nella prima arrivando a Bagdad – e anche dopo nella conferenza stampa – il Papa ci ha spiegato il perché di Bagdad e l’importanza di quel luogo di grande cultura millenaria, perché questo è l’Iraq, una terra – ha detto rivolgendosi ai giornalisti – che è stata nella storia una città di primaria importanza, che ha ospitato per secoli la Biblioteca più ricca del mondo. E chi l’ha distrutta? La guerra. Sempre la guerra è il mostro che col mutare delle epoche si trasforma e continua a divorare l’umanità. Qui a Bagdad, le radici religiose e culturali sono millenarie perché la Mesopotamia è culla della civiltà.

3. NELLA PIANA DI UR DOVE DIO HA CHIAMATO ABRAMO, PADRE DELLE DIVERSE FEDI
Il tempo di permanenza si è scandito in due parti. La prima parte del viaggio ci ha condotto a sud di Bagdad a 160 km nella piana di Ur dove il Papa ha tenuto l’incontro con le diverse fedi, proprio lì nella zona di Nassiria, un deserto sostanzialmente, zona di vento e di totale isolamento. Siamo arrivati in questa specie di altura dove la tradizione vuole che ci fosse la casa di Abramo. Lì, sullo sfondo dove è stata posta la tenda in cui si è svolto l’incontro, c’era la Ziggurat Sumera. Il luogo era molto suggestivo perché ci trovavamo sul luogo simbolico della civiltà dell’umanità e nello stesso tempo del Padre di molti, il Padre delle fedi abramitiche. Proprio lì il Papa ha fatto il discorso nel segno di Abramo “che sperò contro ogni speranza”. Qui il Papa ha detto che “non ci sarà pace finché gli altri non diventeranno per noi un noi” e che la prospettiva da seguire è proprio quella sulle orme di Abramo, che guardò il cielo e “guardando l’oltre di Dio ci rimanda all’altro, al fratello”.
Abramo camminò sulla terra in un cammino in uscita che ci fa comprendere che abbiamo bisogno gli uni degli altri, lo stesso a cui sono chiamati i credenti.
Il Papa ha ribadito questo aspetto: la via che il cielo indica al nostro cammino è la via della pace e ha ricordato tutte le ferite della terra, le sofferenze delle comunità perseguitate, ma soprattutto con chiarezza ha ribadito che l’ostilità, l’estremismo e la violenza non nascono da un animo religioso, anzi questi sono tradimenti della religione. Noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione, anzi sta a noi dissolvere con molta chiarezza questi fraintendimenti e non permettere che appunto si approprino dell’odio che non appartiene alle religioni. Un uso distorto e politico è quel far vedere le religioni come fonti di guerra invece che di pace, ma sempre subordinato all’interesse di sfruttamento economico e di commercio di armi.
Il Papa ci ha portato al luogo dove Dio ha chiamato Abramo. Dio non ha parlato in Occidente, Dio ha parlato in Oriente, in quel deserto ha chiamato Abramo. E quel luogo è il luogo che ha visto l’appuntamento del primo Papa nella storia che ha voluto chiamarsi Francesco, dove il Patriarca di molti unisce Ebrei, Cristiani e Mussulmani. Noi siamo frutto di quella chiamata, di quel viaggio e, come allora, siamo invitati come Abramo ad alzare lo sguardo per guardare anche la discendenza, quella che verrà oltre a noi, e per ricucire tutte le ferite che hanno segnato fratture nella storia millenaria delle convivenze. E Ur diventi così anche luogo di ripartenza di quello che noi oggi chiamiamo il dialogo interreligioso, ma che è profondamente cristiano e profondamente insito dentro le diverse fedi abramitiche. Ci ha riportato alle sorgenti, alla casa di Abramo e da lì ci ha fatto capire queste cose. Guardando il luogo dove eravamo, e la storia che questo significa e rappresenta, quelle parole del Papa hanno aperto come uno squarcio concreto e visibile, su quello che può essere un futuro da questa storia e da questa sorgente.
Dopo io ho avuto un’impressione molto forte, le immagini suggestive che ricordo come quelle di attraversare il Tigri all’alba dove si nota un colore particolare, pensare così anche a tutte le popolazioni che hanno attraversato questo fiume e alle guerre che hanno dovuto vedere scorrere.

4. A NAJAF L’INCONTRO CON L’AYATOLLAH ALSISTANI, LEADER SPIRITUALE SCIITA
Il giorno seguente il Papa si è recato ad un incontro privato con l’Ayatollah Al-Sistani, la guida religiosa più seguita ed autorevole dell’Islam sciita, cioè l’altra grande anima dell’Islamismo. Il Papa l’aveva incontrato in una forma importante e pubblica negli Emirati Arabi dove era andato ad Abu-Dhabi per firmare il Documento sulla fratellanza umana con il rappresentante del Grande Imam di Al-Azhar Al Tayyeb, grande autorità dell’Islam sunnita.
Dopo l’incontro con le diverse fedi religiose, a Najaf, la città sacra dell’Islam, c’è stato l’incontro a porte chiuse di Papa Francesco con il grande Ayatollah Alì Al-Sistani, leader spirituale sciita. Fuori delle vecchie mura di Najaf campeggiano lungo la strada i poster di Papa Francesco con l’Ayatollah Alì Al-Sistani. Il Papa è arrivato al mattino presto alla città sacra dello sciismo mondiale a sud di Bagdad sorvolando l’altopiano del Wadi al Salam che accoglie l’immensa schiera delle tombe dei profeti e dei fedeli.
Papa Francesco ha incontrato Al-Sistani nella sua casa accanto alla Moschea dell’Imam Alì, che è considerato il terzo luogo santo dell’Islam dopo la Mecca e Medina. Il Papa è sceso dalla macchina e ha percorso a piedi uno stretto vicolo per incontrare Al Sistani. Al- Sistani (anziano, ultra novantenne) l’ha accolto in piedi, in segno di reverenza. L’incontro privato con il leader spirituale alla guida della Hawza (il loro Seminario) di Najaf è durato cinquantacinque minuti.
Un gesto che, proprio per essere compiuto dal Papa in questo luogo sacro agli sciiti, è stato un gesto storico che ridisegna anche i rapporti all’interno dell’Islam perché, andando nella città sacra dello sciismo mondiale, la città dove è sepolto l’Imam Alì, il Papa ha incontrato una comunità. È andato Lui lì. Questo ricorda S. Francesco che è andato lui dal sultano a Damietta. Il Papa è andato in questa forma dimessa incontrando una comunità come fatto di fede. Najaf per gli sciiti ha il significato di quello che è Gerusalemme per la cristianità. Che cosa ha detto in questo incontro?
Qui il Papa è voluto andare dopo l’incontro con le diverse fedi religiose, che inquadra anche questo incontro a porte chiuse di Francesco con l’Ayatollah.
Noi giornalisti abbiamo visto soprattutto le immagini del rispetto reciproco, di questo dialogo, di questo modo molto umano di incontrarsi assieme a questa comunità. Una intensità di rapporti con un uomo che il Papa ha chiamato “un uomo di Dio”.
È stato un incontro di grande importanza per l’amicizia e il modo molto umano di rapportarsi fra le comunità religiose perché, coltivando il rispetto reciproco e il dialogo, si possa contribuire al bene dell’Iraq, della regione e dell’intera umanità.
L’incontro è stato l’occasione per il Papa di ringraziare il grande Ayatollah Al- Sistani perché assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza e alle grandi difficoltà degli anni scorsi, ha levato la sua voce in difesa dei più deboli e perseguitati, affermando la sacralità della vita umana e l’importanza dell’unità del popolo iracheno. Nel congedarsi da Al- Sistani il Santo Padre ha ribadito la sua preghiera a Dio creatore di tutti per un futuro di pace e fraternità per l’amata terra irachena, per il Medio Oriente e per il mondo intero.
L’incontro di Papa Francesco con la figura chiave dell’Islam sciita è incontro paragonabile per intensità e potenziali conseguenze, a quelli che finora hanno visto riunire Papa Francesco con altri esponenti dell’Islam sunnita, in primis con l’egiziano Ahmad al Tayyeb, grande Imam di Al Azhar. Per i responsabili delle comunità cristiane irachene questo è uno dei momenti più alti del viaggio apostolico in Iraq.

5. VOI SIETE UNA PARTE DI NOI E NOI UNA PARTE DI VOI
Lungo la strada c’erano tantissime immagini del Papa con Al-Sistani con la scritta: “Voi siete una parte di noi e noi una parte di voi”. È stato un incontro tra uomini spirituali che non parlano della grande politica, delle strategie ma che sono dei “fari per l’intera umanità”. Con questo gesto si può dire che anche concretamente il Papa ha fatto un altro passo ancora per avvicinarsi ai nostri fratelli mussulmani, nel senso di farsi quasi ponte anche tra le diverse anime dell’islamismo tra sciiti e sunniti.
Il leader sciita non è un politico, ma un uomo di fede che lavora per la fratellanza. Con questo gesto Papa Francesco ha detto un’altra cosa in più e di grande importanza: che il futuro della presenza dei cristiani martoriati di questa regione passa anche per la ricucitura del tessuto interetnico (in Iraq ci sono tante etnie diverse) e interreligioso, lacerato dai settarismi che non sono la vera fede. Se il nome di Dio strumentalizzato dai criminali nelle più irrefrenabili violenze, viene invece usato per fare unità, allora la ricucitura è possibile. Anche questo ha indicato la visita così privata e al tempo stesso così significativa di Papa Francesco con l’Ayattolah Al-Sistani.
Al-Sistani ha avuto sempre parole cordiali nei confronti dei cristiani, parole e iniziative che hanno scandito la sua intensa partecipazione ai dissesti degli ultimi decenni della storia irachena. Nel 2014 ha invitato gli iracheni ad unirsi per lottare contro il sedicente stato islamico. Nel gennaio 2019, ricevendo a Najaf i responsabili della Commissione d’indagine ONU sui crimini efferati dei Jahidisti del Daesh, l’Ayatollah Ali al Sistani ha raccomandato di indagare in particolare sui crimini efferati perpetrati dai miliziani jahidisti a danno di alcune componenti specifiche della società irachena, come i yazidi a Sinjar, i cristiani a Mosul e i turcomanni a Tal Afar. Quest’uomo, anche dopo l’intervento militare a guida statunitense che nel 2003 aveva abbattuto il regime, aveva richiamato tutti i mussulmani sciiti a tutelare e non maltrattare i membri delle comunità di fede minoritarie, compresi i cristiani, che non dovevano essere identificati come “quinte colonne” delle forze militari straniere.
Le comunità cristiane sono in questo paese fin dall’età apostolica e non possono essere considerate come dei militari. Nel 2005 cristiani iracheni espatriati negli Stati Uniti avevano lanciato la candidatura di Al-Sistani a Premio Nobel per la Pace, motivando la scelta per il fatto che Al- Sistani ha fornito ai mussulmani di tutto il mondo un buon esempio di come seguire modi pacifici per risolvere complesse sfide sociali e politiche che si devono affrontare, condannando il terrore.
Nel congedarsi dal Grande Ayatollah, Papa Francesco ha ribadito la sua preghiera a Dio, Creatore di tutti, per un futuro di pace e di fraternità per l’amata terra irachena, per il Medio Oriente e per il mondo intero. Questo è stato non solo un passo avanti ma anche un gesto di risanamento per l’intera umanità. Noi dobbiamo vedere i gesti del Papa in questa dimensione verticale e allo stesso tempo orizzontale, hanno tutti un grande significato e applicabilità per il mondo.

6. NELLA PIANA DI NINIVE: “MAI PIÙ LA GUERRA”
Da questi due grandi gesti compiuti con Al-Sistani nella piana di Ur, nella casa di Abramo, nel vento del deserto, il giorno dopo siamo andati nel nord dell’Iraq per incontrare le popolazioni cristiane nella piana di Ninive passando per il Kurdistan iracheno.
L’ultima tappa del viaggio apostolico era fissato nella regione autonoma del Kurdistan iracheno nel nord dell’Iraq che accoglie la gran parte dei rifugiati scappati da Mosul e da tutte le città devastate dalla guerra e dal sedicente stato islamico del Califfato. Il Papa ha concluso questi giorni con la Messa nello Stadio di Erbil nel Kurdistan iracheno.
Da Erbil, a Mosul e a Qaraqosh, con alcuni giornalisti ho scelto di andare in macchina con un pulmino per vedere la terra da vicino attraversando il territorio. Attraversando Mosul, che è stata la roccaforte del Califfato, mi ha fatto molta impressione vedere l’enorme distruzione del territorio, il deserto, i campi profughi senza niente, i fili spinati, un terreno sicuramente contaminato da armi, e poi lapidi di mussulmani e chilometri di cimiteri, cippi bianchi lungo la strada. Lì si ha l’immagine di cosa è il day after, che cosa rimane di un territorio che ha vissuto e subito 4 conflitti in 40 anni.
Questa seconda parte del viaggio del Papa parlava di guerra e di presenza dei cristiani.
A Mosul il Papa è andato a parlare della guerra. A Qaraqosh nella piana di Ninive ad incontrare le comunità cristiane sunnite. Ha fatto un incontro nella Piazza delle 4 Chiese, chiese bizantine antichissime, e a Mosul, con le rovine alle spalle, il Papa ha lanciato una preghiera: “Mai più la guerra” e ha visto le distruzioni da vicino, distruzioni che non riguardano solo gli edifici di chiese e moschee ma anche il tessuto sociale.
Dal 2017 Mosul è diventata la capitale dei terroristi dell’Isis. Il 6 agosto 2014 invasero la piana di Ninive costringendo 120.000 persone a fuggire in una notte.
Qui la comunità multireligiosa e multietnica aveva convissuto anche nella pace.
La piana di Ninive oggi conta 35.000 abitanti dei quali il 90% cristiani. Ma è importante dire che il Papa, parlando delle guerre che non devono essere strumentalizzate in nome di Dio, ha messo “i punti sulle i” su quello che riguarda un uso distorto della religione e non ha mai parlato di genocidio dei cristiani.
La vulgata mediatica prevalente ha sempre presentato questo esodo dei cristiani dai territori iracheni come un effetto diretto dei traumi subiti da parte dei Jahidisti, di questo sedicente stato islamico di Daesh. Negli anni 2014-2017 le milizie di questo Califfato hanno messo la loro bandiera e capitale a Mosul, spargendo delirio e terrore in tutta la piana di Ninive e in tutto il paese. Ma dobbiamo dire, a rigore di cronaca e di storia, che l’ultima impennata della fuga dei cristiani dall’ Iraq inizia da molto prima e trova la sue ragioni proprio in quel caos violento che ha spazzato via come in un vortice il paese dopo le operazioni militari a guida USA (anno 90-91 Desert storm e soprattutto poi l’Iraq freedom che portò via il regime di Sadam Hussein).
In questo Iraq, uscito da queste guerre impazzite, di squadre della morte, di rapimenti, di sevizie, è cresciuta la patologia dell’Islam settaristico. Quando il Papa parla di settarismi, li calcola veleno jahidista.
Non si può confondere lo jahidismo con i musulmani, come è stato fatto spesso in Occidente. Lo jahidismo non è islamismo: è una patologia che è cresciuta proprio in questo coagulo di violenze settarie, di odi venuti a seguito della guerra, delle continue guerre che in questo paese sono state perpetrate per un unico motivo, quello economico di estrazione di petrolio e per altri interessi, essendo il luogo cerniera del Medio Oriente, geo-politicamente interessante. Le reti che hanno fatto capo a al-Qaeda e altri gruppi di terrore, con soldi e ordini arrivati da fuori, accendono questi settarismi e i risentimenti e la sete di vendetta dilagano tra gli iracheni. In quegli anni i terroristi fecero stragi di cristiani a Bagdad, ammazzarono preti e un vescovo a Mosul. Il Papa appena arrivato è andato nella loro cattedrale. Nello stesso tempo subirono attentati anche le moschee sciite e sunnite. Quando arrivarono gli Jahidisti a Mosul erano rimaste poche persone anziane: le presero e le portarono via e sgozzarono tutti i capi sunniti.
Questo caos, questo cambio di regime, quest’epoca di instabilità ha fatto da incubatrice ai deliri che poi prendono il nome di Califfato.
È importante dire queste cose.
La fuga di massa avvenuta tra il 6 e 7 agosto 2011, quando quei cristiani nella piana di Ninive furono costretti a scappare, fu detto che fu un genocidio.
In realtà questa operazione non fu genocidio, perché oltre ai cristiani furono completamente ridotti in schiavitù anche gli yaziti. Il Patriarca Sako, anche nell’intervista che ha rilasciato in quel frangente, ha detto: “Se c’è stato un genocidio ha colpito i cristiani ma ancor più gli Yaziti, ma anche gli stessi sunniti e sciiti in un numero ancora più alto”. Non bisogna separare i cristiani dagli altri, le sofferenze dei cristiani da quelle degli altri, perché in questo modo si alimenta solo la mentalità settaria, che è quello che vogliono gli interessi delle grandi potenze. E anche Papa Francesco già nel 2016 aveva detto chiaramente di non fare riduzionismo sociologico di quello che è il mistero della fede, il martirio.
La persecuzione, il martirio, come insegna da sempre la Chiesa, non possono essere usati come rivendicazione in termini sociologici perché da sempre i martiri attingono e rimandano al mistero stesso della salvezza promessa da Cristo. Quindi lo sguardo cristiano non si confonde con i cultori degli scontri di civiltà e con le interpretazioni in chiave politico-mediatica dei patimenti sofferti dai cristiani. Invece in tanti anni abbiamo visto questa strumentalizzazione. La Chiesa non piange e non strumentalizza i suoi martiri, ma celebra nell’ Eucarestia i suoi martiri, perché i martiri sono per eccellenza dei ponti e non innalzano mai dei muri. La natura del martirio cristiano è diversa.
La connotazione martiriale ha sempre accompagnato la Chiesa. La beatitudine delle persecuzioni è prevista e garantita da Gesù ai suoi discepoli e il martirio è vocazione e dono che rende conformi a Cristo.
Faccio questa parentesi sulla natura del martirio, perché invece molto spesso si parla di martirio in senso strumentale anche qui, da parte di un Occidente che vuole disconoscere quella che è la natura della Chiesa e in nome di questa chiesa invece compie guerre che hanno devastato e ucciso milioni di persone, messe in fuga dalle loro terre dove hanno convissuto secoli e secoli diverse etnie e diverse religioni.

7. “SANTITÀ L’ACCOGLIAMO COME I NINIVITI ACCOLSERO GIONA, IL PREDICATORE DELLA VERITÀ”
Qaraqosh è la maggiore città della piana di Ninive a maggioranza cristiana, la più grande dell’Iraq. Qui abbiamo visto la folla, che accoglieva il Papa con i palloncini, e la differenza multietnica delle folle. Da un piccolo vicolo siamo entrati nella cattedrale di Altazira, dedicata a Maria purissima. Questo è stato un momento molto alto del Papa con la comunità.
Qui mi sono commossa nel vedere come è stato accolto il Papa nella cattedrale, che ora è tornata nel suo splendore con le sue colonne di marmo con il suo ampio chiostro. Questa cattedrale era stata presa dallo stato islamico, dagli jahidisti, come sede; avevano bruciato tutti i libri sacri, la avevano usata come poligono, negli archi si vedono i fori delle pallottole dove si divertivano a sparare. Tutto era stato incendiato. Adesso è ritornata al suo splendore. Questa folla ha accolto il Papa in festa con palme come a Damasco e cantava in aramaico, lingua madre del cristianesimo che risale al tempo degli Apostoli. Il Patriarca siro cattolico presentando questo arrivo del Papa alla sua comunità gli dice: “Santità noi l’ accogliamo come i niniviti accolsero Giona, il predicatore della verità”.
Io credo di essermi trovata in un momento storico anche per una esperienza molto personale. Nel 2007, quando il Papa era cardinale e arcivescovo di Buones Aires, gli feci un intervista che voleva essere una conversazione perché volevo capire da lui cosa erano state le fila profonde di Aparecida (4^ Conferenza dell’Episcopato latino americano), dove io ero stata col volo papale di Benedetto XVI.
Quell’occasione, che poi divenne un’intervista, resta per me ancora attualissima, perché ci sono le coordinate del suo pontificato. Qui parlò della misericordia, della missione. Io gli chiesi cos’è la missione.
Lui mi raccontò l’episodio biblico del profeta Giona nel contesto della missione e mi disse: “Giona aveva tutto chiaro, aveva idee chiare su Dio, aveva idee molto chiare sul bene e sul male, su quello che Dio fa e su quello che Dio vuole, su quelli che erano nell’Alleanza e su quelli che erano invece fuori dell’Alleanza. Aveva la ricetta pronta, ma Dio irrompe nella sua vita come un torrente e lo invia a Ninive. Ninive è il simbolo dei lontani, di tutti i separati e di tutte le periferie dell’umanità.
Giona vide che il compito che gli si affidava era solo dire a tutti quegli uomini che le braccia di Dio erano ancora aperte e che la pazienza di Dio era lì e li attendeva. Solo per questo Dio lo aveva inviato e lo mandava a Ninive. Io ho ricordato questa mia esperienza perché è testimonianza attuale di questo viaggio del Papa sull’esempio di quello di Giona.
Papa Francesco si è così portato anche nei luoghi emblematici dell’apertura alla missione. Portandoci alle origini dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni, da questo luogo sorgivo di fede, di fratellanza, della terra del nostro padre Abramo – dove si è accanita anche l’opera diabolica dell’odio e della divisione e dove sono nate anche le patologie della religione come gli Jahidisti – quasi a risanare Papa Francesco ha fatto ancora una volta progredire anche spiritualmente la Chiesa lungo quella dorsale che sono anche le strade maestre indicate dal Concilio. Anche questo nel segno dell’Evangelii Gaudium e come una benedizione.
Questo per dire quanto ancora sia inesplorata la filigrana profonda di un pontificato e quanto l’ampiezza di orizzonte di questo primo Papa di nome Francesco non si esaurisca in facili rimandi, luoghi comuni o cristallizzazioni pseudopolitiche.
Proprio mentre noi eravamo ad ascoltare nel viaggio di ritorno le sue risposte in conferenza stampa, il Papa ha spiegato come nascono i viaggi. Ha detto: “I viaggi si cucinano nel tempo, nel tempo della mia coscienza”. E per attuare questo ultimo viaggio, Lui aveva pensato e pregato tanto e alla fine aveva preso la decisione che veniva dal di dentro. A chi gli ha chiesto se non pensa di avere esposto gli altri a dei rischi, Lui ha risposto: “Colui che mi dà da decidere si occupi della gente e così ho preso la decisione, ma dopo la preghiera, la consapevolezza dei rischi, dopo tutto, perché nessun viaggio nasce senza ispirazione”. E ha proseguito: “Ascolto i consigli e alla fine prego e rifletto tanto e poi la decisione viene dal di dentro, quasi spontanea come un frutto maturo, ma è un percorso lungo”.
Quando il Papa ha detto questo, ho ripensato al 2007 quando mi parlava di Giona e della missione.

8. UNA COMUNE FIGLIOLANZA OFFERTA A TUTTI COME VIA DI SCAMPO
La conclusione non poteva che essere questa.
Rispetto a chi ha teorizzato con toni messianici il disordine, le guerre contro gli stati canaglia, gli assi del male come strumenti di riconfigurazione globale e radicale del Medio Oriente… ora risalta con più chiarezza la via segnata dal documento firmato nell’incontro di Abu Dhabi, da questo viaggio papale in Iraq che è solo l’esito di uno sguardo cattolico applicato ai segni dei tempi. “Proprio quello sguardo riconosce che il tempo è nelle mani di Dio, e nessuno può abbreviare – come ha scritto in uno splendido articolo Gianni Valente sull’Osservatore romano – gli anni e i secoli in cui dovrà ancora risuonare nel tempo della storia, che è il tempo della Chiesa, anche l’annuncio della salvezza promessa da Cristo”.
Cioè nel momento presente, i figli di Abramo ebrei, cristiani e mussulmani possono proporre a tutta la famiglia umana la via condivisa di una fratellanza che protegga il mondo da questi banditori dell’Apocalisse che vogliono anticipare i tempi della distruzione. Proprio mentre riconosce e confessa che la salvezza non è nelle mani degli uomini, una comune figliolanza offerta a tutti come via di scampo per uscire insieme dalla spirale di questo annientamento che il Papa in maniera lucida ci ha mostrato, facendoci capire che siamo dentro questa china, messa in moto anche dalle agenzie del terrore che appunto servono sempre per altri scopi e che finiscono solo per uccidere. Per questo allo stato presente delle cose non bisogna mai criminalizzare o umiliare anche la moltitudine orante dei credenti che rendono culto a Dio secondo il Corano.
Proprio loro, insieme a Ebrei e Cristiani, possono attestare davanti al mondo la fratellanza che li unisce nel nome di Abramo padre di tutti i credenti e solo per questa via si può anche impedire che il tetano jahidista e millenarista contagi nuovi adepti e trovi proprio in quelle masse islamiche, che sono frustrate, una manovalanza a buon mercato.
Come confessava il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer davanti all’imperversare del delirio nazista, “esiste una sorta d’inconscio discernimento, che nell’ora dell’estremo pericolo conduce chiunque non voglia cadere sotto i colpi dell’Anticristo a cercare rifugio in Cristo”.

Stefania Falasca
* Vaticanista e editorialista di “Avvenire”

Trascrizione dalla viva voce, non rivista dall’autrice.